PERCHÉ ERA GIUSTO…
di Patrizia Cecconi
Quella che vi racconto è una storia
piccola. Una di quelle storie così piccole che di solito restano confinate
nell’ambito familiare. Doveva essere il 1943 quando avvenne il fatto che io
scoprii da bambina piccola, verso la metà degli anni Cinquanta. Mia nonna,
protagonista di questo fatto, lo raccontò per caso, perché a quei tempi non ci
si faceva belli per aver fatto una cosa che semplicemente sembrava giusta. Ogni
tanto nella mia famiglia veniva fuori qualche ricordo legato agli anni del
fascismo e della guerra, ma sempre così, incidentalmente, come quando scoprii
che mio nonno materno aveva un solo dente perché gli altri li aveva persi tutti
il giorno che i fascisti lo massacrarono con i sacchetti di sabbia, lasciandolo
con quasi tutte le ossa rotte, quasi immobilizzato per circa sei mesi. Venne
fuori così, durante un grande pranzo di famiglia in onore di vecchi zii che
erano venuti a trovarci e ricordavano i tempi in cui erano stati al confino e
quelli in cui, insieme a Di Vittorio, mio nonno aveva dovuto lasciare Cerignola
per non essere ammazzato dalla banda dei Caradonna. Era stata una grande festa
familiare tra persone che non si vedevano da tanti anni e che avevano un
passato che ancora li univa. In questi casi, si sa, i racconti epici non
possono mancare! Insomma, sempre per caso venivano fuori tante di quelle storie
che formano l’humus, ma in modo impercettibile, della Storia, quella che si
legge sui libri. E un giorno capitò per caso anche un ricordo di mia nonna
paterna, rievocato da una cosa da nulla. L’ho già raccontato in un’altra
occasione, ma oggi lo racconto per Odissea.
Squadristi fascisti
Era un giorno d’estate e faceva molto caldo. Io ero una
bambina di circa cinque anni e avevo i capelli lunghi e biondi che erano
l’orgoglio di mia madre, quindi li tenevo sempre sciolti sulle spalle. Ma quel
giorno faceva molto caldo e mia madre decise di farmi le trecce.
Mia nonna paterna che
viveva con noi aveva sempre tante storie della sua gioventù da raccontarmi.
Storie così straordinarie e divertenti che ancora me la fanno ricordare con un
po’ di nostalgia. Era molto vecchia mia nonna, era nata a fine Ottocento da una
famiglia, allora ricca, delle Marche “papaline”, ma era analfabeta perché aveva
imparato a ricamare, a ballare e pure a ripetere le preghiere in latino – un
latino che ve lo raccomando! – ma aveva frequentato solo per pochi giorni la
prima elementare e poi, chissà perché, aveva lasciato la scuola. Insomma, non
era stupida mia nonna, ma era una donnina ignorante.
Quando mi vide con le
trecce si portò le mani al viso, sbarrò gli occhi come se avesse avuto chissà
quale visione e con l’accento umbro-marchigiano che non aveva mai perduto
esclamò «Oh Gesù mio, sei proprio come quella
pupa! Oh Dio, oddiomio quanto je somigli! Pure lei portava le trecce, proprio
come te! Biondina, piccoletta, c’avrà avuto manco cinqu’anni, proprio come te!» Poi, seguendo il suo ricordo, proseguì: «Ma che paura! Mammamia ancora me lo ricordo. Che paura!» e allungava sempre molto sulla u come se quella
paura non l’avesse ancora lasciata.
Io ero là, davanti a lei,
con le trecce. Mia madre, abbastanza impaziente, temendo qualche racconto che
mi avrebbe affascinato e a lei avrebbe fatto perdere tempo, disse: «Vabbè, ora andiamo, saluta nonna che usciamo».
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