LA LEGGE DI BILANCIO
di
Alfonso Gianni
La legge di bilancio: vecchio neoliberismo e nuova
cattiveria sociale.
Era
davvero difficile immaginare uno spettacolo peggiore di quello fornito nella
seduta della Camera che, con il voto finale, ha dato il via alla seconda legge
di bilancio del governo Meloni. Soprattutto per chi lo guardava con gli occhi
di una necessaria opposizione. È andato in onda - termine appropriato vista la
diretta televisiva delle dichiarazioni di voto - il cosiddetto “patto del
cotechino”, maliziosa ma più che giustificata definizione giornalistica, con
cui è strato descritto l’accordo precedentemente preso nella conferenza dei
capigruppo. Ovvero il governo rinunciava ad apporre la questione di fiducia e
le opposizioni riducevano a 90 la miriade di emendamenti in precedenza
sbandierati, rinunciando ad ogni forma di ostruzionismo. Accontentandosi della
certezza che le dichiarazioni di voto sarebbero andate in diretta televisiva
tra le 18 e le 19. Non solo il cotechino, ma, come vuole la tradizione, anche
il piatto di lenticchie. Della diretta televisiva peraltro ha approfittato soprattutto
il capogruppo di Fratelli d’Italia per rilanciare, davanti a un pubblico ben
più largo, le deliranti parole della chiusa del manifesto futurista di Filippo
Tommaso Marinetti, tanto per chiarire che la cultura fascista, compresa quella
d’antan, è stata ormai pienamente sdoganata in tutte le sue varianti. Il
governo poi si sarebbe mostrato disponibile verso gli ordini del giorno, come
si sa privi di qualunque valore vincolante, accogliendoli in toto o come
raccomandazione. Eppure non ci voleva molto a portare l’Esecutivo all’esercizio
provvisorio. Seppellendo così tutte le dichiarazioni sulla maggiore efficienza
del governo in carica spese a piene mani dalla Presidente del Consiglio. Il
senso dello stato del Pd non ne avrebbe sofferto più di tanto, visto che il
ricorso all’esercizio provvisorio non poteva menare scandalo dal momento che
sarebbe stato lo sbocco più che logico di una manovra presentata come blindata
dallo stesso governo, vero responsabile dello stritolamento delle regole che
sovraintendono la discussione della legge fondamentale dello stato.
Proprio
questo comportamento finale delle opposizioni parlamentari - rispetto al quale
singoli deputati hanno rilasciato dichiarazioni o contrarie o pentite, ma ex
post - alimenta la sensazione che, al di là dei toni di voce, questa manovra da
28 miliardi finanziata in deficit per 15,7 miliardi, è stata presa sottogamba.
Forse non si tratta solo di una incosciente sottovalutazione, ma del fatto che
in fondo essa stabilisce una continuità con la politica economica perseguita da
Mario Draghi e dal suo governo - che potrebbe essere definito di “unità nazionale”
- seppure con l’indigeribile condimento di una particolare cattiveria sociale.
Essa, infatti, si colloca entro l’alveo di una manovra pro-ciclica, persino
restaurando la teoria della neutralità delle manovre di bilancio rispetto
all’andamento dei mercati, rimanendo costretta nel letto di Procuste delle
scelte economiche e finanziarie della Ue e della Bce, peraltro sostenute con
entusiasmo dalla Meloni nel suo continuo girovagare per il vecchio continente.
A questa sottomissione si è cercato di apporre la foglia di fico del diniego
parlamentare alla cosiddetta riforma del Mes. Il massimo dell’ipocrisia fino
alla sfacciataggine. Il Parlamento, o
quello che resta dopo il taglio dei parlamentari, prima viene travolto da una
valanga record di decreti-legge e di voti di fiducia, poi viene resuscitato
quando serve ad evitare strappi letali nella maggioranza di governo, le cui
opinioni sul Mes non sono come è noto concordanti.
Persino
su questa questione non si è levata una voce che riprendesse la critica da
sinistra al Mes, visto che anche Sinistra italiana - per non incrinare il suo
rapporto con i Verdi - si è rifugiata nell’astensione. Eppure la vicenda del
Mes più che importante in sé, lo è soprattutto per i suoi nessi con i cambiamenti
previsti nel Patto di stabilità e crescita, presentati come un nobile
compromesso dal ministro Giorgetti, ma che tutti giudicano peggiorativi della
stessa proposta precedentemente avanzata dalla Commissione europea.
L’accusa
di antieuropeismo lanciata dalla stampa mainstream nei confronti di chiunque
osi opporsi al Mes appare grottesca anche dal punto di vista formale. Va
ricordato che il Mes non è una istituzione europea - con buona pace di Carlo
Cottarelli che così la giudica “di fatto” -, ma un organismo istituito il 2
febbraio del 2012 in base ad un accordo tra i governi dell’eurozona. È un parto
della logica intergovernativa che ha dominato con sempre maggiore insistenza
nei vertici europei. Il suo compito è l’assistenza finanziaria ad uno Stato
membro che la richiede, ma che per ottenerla deve passare le forche caudine
della valutazione di sostenibilità del debito. Nella versione “riformata” tale
valutazione compete, oltre che alla Commissione europea, alla Bce e, se
necessario, al Fmi, anche agli organi del Mes e al suo direttore generale. In
sostanza il Mes diventa una figura ibrida, una po' una banca e un po'
un’agenzia di rating. Soprattutto perché il monitoraggio sulla sostenibilità
avverrebbe anche nei confronti dei paesi che non hanno ancora richiesto un
intervento del Mes, con la giustificazione di rendere l’organismo sempre pronto
ad ogni bisogna.
Se
si considerano assieme questo ruolo del Mes con la “riforma” del Patto di
stabilità e crescita, che il governo italiano ha invece sottoscritto, si
ravvisa una evidente duplicazione delle competenze già in capo alla Commissione
europea, la quale dovrebbe valutare proprio le condizioni finanziarie in cui si
trova ogni singolo paese, in via preliminare alla accettazione del piano di
rientro dal debito proposto dal rispettivo governo. Essendo il Mes un organo
indipendente rispetto alle istituzioni europee, la sua interferenza potrebbe
portare a valutazioni divergenti da quelle della Commissione, con la
conseguenza di complicare il processo decisionale o addirittura di rivedere il
piano. In ogni caso il messaggio lanciato ai famigerati mercati non sarebbe dei
più confortanti. Il “compromesso” - tale
lo ha definito Giorgetti - sul Patto di stabilità contiene, per alcuni aspetti,
elementi addirittura peggiorativi rispetto alla stessa formulazione della
Commissione. L’aggiunta delle nuove funzioni del Mes renderebbe ancora più
evidente non solo la ristrettezza dei margini economici per manovre espansive -
se non per spese belliche - ma una forma di commissariamento dei governi
nazionali, che potrebbe stringersi ulteriormente in una gabbia a seconda del
quadro economico interno ed internazionale. C’è chi pensa di riaprire la
questione dopo le elezioni europee, altri che già progettano un Mes a 19 paesi,
con l’Italia fuori. Ma non è certo questo Mes, e il nuovo Patto di stabilità che
potrebbero spingere verso un’Europa solidale. Se si scorrono le varie norme che
compongono la manovra di bilancio, la cattiveria sociale, cui la Meloni ha
fatto ampio ricorso, forte di un consenso tutt’altro che intaccato - più per
demeriti di chi dovrebbe contrastarla che per le sue virtù - emerge con
chiarezza. La sbandierata conferma del taglio del cuneo fiscale vale solo per
il 2024. Il rischio per i lavoratori di una terribile sorpresa a fine anno c’è
tutto. A nulla è valso persino il monito elevato da Bankitalia, in sede di
audizione sulla Nadef, per cui “A
fronte di nuovi oneri di natura permanente (come quelli connessi con la
riduzione del numero delle aliquote dell’Irpef) o di difficile rimozione (come,
presumibilmente quelli risultanti dal taglio dei contributi sociali) è sempre
opportuno individuare coperture certe, di entità adeguata e con natura
altrettanto permanente”.
D’altro
canto la riduzione delle aliquote Irpef viene attuata non solo sotto la spada
di Damocle della mancanza di fondi per confermarla a fine 2024, ma come tappa
verso la distruzione del principio costituzionale di progressività nel prelievo
fiscale con l’introduzione della famigerata flat tax. Al peggio non c’è fine.
Così se ne vanno il reddito di cittadinanza, seppure nella forma spuria con il
quale era stato introdotto, per non parlare delle promesse di smantellare la legge
Fornero, al contrario irrobustita dalle maggiori difficoltà introdotte sul
pensionamento anticipato. Il personale sanitario, gratificato di eroismo
durante l’incedere della pandemia, viene ora punito con misure penalizzanti per
le sue pensioni, appena un poco ammorbidite nell’ultima versione della legge.
L’Iva sull’intimo femminile e su ciò che serve per l’infanzia sale dal 5% al
suo doppio. L’emergenza abitativa rimane tale e senza risposta, se non quella
offensiva di destinare 50 milioni di euro, la metà di quanto ha previsto
recentemente il comune di Roma. E si potrebbe continuare in un lungo doloroso
elenco. Non si può però dimenticare che per il giocattolo di Salvini, il ponte
sullo Stretto, si prevede che a pagarlo saranno le regioni più in difficoltà,
visto che le risorse necessarie vengono stornate dal Fondo di sviluppo e
coesione.
Eppure
il 2024 si presenta come un anno duro da tutti i punti di vista. Le due
principali guerre in corso, in Ucraina e in Palestina - ma ce ne sono una
sessantina sparse per il globo - non accennano a finire per dichiarazione
esplicita dei loro protagonisti. L’Italia è quindi perfettamente allineata - e
a questo serve una manovra di questo tipo - entro un’economia di guerra. Le cui
spese sarebbero salvate dalla riforma del Patto di stabilità. I tassi di
interesse hanno smesso di crescere, ma sia sul versante Usa che su quello Ue,
non hanno ancora intenzione di scendere. I più ottimisti tra gli economisti
prevedono che se un taglio ci sarà entro il 2024 sarà nella seconda parte
dell’anno e modesto.
Infine,
uno sguardo al mercato del lavoro di casa nostra stoppa gli ottimismi della
propaganda governativa. I recenti dati ufficiali di fonte Istat parlano sì di
un massimo storico di occupati a novembre ’23, ma delle 520 mila persone in più
al lavoro, 477 mila hanno più di 55 anni, ovvero il 92% dell’incremento
occupazionale. Il che conferma che si tratta degli effetti della legge Fornero
che costringe al lavoro chi altrimenti se ne sarebbe già andato e non di un
boom occupazionale, con la conseguenza che il nostro mercato del lavoro è
soggetto a un continuo invecchiamento. Il tasso di inattività raggiunge il
33,1%, ovvero un terzo della popolazione potenzialmente attiva non ha e non
cerca lavoro. Ed è difficile affermare che ciò sia attribuibile alla
liberazione dal lavoro soggettivamente perseguita e susseguente alla fase
pandemica, come si va sostenendo con troppa leggerezza. La media del tasso di
inattività nella Ue è del 25,5%, in Germania siamo al 20%, in Francia e Spagna
al 26%. Percentuali che confermano la debolezza strutturale del nostro mercato
del lavoro, per il quale necessiterebbe una politica specifica finanziata,
questa sì, anche in deficit, alla faccia della costituzionalizzazione del pareggio
di bilancio la cui assurdità è ormai storicamente dimostrata anche dalle ultime
fasi che l’economia sta attraversando. Una politica di alternativa non consiste
nel giocare di rimessa rispetto alle pessime mosse del Governo. Ma significa
fare prevalere nel sociale e nelle istituzioni priorità diverse - o almeno
cercare di farlo - cioè un’altra agenda come soleva dire il compianto Stefano
Rodotà. E questo non si fa con qualche dichiarazione alla stampa e tanto meno con
i “patti del cotechino”.