FEDE NELLA DEMOCRAZIA
di Marco Vitale
Dialogo autentico raccolto da Marco Vitale tra due
cari amici.
Qualche giorno fa, ho incontrato con un
amico manager, un vecchio amico protagonista di grandi battaglie politiche in Italia.
La conversazione è caduta inevitabilmente sull’esito elettorale e sull’evidente
disaffezione dell’elettorato verso la politica. La sua tesi è che se
consideriamo i non votanti e coloro che hanno espresso un voto di protesta,
oltre il 70% degli aventi diritto non si sente rappresentato. Occorre ripartire
da qui e rivolgersi a questi cittadini, organizzando una grande assemblea degli
“esterni”, dice lui. Ma quando siamo passati ai contenuti la conversazione si è
fatta più incerta. Ti ricordi, ha chiesto l’amico manager, qual è stata
l’ultima legge elettorale in vigore prima della presa definitiva del potere da
parte del regime fascista? La legge Acerbo, che prevedeva liste bloccate,
proprio come quella con cui stiamo votando in questi anni. Io non ho paura del fascismo
e sono sicuro che gli esponenti di questa destra, che non sempre riescono a
fugare il dubbio di una lontana colleganza con i nostalgici di quell’epoca, una
volta al vertice delle istituzioni daranno il meglio di sé stessi. Perché
questa costituzione ha una straordinaria dote: nobilita i suoi attori. Ma mi
meraviglio che tu e la quasi totalità dei protagonisti della politica italiana,
non vediate in questa legge elettorale una delle principali fonti della
disaffezione degli elettori.
Certo non la sola. Partiti
padronali e liste bloccate sono due facce della stessa medaglia. A cui
aggiungerei il taglio dei parlamentari. A me fa un po’ paura, non questa
destra, non i presunti nostalgici del fascismo, ma che in tutti i partiti
italiani una o due persone decidano gli eletti, che essendo peraltro meno è
pure più facile comandare. Insomma 10, forse 20, persone in Italia decidono,
con una confidenza del 90%, il nome di 600 parlamentari. Ti sembra poco questo
per ripartire? Che cosa ritieni che possa pensare l’elettore a cui è stato
sottratto il legittimo voto di preferenza, quando legge nel suo collegio nomi
di capilista che nel suo territorio non sono mai venuti nemmeno in vacanza? Pensa
che il suo voto è inutile, anzi dannoso perché legittima questo status quo. Allora
riparti da questo amico mio. Ridiamo al popolo il diritto di scegliere i propri
rappresentanti e rimettiamo in moto la democrazia interna ai partiti, dove
dirigenti seri possano esprimere liberamente il diritto di critica senza temere
rappresaglie. Questa è una battaglia che capisco, il resto lo lascio a te che
di politica ne sai molto più di me,
ha concluso l’amico manager.
Questo dialogo mi suggerisce alcune riflessioni. Le democrazie comprendono
una minoranza della popolazione mondiale e sembrano in ritirata. Ma, allora, perché
tanti popoli o privi di democrazia o soffocati da democrazie malate, come
l’Ucraina e il Brasile, aspirano a rientrare in una vera democrazia? E perché
tanti che l’hanno conquistata, come il popolo italiano con la sofferenza e la
Resistenza, rischiano di buttarla via per stanchezza, demoralizzazione, nausea?
Perché abbiamo troppo poca fiducia (o meglio fede) nella democrazia. Lo
ha spiegato molto bene in un bel articolo sul Corriere della Sera del 7
novembre 2022 Federico Rampini. Quando Biden, per cercare di vincere le
elezioni di Midterm, afferma: “Alle urne per tutti noi sarà in gioco la
democrazia” dimostra ben poca fiducia nella democrazia americana. Perché se i
toni drammatici di questa chiamata alle urne di Biden fossero fondati, ciò
vorrebbe dire che circa il 50% del popolo americano è contro la democrazia. Ma
non è vero. Proprio in occasione dell’avventuriero Trump la democrazia
americana ha dimostrato di avere dei solidi anticorpi e di saper resistere e
sopravvivere al Trump di turno. Lo stesso si può dire per il Brasile. Che cosa
ha aiutato Lula a ridare al suo popolo una nuova speranza, nonostante la
violenza, la corruzione, la capacità di mobilitazione esercitata da un quasi
dittatore, massacratore dell’Amazzonia, se non la fiducia (o meglio fede) nella
democrazia sua e di una parte importante del suo popolo, la parte più debole
ma, per ora, ancora la più numerosa? Leggo suggerimenti da varie fonti di
rimedi per “sanare” le debolezze delle democrazie. Ma il malanno vero da curare
è uno solo: bisogna curare, coltivare, rafforzare la partecipazione del popolo.
Quando la partecipazione funziona la democrazia sa difendersi da ogni
avventuriero o demagogo con i suoi anticorpi. E se è vero che la partecipazione
non si mantiene solo con il voto politico, è altresì vero che senza un voto
politico realmente libero, partecipato, informato, a persone conosciute e che
lo meritano, la partecipazione è destinata a diminuire, seccarsi e, alla fine,
sparire, come con la legge Acerbo. Non esiste la minima speranza che le forze
politiche organizzate mutino nella direzione giusta l’attuale legge elettorale.
Essa non è errata. Essa è stata voluta per lo scopo per il quale è stata creata,
allontanare il più possibile gli italiani (per ora il 70% degli aventi diritto)
dal voto e da una autentica partecipazione democratica e sta perseguendo molto
bene l’obiettivo per cui è stata concepita. Ecco perché l’unica speranza è che
si crei un movimento di popolo, guidato da alcuni leader politici coraggiosi,
che si proponga un unico obiettivo: proporre al Parlamento o al Paese una legge
elettorale civile e convincente per tenere alta la bandiera della
partecipazione. E se questo movimento sarà sorretto da una larga partecipazione
di popolo il Parlamento dovrà tenerne conto.
Se c’è un esempio di democrazia scassata come quella italiana se non
peggio, questo è quello degli Stati Uniti dal 1896 al 1916, l’età delle
riforme: la corruzione era immensa, la politica era la via per l’arricchimento,
il sistema del “caucus” (riunioni quasi private dei dirigenti di partito che decidevano
i candidati alle varie cariche pubbliche) dominavano a livello statale e
municipale. Da movimenti di base si mise in moto un forte movimento riformista
di popolo (caratterizzato da valorosi chiamati, i ficcanaso) che presto trovò i
suoi leader politici (dai giovani Theodore Roosevelt e Robert M. Follette) che
lo trasformarono in programmi politici e legislativi. Come scrivono Nevins e Commager
(Storia degli Stati Uniti) molte di queste riforme “si riferivano alla
democratizzazione della macchina politica: iniziativa (legislativa) popolare e
referendum, voto segreto, “direct primaries”, elezione diretta dei senatori,
leggi contro la corruzione, disposizioni per l’autogoverno municipale, suffragio
femminista”. Non posso andare oltre su questo movimento di riforme democratiche
che poi toccarono l’economia, l’istruzione, le questioni sociali, la tutela
dell’ambiente. Ma chi legge il capitolo XVII: “l’età delle riforme” del libro
citato non può non venire colpito dalla fede nella democrazia che mostrò allora
il popolo americano, ponendo così in salvo la sua libertà e la sua dignità che
erano veramente in pericolo. A quell’America e non a quella di oggi dobbiamo
ispirarci.