UMANOIDI
di Angelo Gaccione
Un po’ di
tempo fa volli fare un esperimento: andare a piedi da Porta Romana a Porta
Venezia e constatare quante parole avrei scambiato nel corso di questo
tragitto. Si tratta di un tragitto non breve, ma io sono abituato a camminare e
ad esplorare la città e dunque, non mi ero affatto perso d’animo. Naturalmente
non ebbi modo di scambiare una sola parola e nemmeno il più semplice dei
saluti, come accade agli abitanti di città molto grandi come Milano. Di
ritorno, anche per riposarmi un attimo, entrai in una gelateria e ordinai un
cono; fu il solo modo per scambiare qualche frase con il giovane gelatiere.
Ovviamente nella mia città di nascita non sarebbe mai accaduto; per quanto la
desertificazione migratoria degli ultimi decenni l’abbia svuotata, in un
percorso di pari lunghezza sarebbe stato impossibile non incontrare un
significativo numero di persone conosciute con cui parlare e scambiare almeno
un breve saluto. Di recente a Milano, in una fiera dedicata all’intelligenza
artificiale, è stato presentato un umanoide in grado di sostenere una
conversazione. I commenti erano entusiasti: presto gli anziani e gli ammalati
si sentiranno meno soli ed emarginati, grazie alla loro compagnia. Ignoro il
costo di questi robot dotati di parola, ma a me l’idea ha messo tristezza. Gli
esperti comunque dicono che ci abitueremo tutti, nei tempi a venire, alla
presenza in casa di un umanoide composto di pezzi meccanici, schede magnetiche,
sensori e quant’altro. Sarà il suo braccio metallico a farci una carezza se
saremo tristi, a portarci un bicchiere d’acqua se avremo sete, e sarà la sua
voce, sempre più perfettamente simile alla nostra, a darci il buongiorno.
Trentacinque anni fa, e precisamente nel novembre del 1989, scrissi un
brevissimo testo teatrale in cui non viene pronunciata una sola parola dal
protagonista. Nessuna parola umana fa eco in quella casa, come se le parole
fossero state abolite. Si odono solo voci, suoni e rumori emessi dagli oggetti
tecnologici di cui ci siamo circondati, e che possiamo considerare come delle
“protesi” non del tutto virtuali del nostro tempo. I gesti sono ancora presenti
in quella pièce, alcuni per lo meno, ma si trattava, come ho detto, di un tempo
lontano.
Oggi le luci si accendono al nostro passaggio senza dover girare alcun
interruttore e si spengono senza dover pigiare un pulsante; basta un clic per
aprire e chiudere la portiera di un’auto; la nostra voce per farci dire dalla
radio che ora è o attivare un apparecchio; le nostre impronte digitali per
programmare l’accensione del riscaldamento o innaffiare le piante del salotto a
distanza. Il più semplice dei robot sa pulire i pavimenti e raccontarci una
fiaba. L’androide sociale Sophia, creato da una compagnia di Hong Kong, può essere intervistato e darvi
risposte coerenti e grammaticalmente corrette come una persona di buona
cultura. Mentre di recente la startup Oversonic Robotics ha creato Robee, il primo androide
cognitivo prodotto in Italia, in grado non solo di fare tutti i lavori più
pesanti, noiosi e pericolosi, ma come accennavo più sopra, addirittura di dialogare
con noi. In verità i computer già da tempo dialogano fra loro da un capo
all’altro del mondo. Si confrontano preziosamente sul piano medico salvando
vite, ma purtroppo anche su quello militare guidando missili che portano morte,
armi di sterminio che potrebbero farci saltare tutti in aria per un banale
errore di valutazione. La mano è sempre dell’uomo, anche quella che programma gli
androidi perché provino empatia e si commuovano con finte lacrime, come certe
bamboline che regaliamo ai nostri bimbi. Io preferisco quelle vere che nascono
dalla carne, dal sangue, dall’orrore. E preferisco un brandello di dialogo con
un essere vivo che ha conservato un’anima, non con un ibrido che non potrà mai
averne una.