GLI SCRITTORI E LE CITTÀ
di
Giuseppe Langella
Senigallia,
a piedi nudi sul velluto
Vivo a Milano da cinquant’anni, ma sono
nato nelle Marche. Senigallia è la città della mia adolescenza. Ci ho vissuto
per poco più di dieci anni, dalla terza elementare alla fine del liceo, ma
nella mia memoria quella breve stagione è diventata un tempo infinito, remoto e
leggendario: un trapassato anteriore, mi verrebbe da dire, se una simile dimensione
fosse contemplata nella coniugazione dei verbi.
I
senigalliesi non godono di buona fama. Un antico detto, sul loro conto, suona
come un marchio d’infamia: «Sinigaglia, mezza ebrei, mezza canaglia». Un po’
sarà anche vero, non dico di no. Del resto, il nome parla chiaro: la città fu
fondata dai Galli Senoni, quelli di Brenno, che mise a sacco Roma e pretese
mille libbre d’oro più il peso della sua spada per riscattarla, gettando in
faccia ai senatori l’arrogante vae victis. Le origini di Senigallia spiegano,
fra l’altro, perché il dialetto che vi si parla sia molto simile al romagnolo:
un’altra lingua, rispetto al ceppo romanesco e al ceppo ascolano che si
dividono il resto del territorio marchigiano. La città fu poi teatro di un
fatto di sangue tristemente passato alla storia: la strage di signori e
feudatari ordinata dal duca Valentino al termine di un banchetto. Vatti a
fidare di un Borgia! Ma qui la proverbiale “canaglieria” dei senigalliesi
c’entra poco, perché il Valentino era mezzo spagnolo e originario di Subiaco. Insomma,
per farla breve, ogni mondo è paese, sicché a buon diritto, ai forestieri che li
accusano di essere “canaglia” i senigalliesi, sardonici, ribattono per le rime:
«Ma se guardi bene bene, è più canaglia chi ci viene».
Il
fatto è che Senigallia, già eminente in epoca bizantina, quando faceva parte
della Pentapoli, e poi costituita in porto franco, fino al Settecento è stata
uno scalo marittimo fra i più importanti del medio Adriatico e un fiorentissimo
centro commerciale, famoso specialmente per una fiera che attirava mercanti da
tutta l’area mediterranea. La sua fama dev’essere arrivata anche all’orecchio
dei milanesi, se ancora oggi un mercatino delle pulci in zona Ticinese prende
il nome di Fiera di Sinigaglia. Si deve a questo rigoglio di commerci l’insediarsi
in città di una copiosa comunità ebraica. Anche Senigallia ha avuto il suo
ghetto. I velieri, imboccato il porto, potevano risalire per alcune centinaia
di metri il corso del fiume Misa, canalizzato. Del fasto di quei secoli aurei
restano, su una delle due sponde, i solidi portici Ercolani, dove si
affacciavano negozi, empori, fondachi e botteghe artigiane.
Il Foro Annonario
Sotto
quei portici ho venduto anch’io, da ragazzo, nei giorni di fiera, bellissime
ceramiche umbre e toscane, al banco di un mercante di Montelupo Fiorentino. Ma
per tutto il tempo del liceo essi sono stati parte cospicua del mio tragitto
quotidiano per recarmi a scuola. Il liceo “Perticari”, infatti, aveva sede,
allora, proprio nel primo degli edifici porticati, sopra la Biblioteca civica.
Dalle finestre delle aule che davano sul Misa si vedevano il porto, il molo e
il faro, del quale mi è rimasta impressa soprattutto la lugubre sirena che
veniva messa in funzione nelle lunghe notti di nebbia, per segnalare la
posizione ai pescherecci. Qui la geografia della regione la fa da padrona: le
Marche dal punto di vista climatico sono divise in due dal monte Conero: la
nebbia, la neve e la bora, che imperversano a nord del Conero, a sud sono
pressoché sconosciute.
Ma,
per tornare al portico del mio liceo, durante la Grande Guerra fu preso di mira
dalla flotta austriaca: due cannonate colpirono la stessa colonna,
scheggiandola da un lato e dall’altro, senza peraltro abbatterla, forse perché
era, come la sapienza che reggeva, aere perennius. Assai più devastante
fu il violentissimo terremoto che colpì Senigallia nel 1930: nel centro storico
nove edifici su dieci vennero dichiarati inagibili. Crollò fra l’altro il
teatro La Fenice, fiore all’occhiello della cultura cittadina. Di questa enorme
ferita molti palazzi recano ancora tracce visibili, con le pareti esterne inchiavardate.
Prima
che suonasse la campanella e sempre, comunque, quando ci si trovasse in zona,
si faceva sosta da Mancinelli. C’erano dei nomi, a Senigallia, che correvano
sulle bocche di tutti: Bonvini, Peverelli, Pacenti, Marcellini… Neanche a
dirlo, tutti esercizi commerciali. Se volevi il prosciutto nostrano, tagliato
col coltello, dovevi andare da Forcinoni, mentre il pane più buono e croccante
lo trovavi da Pasquini. La fragranza della pizza che vendeva Mancinelli
prendeva al lazo e non c’era verso di resisterle: che merende, ragazzi,
all’intervallo! L’unico inconveniente è che lasciava sempre qualche traccia
indesiderata d’unto…
Rocca Roverasca
Poco più in là si apre il Foro Annonario, altra gloria, non solo architettonica, di Senigallia. Vi prego di pensare per un attimo a piazza San Pietro, a Roma, con la facciata della basilica in fondo e i due colonnati a semicerchio che vi accolgono come due grandi braccia. Ecco: il Foro Annonario è una piazza San Pietro in formato ridotto. Il paragone è un po’ irriverente, e me ne scuso, ma rende bene l’idea, specie per chi non è mai stato a Senigallia. Mi corre l’obbligo di precisare, tuttavia, che al posto della basilica si apre la pescheria, arieggiata ma al coperto. I portici laterali, invece, sono appannaggio delle carni terrestri. Ce n’è per tutti i gusti, crude e cotte; e vi posso assicurare che il profumo dei polli allo spiedo o delle porchette arrosto, almeno quando accompagnavo la mia mamma a far la spesa, durante le vacanze, riusciva a coprire persino l’odore del pesce lì vicino. Al centro del Foro, poi, si assiepano le bancarelle della frutta e verdura. Ricordo che, allora, spesso erano costituite da semplici carretti. Li spingevano a forza di braccia, tutte le mattine, delle robuste contadine che scendevano dalla campagna col fazzoletto in testa, legato sotto il collo, come se dovessero andare in chiesa. Percorrevano a volte diversi chilometri. La merce, raccolta poche ore prima dall’orto o dalla pianta, era freschissima, matura al punto giusto e piena di sapore. Quando ci si trovava in mezzo a quella bolgia festosa, si rimaneva quasi frastornati, tanto erano il cicaleccio e i richiami. D’altronde, si sa, all’aperto bisogna per forza alzare la voce per farsi sentire e le contadine, vuoi per attirare le massaie, vuoi per punzecchiarsi l’una con l’altra, ci davano dentro che era un piacere.
La Fontana del Nettuno
'il Monc in piazza
Perciò,
se volete parlare in santa pace con qualcuno, non datevi appuntamento al Foro
Annonario. È un altro, piuttosto, il luogo dove a Senigallia ci si incontra, da
tempo immemorabile: «giù pel corso». Per completezza toponomastica,
bisognerebbe aggiungere 2 giugno, ma per i senigalliesi, ancorché accesi
repubblicani, quello è, per antonomasia, il “corso”, la via dei negozi e dello
struscio: duecento metri, mica di più, ma ad altissima densità di popolazione,
specie a partire da una cert’ora del pomeriggio. Quasi a metà si apre la
piazzetta del Comune, con la Fontana del Nettuno. Beh, ammetto che non può
competere con la Fontana di Trevi, ma tutti i senigalliesi le sono affezionati;
alla maniera loro, s’intende: poiché, infatti, la statua del dio marino,
probabile ritrovamento archeologico di epoca romana, è mutila di entrambe le
braccia, essi l’hanno ribattezzata, con la solita pepata arguzia, «’l monc in
piazza» (ovvero, il monco in piazza). E gli è andata di lusso, al povero
Nettuno, perché col busto e le ginocchia lievemente piegati e quella torsione
delle spalle, non fosse per le due sirene che gli nuotano ai piedi, potrebbe
essere scambiato anche per un contadino intento a spostare il fieno col
forcone… Ma, con tutto ciò, è bello a vedersi, sulla sua vasca a forma di
conchiglia, e più di un turista gli affida un desiderio, gettando nell’acqua
una moneta.
'il Monc in piazza