UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 20 gennaio 2015

La lesa maestà del sindaco di Falcone
Fra due giorni, il 22 gennaio, ci sarà l’udienza presso il Tribunale di Patti
sul giornalista siciliano Antonio Mazzeo, nostro collaboratore.
Dovrà decidere sulla richiesta di archiviazione. La sua colpa? Denunciare
il marcio e difendere il bene collettivo.

Antonio Mazzeo

“Il giornalista, seppur utilizza toni particolarmente forti ed espressioni suggestive, a parere di quest’ufficio, non travalica il limite di critica politica/storica posto che nella ricostruzione della storia del Comune di Falcone richiama fatti da sempre ricollegati al paese nonché problematiche sociali che attengono alla realtà del territorio locale”. Così scrive la dott.ssa Francesca Bonanzinga, Pubblico ministero del Tribunale di Patti (Messina), nella richiesta di archiviazione depositata il 7 febbraio 2013 nei confronti del giornalista Antonio Mazzeo, querelato dal Comune di Falcone per un’inchiesta pubblicata sul periodico “I Siciliani giovani” (n. 7 luglio-agosto 2012), dal titolo “Falcone comune di mafia fra Tindari e Barcellona Pozzo di Gotto”.
L’inchiesta giornalistica si era soffermata su una serie di vicende che avevano interessato la vita politica, sociale, economica ed amministrativa della piccola cittadina della costa tirrenica del messinese (speculazioni immobiliari dalle devastanti conseguenze ambientali e paesaggistiche; lavori di somma urgenza post alluvione del 2008 dal forte impatto sul fragilissimo territorio; ecc.); alcuni passaggi erano stati dedicati inoltre alle origini e alla dinamica evolutiva delle organizzazioni criminali presenti nel territorio, organicamente legate alle potenti cosche mafiose di Barcellona Pozzo di Gotto.
“Nel caso di specie -prosegue il PM del Tribunale di Patti- la critica mossa dal giornalista non si risolve in un attacco sterile e offensivo nei confronti del denunciante ma in una amara riflessione sulla storia del Comune di Falcone, ove, il denunciante viene menzionato solo perché facente parte della gestione dell’Amministrazione Comunale”. Per tutto questo, conclude la dott.ssa Bonanzinga, “non sussistono, pertanto, elementi sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio nei confronti dell’odierno indagato per il reato di cui all’. art. 595 c.p. (diffamazione a mezzo stampa)”.
Il 24 agosto 2012, una settimana dopo la pubblicazione dell’inchiesta, la Giunta comunale di Falcone con il Sindaco avv. Santi Cirella, aveva deliberato all’unanimità -onde tutelare l’immagine e la rispettabilità del paese- di conferire l’incarico all’avv. Rosa Elena Alizzi per sporgere querela nei confronti del giornalista. Il 20 ottobre 2012, la denuncia-querela, a firma del sindaco e della legale incaricata, veniva presentata al Comando Stazione dei Carabinieri di Falcone. Contro la richiesta d’archiviazione depositata dal Pm di Patti, l’avv. Alizzi ha presentato opposizione il 29 dicembre 2012. “Nell’articolo pubblicato, il giornalista Mazzeo non è rimasto affatto imparziale, dimostrando di aderire, sic et simpliciter, alla tesi propugnata da rappresentanti dell’opposizione politica dell’attuale amministrazione, non rispettando i limiti di verità e continenza indefettibili per il legittimo esercizio del diritto di cronaca”, scrive la legale del Comune di Falcone. “Titolo, catenacci, aggettivi sovrabbondanti, accostamenti suggestionali, decontestualizzazioni, omissioni, tutto conducente in un’unica direzione, quella manifestata nelle righe conclusive, del pezzo: annullare la volontà popolare”. Per l’avv. Alizzi e il comune tirrenico, “l’unica finalità dell’articolo è l’abbattimento dell’attuale Amministrazione e dell’odierno Sindaco”.
Guai dunque a provare ad analizzare le contraddizioni sociali e le infiltrazioni criminali di un territorio, dar voce alle opposizioni o porre interrogativi sulle scelte e gli interventi di chi governa l’ente locale. Specie poi se le “presunte” vicende criminali o le perplessità e i dubbi sull’operato politico-amministrativo trovano eco sui media nazionali o nelle sedi istituzionali. “A riprova della grande capacità lesiva della condotta dell’indagato -conclude l’avv. Alizzi- non si può non evidenziare la circostanza che in data 20 novembre 2012, l’on. Antonio Di Pietro abbia presentato un’interpellanza parlamentare indirizzata a vari organi, in cui, richiamando espressamente l’articolo in questione, ha chiesto l’accesso della commissione prefettizia per valutare la sussistenza dei requisiti finalizzati allo scioglimento degli organi politici del comune di Falcone”.
Al fine di decidere sulla richiesta di archiviazione, il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale ordinario di Patti ha fissato l’udienza in Camera di Consiglio, il prossimo 22 gennaio. Antonio Mazzeo sarà assistito dall’avv. Carmelo Picciotto del Foro di Messina.
                                                               ***
PER RIMANERE UMANI 
Presentazione della rivista internazionale
“TraduzioneTradizione” alla Biblioteca Vigentina di Milano
(Cliccare sulla locandina per l’ingrandimento)

Locandina presentazione "TraduzioneTradizione"

GLI SCIACALLI E I PROFITTATORI
di Giorgio Riolo

Alcune considerazioni necessarie dopo i tragici eventi di Parigi
Una lucida risposta a quanti parlano di scontro di civiltà  

Giorgio Riolo
È il momento della retorica ributtante, del fiume di parole, del circo mediatico scatenato e senza freni, dei manipolatori di professione. I dominanti imperiali sono all'opera. Stregoni, non più apprendisti da molto tempo ormai, suscitatori, creatori e finanziatori di mostri, che qualche volta si rivoltano e non sono più controllabili a piacimento, per scatenare guerre “umanitarie”, “per la democrazia”, “per portare la libertà”. In Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia, ovunque. Dominanti assassini per il controllo del petrolio, del gas, delle materie prime, per il controllo geopolitico di aree strategiche del pianeta.
Il quadretto di capi di stato, ipocriti, cinici e manipolatori, è la rappresentazione viva di quello che oggi è in atto. I mandanti del massacro sociale nei paesi europei, e occidentali in generale, e dei massacri reali in altre aree del mondo, che sfilavano a Parigi, davanti alla folla immensa di persone mosse dall'emozione, da sentimenti e da pensieri, giusti e umani, di fraternità, di solidarietà, di pace. Alcune considerazioni si impongono.
In primo luogo, quella che Judith Butler, la filosofa femminista statunitense di origini ebraiche, benemerita attivista, non solo per i diritti delle donne, ma anche per i diritti sociali e per i diritti dei palestinesi, ha acutamente definito “indignazione ineguale”. Peculiare di noi occidentali, a fronte delle anonime, silenziose morti e stragi di bambini, vecchi, donne in Afghanistan, in Iraq, in Siria, a Gaza e nelle altre periferie del mondo. Nessuna retorica, nessun scatenamento dell'ignobile giornalismo servile, nessun richiamo ai pretesi valori universali.
In secondo luogo, i cosiddetti valori universali dell'autoproclamata civiltà occidentale sono spesso il retroterra su cui poggia il fondamentalismo occidentale, a cui si contrappongono, ma in realtà si specchiano, in “solidarietà antitetico-polare”, direbbe Lukács, altri fondamentalismi, negatori di libertà, opprimenti, odiosi, assassini. La imperfetta secolarizzazione, il progressismo e il laicismo branditi come armi, come scimitarre, la dissacrazione e la continua irrisione, tipiche del postmodernismo, anche e soprattutto “di sinistra”, delle religioni, comportano problemi gravi per il futuro della civiltà umana planetaria.
In gioco non sono solo gli aspetti ignobili e opprimenti la dignità umana che le religioni positive, storiche, in prima fila quelle della filiazione giudaico-cristiana, cattolica in specie, e della filiazione islamica, portano in grembo. Religioni positive e storiche che, occorre ricordarlo sempre, dialetticamente hanno espresso anche, in robuste correnti teologiche e sociali, movimenti di emancipazione, di liberazione. Le teologie della liberazione, in ambito cristiano, ma anche islamico, lo testimoniano.

Un conto era la sacrosanta battaglia illuministica settecentesca contro l'oscurantismo, la barbarie dell'Inquisizione, del gesuitismo, del Papato, delle orribili gerarchie ecclesiastiche, un conto è il voler estendere a tutto il mondo, a tutte le culture umane questo corredo di pensiero, nato in un preciso hic et nunc. Foriero di una rivoluzione politica, quella francese, che poi doveva alimentare la rivoluzione sociale ottocentesca e novecentesca di cui noi rivendichiamo la filiazione. Un conto è oggi. Dove abbiamo chiaro come la religione, re-ligio, è un aspetto fondamentale della dimensione comunitaria presso le varie, diversissime, culture umane. Come essa rappresenti e alimenti il legame comunitario, condivisibile o meno, degli esseri umani tra loro e tra l'umanità e la natura, il creato ecc. Nessuna irrisione potrà cancellare questo. Nessun sarcasmo potrà occultare tutto ciò.
Il laicismo volgare non potrà mai cancellare questo, nella testa e nei cuori di molti esseri umani. È sempre la prospettiva che cambia tutto. Vista con gli occhi e con la sensibilità delle vittime delle periferie del mondo, delle vittime del colonialismo, dell'imperialismo, degli orrori occidentali, in primo luogo l'olocausto negro e l'olocausto indio, le cose cambiano. È per questo che giustamente molti, in Occidente, ma soprattutto nelle periferie del mondo, “non si sentono Charlie”. Je ne suis pas Charlie. Fermo restando il sacrosanto diritto alla libertà di stampa, del pensiero, il diritto alla vita di tutti, dei suoi redattori e delle altre vittime dei fatti di Parigi in primo luogo.
Giustamente in queste periferie, anche parigine, molti sottolineano la ignobile farsa di chi pretende che un mussulmano debba giustificarsi, debba dire “je suis Charlie”. È l'equivalente di chi pretendesse che noi milanesi, italiani, occidentali dovessimo dire, a ogni pie' sospinto, nel passato e oggi, che noi non c'entriamo niente con Bush, con Abu Ghraib, con Guantanamo, con Netanyahu, con l'apartheid sudafricano, con il colonialismo, con l'Inquisizione, con la tratta degli schiavi, con i tanti olocausti della storia e via elencando. L'ipocrisia è sempre all'opera. “È mussulmano, ma è bravo”, come un tempo ci sentivamo dire “è meridionale, ma è bravo”.
Un Pasolini redivivo ci ricorderebbe che ci sono più cose in cielo e in terra di quanto la nostra sicumera occidentale e consumistica predica, impone, esige. L'immane omologazione in atto vede invece un mondo strutturalmente, ferocemente, pervicacemente, totalmente, manicheisticamente, ineguale, disomogeneo, diviso, fratto, spaccato.
La violenza dei dominanti ha spesso questo carattere impersonale, tecnico, come ridurre in un falò, in cenere, esseri umani, con un comando a distanza, con un aereo, un drone, con una decisione presa mentre si sorseggia un tè, si ascolta musica classica  o si discorre amabilmente tra “signori per bene”. La turlupinatura e l'ipocrisia profonda, insite in tutto ciò, non deve farci dimenticare gli interessi di questi dominanti. In un tornante storico nel quale l'accumulazione del capitale, la produzione per la produzione, la rapina delle risorse e la distruzione ambientale, la politica di potenza per il controllo geostrategico mostrano ormai alla civiltà umana il loro vero volto. E mostrano ormai la data di scadenza a cui è giunta la civiltà umana, la vita nel pianeta.



Lo scontro di civiltà e il teatrino messo in atto a Parigi costituiscono una potente diversione ad uso dei dominanti, dei moderni colonizzatori. È subito scattato il richiamo, a destra e a sinistra, al paradigma securitario, “meno libertà e più sicurezza”, la rivendicazione di più spese militari, più forze di polizia, più controllo delle frontiere ecc. Arruolarci in questa potente diversione è la nostra più grave sconfitta. Il risultato è quello atteso, sempre dai dominanti. Meno democrazia, meno giustizia sociale, meno emancipazione, meno illuminismo, meno cultura. 

domenica 18 gennaio 2015

Il coraggio della matita
di Giovanni Bianchi

Questo importantissimo saggio di Giovanni Bianchi
è una rigorosa messa a punto per riconsiderare i vari
corni del problema


Un approccio fuorviante
Trovo oziosa e fuorviante la discussione intorno alla opportunità o alla esagerazione delle caricature uscite dalla matita dei vignettisti di Charlie Hebdo. La scivolata interpretativa è del "Financial Times", spintosi ad additare l'ingenuità della redazione di rue Nicolas Appert, vicino a Bastille, una piccola strada a traffico limitato, fino a sostenere che si sarebbe comportata in modo "stupido".
Il minimo che si possa dire è che lo spirito british è cosa tutt'affatto diversa e antagonistica  rispetto allo sfrenato volterrianesimo di Charb, Cabu, Wolinski e Tignous. D'altra parte l'opinione pubblica mondiale e tutta Parigi hanno mostrato di pensarla in senso opposto.
Il livello della satira è indubbiamente servito ai terroristi per scegliere le vittime e ottenere il massimo dello shock macabro e pubblicitario. Non ha certamente costituito l'innesco della decisione di procedere ad un attentato, che ci sarebbe comunque stato.
Non si fossero esposti con le loro graffianti matite il direttore Stéphane Charbonnier e i suoi amici e collaboratori della redazione, Jean Cabut, Georges Wolinski, Philippe Honoré e Bernard Verlhac, il bersaglio sarebbe risultato probabilmente un altro, ma l’assassinio e la mattanza avrebbero comunque avuto luogo.
I fratelli franco-algerini avrebbero potuto abbattere l'arcivescovo di Notre-Dame, in compagnia di qualche monsignore, con il sacrista o i chierichetti, in quanto titolari di una confessione antagonista, oppure parte del corpo delle ballerine delle Folies Bergère, accusate di lascivia, nudismo e non sottomissione.


La ragione per la quale le matite della redazione di Charlie Hebdo vanno assolutamente difese (una volta tanto, anche per me, senza se e senza ma) è perché hanno rappresentato secondo il proprio genio e l'ispirazione un elemento essenziale della nostra cultura e della nostra etica di cittadinanza.
La Francia dei lumi, così come si è trasformata nei secoli, ma anche la religione cattolica e protestante, e lo stesso ateismo militante, non possono essere disgiunti dalla radice illuministica che li attraversa e che li ha progressivamente e positivamente contagiati. Quello che, con una qualche approssimazione di troppo, siamo abituati a definire "mondo libero" non può rinunciare a questo patrimonio comune.
Quindi, bene ha risposto un’opinione pubblica "globale" che ha generalizzato il mantra Je suis Charlie Hebdo.

La linea di separazione
La linea di separazione tra islam e terrorismo è la stessa che separa la religione dall'etica di cittadinanza. La stessa che indica la dissoluzione del politico nello spirito di fazione. La stessa che condanna insieme alla follia dei terroristi di Parigi le torture di Abu Ghraib e Guantanamo. Dal momento che la storica separazione tra etica e politica non deve significare che la politica annulla l'etica. Una società senza etica di cittadinanza infatti non si tiene insieme, ma si dissolve. È infatti l'etica di cittadinanza e di una cittadinanza democratica l'unica in grado di leggere il terrorista più come roso dal risentimento e dalla volontà di potenza che dalla devozione islamica. Questo infatti è l'identikit dei killer (non devoti) dei vignettisti di Charlie Hebdo. E trovo francamente irritante discutere sul tasso di aggressività delle caricature. Ribadisco che le vignette sul Profeta sono state utili per individuare un obiettivo da colpire con il massimo di risonanza pubblicitaria.



La cosa più inquietante?
Abbastanza oziose anche le disquisizioni intorno alle differenze tra guerra e terrorismo. Quel vecchio filonazista di Carl Schmitt ci aveva già avvertiti negli anni Sessanta che la terza guerra mondiale era già cominciata e che sarebbe stata una guerra civile globale combattuta da terroristi. Un'espressione recentemente ripresa, quanto meno nelle linee generali, da papa Francesco.  Chi pensa a una netta separazione tra guerra e terrorismo è fermo alle trincee e ai sacri confini della patria della prima guerra mondiale. Adesso sui campi di battaglia sono molti di più i contractors stipendiati da agenzie ad hoc che i soldati regolari.
Negli anni Settanta il celebre polemologo magiaro-americano Edward Luttwak scriveva che le democrazie s'erano fatte oramai così deboli da non riuscire a difendersi se non con i mercenari. Chi qualche decennio fa ha usato la parola "mercenari" nel nostro Paese è stato additato alla pubblica vergogna da organi di stampa afflitti insieme da disinformazione e ipocrisia.
Questo il quadro -consolidato nella dissoluzione incominciata con lo sfarinamento dei blocchi antagonistici della guerra fredda- dal quale emerge la novità più inquietante. I terroristi islamici di Parigi sono infatti figli della Francia moderna, non della Siria, non dello Yemen e neppure dell'attuale Algeria, pur risultando franco-algerini. Dire che i terroristi sono terza generazione significa esattamente questo: una connotazione che supera e travolge il dato generazionale. Questi terroristi non sono pii: si collocano nello spazio (quasi un "nonluogo" tragico) dove un'etica distorta e la politica del risentimento incontrano e subordinano la religione. Dove la donna è sottomessa e le studentesse che frequentano il liceo devono essere rapite, violentate, rese schiave. Per questo le comunità e le folle islamiche che definiamo "moderate", e che sono semplicemente normali nella quotidianità, hanno capito che devono anzitutto reagire per difendere se stesse dal terrore, prima ancora che i Paesi e i cittadini che le ospitano.


Difendere Voltaire
Il moderno Occidente ha concorso a produrre l'antimoderno fondamentalista. Un cortocircuito dal quale leggere e indagare un fondamentalismo che attiene non tanto all'islam come fede religiosa, quanto all'islam come cultura e concezione dei rapporti e della vita nello spazio pubblico come in quello privato.  Per questo è giusto difendere Voltaire anche se non lo ami. Perché dopo aver riflettuto sull'influenza della religione sulla democrazia e sulla cultura illuministica che l'ha prodotta (il dibattito di Monaco di Baviera del 2004 tra Ratzinger e Habermas) è venuto il tempo di riflettere sull'influenza benefica dell'illuminismo democratico sul cristianesimo in generale e sul cattolicesimo in particolare.
Il Papa e il Vaticano erano contrari all'unità dell'Italia in quanto Stato-Nazione. I cattolici illuminati (Alessandro Manzoni e il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli si schierarono per l'unità nazionale contro la loro chiesa, e anche don Giovanni Bosco fu tenuto in sospetto per i rapporti cordiali con casa Savoia) con la loro azione controcorrente hanno consentito a papa Paolo VI di definire un secolo dopo la presa di Porta Pia come un "fatto provvidenziale".
Ma non bisogna dimenticare che il cattolicesimo ufficiale del tempo era attraversato dalla diceria che gli zuavi armati di chassepots avevano attraversato la breccia con gli zaini colmi di Bibbie, considerate uno strumento religiosamente aggressivo perché protestante.


La religione come tema
Ha scritto in poesia Ernesto Olivero:

Ho sempre pensato
che chi non ha fede
non è un ateo
ma qualcuno in attesa di testimonianza.

Le analisi ostinatamente economiciste -quelle che guardano alla religione soltanto come oppio dei popoli- corrono in questa fase il rischio di finire subalterne al pensiero unico, che ha al fondo la medesima matrice. Rischiano cioè di dimenticare la svolta "epocale" contenuta nel discorso di Bergamo di Togliatti negli anni Cinquanta: un’analisi improntata a una ricerca tematica e di rapporti, e non già furbescamente tattica ed elettorale.
Non hanno cioè compreso la tragedia della ex Jugoslavia (una guerra dove hanno perso tutti e dove le nuove repubbliche dei Balcani Occidentali si sono giocate lo sviluppo per i prossimi trent'anni), dove le ragioni economiche non si sono collocate certamente in primo piano. Queste analisi risultano riduttive perché incapaci di cogliere il nocciolo del problema: quest'uomo, anche l’ateo, non è riducibile a un essere senza dover essere.
Si tratta di un'opportunità anche per un'amicizia e una cittadinanza laica e una solidarietà il cui ritrarsi ha lasciato lo spazio non al vuoto, ma al dilagare dell'invidia sociale.
Non è mia intenzione ridurre il dover essere al fatto religioso. Dover essere è lo spirito rivoluzionario (Mandela, ma anche Che Guevara), il genio creatore (la Nona di Beethoven, ma anche il Concerto di Colonia di Keith Jarrett), Van Gogh, Chagall e Matisse, Leopardi e Wislawa Szymborska... Là dove l'uomo scopre di essere più grande di se stesso, irriducibile a una questione di stomaco.
Quel vecchio arnese di Bentham diceva non a caso di preferire essere un uomo insoddisfatto piuttosto che un maiale soddisfatto. La differenza? Il dover essere. L'uomo oltre se stesso, come esigenza insopprimibile. Il porco probabilmente no.
Arrivo anche a pensare che questo anelito umano contribuisca all'essere di Dio, che può essere pensato -pare a me- non soltanto con la classica staticità scolastica del Motore Immobile.  Anche questa è una delle caratteristiche possibili di un amore costitutivo di Dio e dantescamente diffusivum sui. Dove l'amicizia e anche l'amore passionale entrano nella visione e in un percorso il cui esito ci sfugge, senza cessare di inquietarci.
Quel che cerco di argomentare è che anche l'irrisione intrinseca all'umorismo di Charb e Wolinski si trova in questa dimensione.
Là dove la tradizione religiosa (al plurale) è devozione, i vignettisti di Charlie Hebdo sono irrisione. Ma la dimensione dell'uomo otre l'uomo è la medesima. Non riducibile quindi all'economicismo finanziario di un pensiero unico che ha condotto (la vicina Svizzera insegna) alcuni dei suoi vertici manageriali al suicidio.
La riduzione economicistica dell'essere alla fine uccide. È l'idolo che ogni volta uccide, e Walter Benjamin aveva per tempo individuato il rischio nel cuore del capitalismo, che non a caso definiva "una religione".
Il benessere materiale, ovviamente limitato a un settore dell'umanità nella società sempre più liquida, e il crescere delle disuguaglianze che lo accompagnano creano ribellione e anticorpi cui l'ordine disordinato dell'economia del potere finanziario non è in grado di rispondere.
Restano e si estendono una tensione, un bisogno e soprattutto un desiderio le cui valenze risultano tragicamente non saturate. Né Charb né Wolinski avrebbero altrimenti rischiato tanto e con tanta consapevole ostinazione.


Religione e libertà
Croce parlò in Italia più di mezzo secolo fa di "religione della libertà". Dubito che Croce e la sua espressione fossero di casa nella redazione di rue Nicolas Appert, ma non mi spiegherei la "militanza" dei vignettisti massacrati al di fuori di questa dimensione. Lungo una via francese ovviamente, e attenti a Voltaire più che al filosofo italiano. Non lo facevano per azzardo, al più per un gioco nel quale si giocavano la vita.
C'è un’espressione più acconcia di quella di "dover essere" che ho usato? Non ho problemi a mutare il nome purché si affronti la cosa. Per questo l'economicismo è miope di fronte all'abisso del terrore. Per questo inconsapevolmente tale miopia, anche quando nasce A sinistra, finisce inevitabilmente a destra. Subalterna del "pensiero unico" e dell’economicismo che lo ha originato per esserne legittimato.
Quando nel pomeriggio di domenica 11 gennaio i parigini occupano la loro inimitabile città con una manifestazione davvero oceanica pongono le basi, potenzialmente, di una rinascita e di una risurrezione non soltanto dello spirito dell'Ottantanove, ma di quel che di positivo l'Occidente storico ha prodotto in termini di civilizzazione.
Dopo la caduta del Muro di Berlino del 1989 è la vera seconda tappa. In questa prospettiva torna utile, ma anche potenzialmente fuorviante, l'icona coniata da "Le Monde" di "11 Settembre" francese.
C'è un salto di qualità rispetto a Ground Zero e bisogna prendere una rincorsa più lunga: perché il problema non è ricondurre la strage nella redazione della rivista francese al contesto, ma piuttosto mostrare le caratteristiche e, se possibile, le ragioni del "salto di qualità" rispetto al contesto. È chiaro che l'11 Settembre è a sua volta un punto di non ritorno -e quindi non vanno neppure dimenticate né Abu Ghraib né Guantanamo- ma la cosa da chiarire è l'orrida accelerazione di Parigi.
Alle spalle -e pure esse da non dimenticare- le antiche contrapposizioni della "guerra fredda", con a Washington una libertà senza uguaglianza e a Mosca un'uguaglianza senza libertà...
Più la memoria è lunga, più la rincorsa è agevole. Ma la rincorsa deve tendere a costituire un punto di vista dal quale guardare la "novità" tremenda. Tale da suggerire alla geopolitica di mettere nel mirino di una nuova grande "azione internazionale" i territori sui quali l’Isis, Al-Qaeda e Boco Haram insistono. Le basi cioè di questa spietata guerriglia che arruola nelle nostre metropoli e addestra nei campi militari del medio oriente.
Alcune preoccupazioni espresse dal nostro ministro degli Esteri Gentiloni muovono in questa direzione, a partire dalla Libia del post-Gheddafi.
Devo anche dire che l'assenza troppo vistosa di Barack Obama dalla domenica di Parigi ha aumentato le mie preoccupazioni e i dubbi sull'Amleto della Casa Bianca, angustiato dal problema spinosissimo delle alleanze e di un loro possibile rovesciamento. L'Iran degli ayatollah e il petrolio dei Sauditi, insieme al finanziamento dei fondamentalisti più duri, come lunga e duplice pietra d'inciampo. Come al solito, cominciare a capire, o almeno incominciare a costruire le condizioni per la comprensione è il primo passo. E il passo indispensabile.
Resta tutta la questione dell'immigrazione. Che non è altra cosa né giustapposta, ma "semplicemente" l'altra essenziale faccia della medaglia.
E comunque pensare politica dalle periferie quando il decisionismo dell'immagine impedisce di farla coralmente al centro non è probabilmente soltanto una disperata compensazione.




Je suis libre, pas Charlie
di Paolo Maria Di Stefano

Questo scritto di Paolo Di Stefano apre diverse questioni
utili per una buona riflessione senza pregiudizi


14 gennaio 2015. “Charlie Hebdo” esce in tutto il mondo con una tiratura che -mi si dice- è pari a tre milioni di copie contro le tradizionali sessantamila settimanali. Ed è certamente un caso: proprio mentre inizio, il quinto programma della Rai trasmette la conclusione della sinfonia fantastica di Berlioz. Il Dies Irae.
E solo qualche istante fa, ho letto che il legale del settimanale francese, Richard Malka, ha ricordato che lo spirito di “Je suis Charlie” significa anche “diritto alla blasfemia”.
E i miei pensieri hanno preso una strada diversa da quella che avevo immaginato. Hanno scelto la libertà, anche a costo di sbagliare.
Rimane intatta la premessa: il settimanale satirico francese a me non è mai piaciuto in modo particolare. Al contrario, le rare volte in cui mi è capitato tra le mani non ricordo mi abbia suscitato neppure un sorriso. In altre parole, a me non piaceva. Ho sempre pensato che le vignette dei nostri disegnatori, tra le quali quelle ogni giorno destinate a commentare la cronaca sui quotidiani italiani siano di gran lunga migliori. Cosa, questa, ovviamente priva di qualsiasi importanza, come ogni giudizio assolutamente personale circa la “bellezza”- estetica e relativa al contenuto- in senso ampio di una qualsiasi cosa.

Il che non mi ha impedito di condannare immediatamente come assolutamente cretina -oltre che criminale- la strage avvenuta nella redazione. Con annessi e connessi, ovviamente.  Chiunque violi la legge è un delinquente, e i due attentatori hanno violato la legge. E chi fa ricorso alla violenza (oltre che al farsi ragione da sé) è certamente un cretino: perché la violenza può al massimo illudere di una soluzione che presto o tardi si rivelerà tutto, meno che una soluzione, appunto. È ben vero che la storia dell’umanità si fonda sulla violenza (non necessariamente e non solo quella delle armi), ma è anche vero che il progresso consiste proprio nel ridurre sempre di più l’uso della forza, fino a raggiungere -forse- un’età dell’uomo che potrà fregiarsi del titolo di “era dell’intelligenza e dell’accordo”.
Mi pare fosse Voltaire ad affermare più o meno (cito a memoria): “Non sono d’accordo, ma darei la mia vita perché tu possa esprimere la tua opinione”. Che appare tessera di quel mosaico complicato e complesso e soprattutto assolutamente indefinito che chiamiamo libertà, e in nome della quale tentiamo di giustificare qualsiasi nostro pensiero e qualsiasi nostro comportamento. Anche quello (sembra, tenuto proprio da Voltaire) di superare la concorrenza pagando il silenzio delle claque quando in scena era il lavoro di un concorrente. Una cosa è consentire che una opinione si esprima, altra e ben diversa è lasciare che vinca!
A me pare che il ricorrere al valore chiamato libertà dovrebbe consigliare più di un motivo di attenzione o almeno di prudenza. La libertà è sempre stato un problema di conoscenza dei limiti espliciti o taciti esistenti nei rapporti tra gli uomini tra di loro e tra gli esseri umani e il resto di quella che chiamiamo creazione.
E dunque, quando si afferma -come pare abbia fatto l’avvocato Malka- che esiste un “diritto alla blasfemia” (che è la stessa cosa che affermare che si è liberi di bestemmiare), bisognerebbe ricordare che se la libertà consiste nel violare leggi, regolamenti, usi, costumi, princìpi di educazione, perché non affermare anche che esiste un diritto all’omicidio, e un altro allo stupro, e un altro ancora all’uso dei bambini come bombe umane o come soldati, e un altro alla schiavitù?
Almeno da noi, in questa Italia così tanto criticata e così vicina ad un grave analfabetismo di ritorno, esisteva un vecchio adagio che consigliava “scherza coi fanti e lascia stare i Santi”. Per due ragioni, io credo: la prima, perché non essendoci certezza assoluta e assolutamente condivisa circa l’inesistenza dei Santi, meglio sarebbe non scatenarne l’ira; la seconda, perché una regola elementare di educazione e di buon vicinato consiglierebbe di non provocare la suscettibilità di chi nei Santi crede.

Il diritto alla satira -che non esiste in quanto “diritto”, ma che certamente è compreso nei contenuti che disegnano la libertà- ha a mio parere a sua volta qualche confine. Intanto, dovrebbe essere assolutamente intelligente, e solamente veri e propri geni della comunicazione sono in grado di fare una satira intelligente. Perché la satira è una delle più difficili forme di comunicazione. Non a caso tra i grandi autori si citano Orazio, Giovenale, Parini, Jerome e Mark Twain: grandi autori che hanno dato vita a grande satira, perché è l’essere scrittore e poeta di vaglia che consente di creare una satira importante. E quando questa si manifesta sotto forma di vignetta, è ancora più difficile, per la sintesi estrema che questa impone.
Satira e caricatura sembrano andare di pari passo. La prima, è definita (Devoto – Oli) come “genere di composizione poetica a carattere moralistico o comico consistente nel mettere in risalto, con espressioni che vanno dall’ironia pacata e discorsiva fino allo scherno e all’invettiva sferzante, costumi o atteggiamenti comuni alla generalità degli uomini, o tipici di una categoria o di un solo individuo. In senso estensivo, quanto rivesta un carattere di critica più o meno mordace (dal sarcasmo alla caricatura) verso aspetti o personaggi tipici della vita contemporanea”. La seconda, come (ivi) “l’accentuazione, nella immagine di una o più persone, di atteggiamenti o tratti ridicoli cui si accompagnano sembianze alterate e contraffatte, tali però da lasciar riconoscere l’originale, fornendo materia di riso o di riflessione”.


Poi, come del resto tutti i comportamenti umani, la satira incontra limiti diversi a seconda delle materie, così come li incontra nella cultura del pubblico cui si rivolge.
Che è cosa ovvia, e non a caso disegna differenze anche importanti tra popoli e persone. Chi non ha mai sentito parlare del sense of humour degli inglesi, diverso da quello degli italiani, per esempio, ai quali ultimi spesso se ne attribuisce la mancanza? E chi non ha notato che il disporre di senso dell’umorismo e la misura in cui se ne dispone disegna un possibile grado di intelligenza? E non è forse vero che, da noi per esempio, si può tranquillamente “far satira” sulle donne, purché non si tratti di nostra madre o di nostra moglie o di nostra sorella? E che molte battute fanno ridere, sempre che non ne siamo oggetto noi stessi in prima persona?
In quanto alla materia…beh, da noi il sesso fa ridere (sempre nei limiti sopra indicati) e nessuno si scandalizza; per altri, il sesso è argomento assolutamente da non toccare. Come la religione e i suoi esponenti: noi cristiani sembriamo disposti a sorridere sul nostro Paradiso e sul nostro Dio, oltre che, naturalmente, sulla gerarchia ecclesiastica; probabilmente, per altre religioni la questione è talmente diversa che il solo accennare ad un profeta, per esempio, o a Dio è ritenuto intollerabile e suscita reazioni contro la blasfemia.
E credo non esista sentimento che, come la fede, sia in grado di generare altrettanta violenza.
Forse anche perché chi crede in modo cieco e assoluto è portato anche a pensare sia suo primo e più importante dovere “difendere” il proprio Dio dagli attacchi degli “infedeli”, anche a costo del sacrificio della vita.
Eppure, non c’è tra le grandi religioni una che predichi il ricorso all’uso della violenza “a maggior gloria di Dio”. Ma lo hanno fatto e lo fanno tutte, seppure in misura e con mezzi diversi.
E allora, un pensiero in libertà.
Gli esseri umani si organizzano in gruppi più o meno ampi, e si danno leggi e norme per regolare la convivenza dei singoli tra di loro e con il gruppo, e del gruppo con gli altri con i quali vengono a contatto. E in forza di quelle leggi e di quella normazione organizzano la “formazione” dei singoli ad esser “cittadini” del gruppo.
Se questo è vero, e credo che lo sia; se gli Stati hanno un problema di integrazione degli individui, e lo hanno; se le diverse fedi diventano motivo di contrasti anche violenti, e lo diventano; ebbene, se tutto questo e quanto non detto è vero, cosa si oppone ad una scuola “pubblica”, nel senso di una scuola organizzata dalla struttura territoriale pubblica di riferimento, che abbia tra le materie di insegnamento i princìpi fondanti, i valori, delle tre grandi religioni monoteistiche, di ciascuno dei quali si illustri a tutti la portata e l’importanza nella storia così come nella vita contemporanea e di ciascuno dei quali si illustri il rapporto con il sistema giuridico del Paese, con le sue leggi, con il suo modo di essere?
Almeno in questo senso -di conoscenza dei valori della fede di ciascuno- ad una maggiore cultura dovrebbe rispondere una più ampia libertà.


                                                                  ***

PER RIMANERE UMANI





TEATRO CANZONE
IL NUOVO SPETTACOLO DI MACIACCHINI




Il MUOS per ipermilitarizzare e depredare l’Artico
di Antonio Mazzeo

Gli Stati Uniti d’America hanno un asso nella manica per trionfare nella competizione tra vecchie e nuove superpotenze per il controllo militare, politico ed economico dei mari del Polo Nord e dell’Antartide, fragilissimi ecosistemi. Si tratta del MUOS (Mobile User Objective System), il più recente sistema di telecomunicazioni satellitari della Marina militare Usa, costituito da quattro terminali terrestri distribuiti in tutto il pianeta (uno in Sicilia, all’interno della riserva naturale “Sughereta” di Niscemi, Caltanissetta) e cinque satelliti in orbita geostazionaria a oltre 36.000 km di distanza.
Grazie ai primi due satelliti lanciati sino ad oggi nello spazio, la Marina statunitense ha attivato le “prime connessioni satellitari affidabili” nel Mar Glaciale Artico. La sperimentazione e l’uso nei mari del Nord del nuovo sistema di telecomunicazioni per le guerre globali del XXI secolo ha preso il via nella primavera del 2014 con “Ice Exercise – ICEX ‘14”, l’esercitazione condotta dal Comando per le forze subacquee di US Navy (COMSUBFOR), in collaborazione con i tecnici di Lockheed Martin, l’azienda statunitense che ha progettato e realizzato il MUOS. Nel corso di ICEX ’14, le unità e gli utenti mobili del COMSUBFOR hanno potuto utilizzare una stazione terrestre di dimostrazione del nuovo sistema satellitare per ricevere e trasmettere “in modo sicuro” messaggi ed e-mail. “Per la prima volta nella storia, gli utenti militari hanno potuto trasferire file con notevoli quantità di dati, utilizzando connessioni satellitari stabili nella regione artica”, ha dichiarato Amy Sun, responsabile dei programmi avanzati di trasmissione di Lockheed Martin. “Un nostro team ha sperimentato le caratteristiche funzionali del Wideband Code Division Multiple Access (WCDMA), il codice d’accesso per le trasmissioni in banda larga del MUOS, utilizzando tre differenti stazioni radio in condizioni ambientali estreme, quasi nel punto più a nord della terra”. Le connessioni con i satelliti MUOS, hanno consentito a US Navy e Lockheed Martin più di 150 ore di trasmissione dati. “Abbiamo inviato senza interruzioni e con la massima sicurezza grandi quantità di foto, mappe ed altri dati informativi e d’intelligence, cosa che non avremmo potuto fare con i sistemi satellitari sino ad oggi esistenti”, ha aggiunto mister Sun. Stando sempre a Lockheed Martin, il sistema WCDMA del MUOS ha consentito di aumentare di 16 volte la quantità dei dati trasmessi nell’unità di tempo.
“Operando da un accampamento ghiacciato oltre il Circolo Artico, i nostri tecnici hanno provato che il MUOS è un asset affidabile per le comunicazioni nell’estremo nord”, ha dichiarato Paul Scearce, direttore dei Programmi militari spaziali di Lockheed Martin. “Nel 2013 avevamo già verificato la portata della nuova costellazione satellitare, ma ICEX ’14 è stata la prima volta in cui il MUOS è stato utilizzato durante lo svolgimento di esercitazioni del governo Usa. Da oggi, grazie al MUOS, gli utenti potranno comunicare in tutto il globo utilizzando un apparato radio, senza dover modificare di volta in volta le modalità di trasmissione a causa delle differenti aree di copertura. Il MUOS accresce enormemente il potenziale operativo dei suoi utenti mobili, non solo nei tradizionali teatri operativi, ma anche nei punti più lontani del pianeta”.
L’espansione dell’area coperta dalle trasmissioni nei mari del Nord arriva in un periodo storico caratterizzato da forti tensioni tra Stati Uniti, Canada, Russia e diversi paesi europei per il controllo e la “colonizzazione” delle regioni polari. “Nell’Oceano Artico, la richiesta di consistenti servizi di trasmissione di messaggi in voce e dati non potrà che aumentare”, spiega Paul Scearce. “In quest’area geografica si stanno sperimentando sempre maggiori attività di navigazione, turistiche e di sfruttamento delle risorse naturali che, presumibilmente condurranno anche ad una crescita delle richieste di ricerca e salvataggio. Il MUOS ci consente di esserci ed operare con successo. Ma anche l’Antartide dovrebbe fornire performance e risultati similari a quelli sperimentati nell’Artico. Lockheed Martin ha in programma di verificare presto anche in questa regione la potenza dei segnali del MUOS”.
L’esercitazione ICEX ’14 prese il via alla fine del 2013 con la predisposizione di specifici sensori da parte dell’Arctic Submarine Laboratory di US Navy e l’addestramento e la formazione del personale militare destinato al Mar Glaciale Artico. La prima fase prettamente operativa iniziò il 17 marzo 2014 presso l’Ice Camp Nautilus, un accampamento realizzato a circa 100 km a nord della Prudhoe Bay (Alaska) su una lastra di ghiaccio alla deriva nell’oceano. Da allora, le antenne e i sistemi tecnologici avanzati dell’accampamento hanno assicurato le telecomunicazioni con i due sottomarini a capacità e propulsione nucleare USS New Mexico (classe Virginia) e USS Hampton (classe Los Angeles) che nel febbraio 2014 avevano lasciato le rispettive basi navali per raggiungere l’Artico dall’Oceano Pacifico e dall’Atlantico. “La fase iniziale di ICEX 2014 ha incluso anche la raccolta di dati ambientali e l’effettuazione di una serie di test durante il trasferimento dei sottomarini verso il nord, monitorati dal centro operativo di Camp Nautilus, dal Chief of Naval Operations (OPNAV N97) Submarine Arctic Warfare Program e da un gruppo di ufficiali delle forze armate di Stati Uniti e Canada”, riporta Il Comando per le operazioni subacquee della Marina Usa. “La seconda fase di ICEX 2014 ha visto le prove d’immersione ed emersione nel ghiaccio di uno dei due sottomarini e l’attracco e la sosta in un banco di ghiaccio. In questa fase, dal 17 al 27 marzo, il sistema satellitare MUOS ha operato per conto dell’Ice Camp Nautilus”.
L’esercitazione militare ICEX si ripete ogni due ed ha come scopo centrale quello di testare il funzionamento dei sottomarini nucleari Usa nel Mar Glaciale Artico. Alle attività, oltre ai militari e ai tecnici di COMSUBFOR e del l’Arctic Submarine Laboratory, partecipano alcuni ricercatori del laboratorio di fisica applicata dell’Università di Washington. “ICEX è importante per la nostra strategia marittima perché ci consente in modo realistico di migliorare le nostre conoscenze e operare in tutte le aree del pianeta”, ha dichiarato l’ammiraglio Gary Roughead, già a capo delle operazioni navali Usa. “ICEX permette alla Marina di effettuare una serie di test sui nostri sistemi di combattimento, di navigazione e di comunicazione. Il patrimonio di conoscenze sulla natura dinamica dell’Oceano Artico ottenuto con ICEX è socializzato al resto di US Navy ed è utilizzato per far sì che le forze navali Usa continuino ad operare in maniera eccellente nell’Artico e in altre aree geografiche caratterizzate da difficilissime condizioni ambientali”.
“Operare nell’Oceano Glaciale Artico è cosa diversa da ogni altra operazione marittima a causa delle estreme, rigide e inesorabili condizioni naturali”, ha spiegato l’ammiraglio Roughead. “La maggior parte delle sue acque è ricoperta da un denso spessore di ghiacci per buona parte dell’anno ed è inaccessibile alle unità di superficie. Oltre alle temperature estremamente basse, il continuo congelamento, scongelamento e ricongelamento fa sì che la salinità e la densità delle acque dell’Artico siano drasticamente differenti dai quelle degli altri oceani. Le attività di routine delle nostre forze subacquee sono dunque molto più complesse sotto il ghiaccio. Le operazioni d’identificazione in immersione, le esercitazioni con i siluri e quasi tutte le funzioni sonar sono pesantemente condizionate dalla specificità dei profili della velocità del suono che s’incontrano in questo ambiente imprevedibile”.
Sono sempre gli uomini di vertice delle forze navali Usa a spiegare le vere ragioni della pericolosa corsa militare ai ghiacciai del Polo Nord e all’Antartide che vede contrapposti gli Stati Uniti d’America e le altre potenze mondiali. “L’Oceano Artico è una delle aree più importanti dal punto di vista strategico per gli odierni e futuri leader militari e politici”, ha aggiunto l’ammiraglio Roughead. “Questo oceano lambisce diverse nazioni e serve come importantissima via di comunicazione marittima tra l’Atlantico e il Pacifico. La capacità di operare in questa regione in ogni periodo dell’anno e in ogni condizione atmosferica e ambientale è vitale per i nostri interessi nazionali e consente agli Stati Uniti un accesso sicuro alle risorse naturali esistenti e a tutte le aree operative marittime del mondo”.

 “C’è un aspetto per la sicurezza nazionale prioritario nel continuare a operare nel Mar Glaciale Artico con i sottomarini nucleari di US Navy”, ha dichiarato il comandante Greg Ott, vicedirettore per le operazioni di COMSUBFOR. “I sommergibili sono le uniche unità statunitensi in grado di muoversi stabilmente tra queste acque. Se poi un giorno i ghiacci si sciogliessero, l’Artico si trasformerebbe in una linea di comunicazione marittima vitale per l’economia mondiale. È dunque per noi importante che i nostri interessi vengano protetti”.

Caccia italiani nel Baltico per operazioni Nato anti-Russia
di Antonio Mazzeo

Il 27 dicembre quattro caccia multiruolo Eurofigter “Typhoon” dell’Aeronautica militare italiana sono giunti nella base lituana di Siauliai per partecipare alla Baltic Air Patrol (BAP), l’operazione Nato di “pattugliamento” e “vigilanza” dei cieli del Baltico e di “difesa” aerea di Estonia, Lettonia e Lituania, partner orientali dell’Alleanza atlantica. I caccia, gli equipaggi e il personale impegnati nella missione che durerà sino all’aprile 2015 provengono dal 4° Stormo dell’Aeronautica di Grosseto, dal 36° Stormo di Gioia del Colle (Bari) e dal 37° Stormo di Trapani-Birgi.
L’Italia assumerà il comando della BAP con i “Typhoon” a partire dal 1° gennaio 2015. Alla missione Nato parteciperanno anche quattro caccia Mig-29 delle forme armate polacche schierati anch’essi a Siauliai, quattro “Typhoon” spagnoli di base nell’aeroporto militare di Amari (Estonia), quattro cacciabombardieri belgi F-16 a Malbork (Polonia) e altri quattro velivoli d’attacco britannici attesi nel Baltico a gennaio. I caccia sostituiranno i 16 velivoli che erano stati assegnati sino ad oggi dal Comando Nato alla Baltic Air Patrol (caccia “Eurofighter” tedeschi, F-18  canadesi, F-16 olandesi e portoghesi).
L’Eurofigter “Typhoon” in dotazione all’Aeronautica italiana è un caccia di ultima generazione con ruolo primario di “superiorità aerea” e intercettore. Con una lunghezza di 16 metri e un’apertura alare di 11, il guerriero europeo può raggiungere la velocità massima di 2 mach (2.456 Km/h) e un’autonomia di volo di 3.700 km. Il velivolo è armato di micidiali strumenti bellici: cannoni Mauser da 27 mm; bombe a caduta libera Paveway e Mk 82, 83 e 84 da 500 a 2.000 libbre e a guida GPS JDAM; missili aria-aria, aria-superficie e antinave a guida radar e infrarossa. Con tutta probabilità, il ciclo operativo nei cieli del Baltico consentirà ai caccia italiani di testare sul campo pure il nuovo missile da crociera MBDA “Storm Shadow”, con oltre 500 chilometri di raggio d’azione, la cui integrazione come sistema d’arma del “Typhoon” è stata avviata nei mesi scorsi da Alenia-Aermacchi (Finmeccanica) nel poligono di Salto di Quirra, in Sardegna. Gli “Storm Shadow” erano stati impiegati finora solo dai cacciabombardieri “Tornado” nelle operazioni di guerra in Iraq e in Libia 2011.
La Nato garantisce le attività di “sicurezza” dei cieli delle Repubbliche baltiche dall’aprile 2004, sulla base di un accordo collettivo firmato con i governi di Estonia, Lettonia e Lituania. Nel 2010 Bruxelles ha deciso di prorogare le missioni di pattugliamento aereo sino alla fine del 2014, ma le Repubbliche baltiche hanno ottenuto un’ulteriore estensione della BAP sino al dicembre 2018, con la speranza tuttavia che essa ottenga alla fine lo status di “missione permanente della Nato”.
Ad oggi, solo 14 paesi dell’Alleanza Atlantica hanno partecipato alla Baltic Air Patrol. Con l’arrivo dei caccia di Spagna e Italia per il 37° ciclo operativo 2015, il numero degli alleati Nato raggiunge quota 16, a cui si aggiungerà presto pure l’Ungheria con i cacciabombardieri Saab “Gripen”. La grave crisi in Ucraina e l’allarme causato dalla presunta escalation delle attività dei caccia russi sul Mar Baltico, ha convinto Bruxelles a potenziare progressivamente il numero dei velivoli coinvolti nel pattugliamento del fronte orientale dell’Alleanza: dal maggio 2014 i caccia assegnati a BAP sono aumentati da quattro a sedici, mentre sempre a Siauliai sono stati trasferiti anche sei caccia F-15 ed un aerocisterna KC-135 dell’US Air Force.
La partecipazione dell’Aeronautica militare italiana alla Baltic Air Patrol era stata preparata da una missione ispettiva a Kaunas (Lituania) - luglio 2013 - di una delegazione guidata dal Capo del 3° Reparto dello Stato maggiore, gen. Gianni Candotti. I militari italiani si recarono successivamente nelle basi aeree di Siauliai ed Amari, per concordare con le aeronautiche di Lituania ed Estonia l’organizzazione nel 2014 di un mini deployment addestrativo con velivoli Eurofigther “per testare la risposta del sistema d’arma ai climi freddi”. Il tour italiano nel Baltico servì pure a rafforzare la partnership nel settore industriale-militare. Alla Lithuanian Air Force, tra il 2006 al 2008, Alenia Aeronautica (Finmeccanica) aveva consegnato tre velivoli da trasporto tattico C27J “Spartan”. “Il Comandante dell’Aeronautica lituana, gen. Edvardas Mazeikis, ha espresso il proprio apprezzamento per le capacità conseguite con questi velivoli di produzione italiana”, riportò una nota del Ministero della difesa, a conclusione della missione ispettiva nel Baltico. “Proprio tale capacità offre un’importante possibilità di concreta cooperazione, nell’immediato, nel settore dell’addestramento dei piloti lituani presso il National Training Center di Pisa ed, in prospettiva, per la condivisione di esperienze operative e manutentive”. Nell’autunno del 2012, un’altra azienda del gruppo Finmeccanica, Selex Sistemi Integrati, aveva fornito il sistema di gestione del combattimento (CMS) “Athena” e le centrali di tiro “Medusa” MK4/B per i nuovi pattugliatori della classe “Flyvefisken” della Marina militare lituana.

Con la partecipazione alla Baltic Air Patrol, l’Aeronautica militare vede crescere ulteriormente il proprio ruolo a livello internazionale. Attualmente i caccia italiani sono impegnati pure nel pattugliamento dei cieli dell’Islanda (a rotazione con altri partner Nato), della Slovenia e dell’Albania. Si tratta di un impegno finanziario assai oneroso che nessun partner europeo della Nato ha finora voluto assumersi. L’Aeronautica è impegnata pure nelle operazioni di guerra contro l’Isis, grazie a un velivolo per il rifornimento in volo KC-767, due aerei senza pilota “Predator A” e quattro cacciabombardieri “Tornado”, schierati in Kuwait e Iraq. Da Gibuti, in Corno d’Africa, decollano quotidianamente due droni “Predator” del 32° Stormo di Amendola (Foggia), contribuendo alle operazioni Ue e Nato contro la pirateria e di quelle delle forze armate somale contro le milizie islamico radicali Al Shabab.
Ue e Nato in guerra contro i pirati sino alla fine del 2016
di Antonio Mazzeo

Di pirati in Corno d’Africa se ne trovano sempre meno tuttavia il Consiglio dell’Unione europea ha deciso di estendere l’operazione militare anti-pirateria “Atalanta” fino al 12 dicembre 2016. La proroga per altri due anni delle attività di perlustrazione aeronavale a largo delle coste della Somalia comporterà per l’Ue una spesa di 14,7 milioni di euro. “Il sistema economico della pirateria ha subito colpi pesanti ma non è finito”, ha dichiarato il Comando delle forze navali dell’Unione europea (EU Navfor). “Nonostante i significativi progressi conseguiti dall’operazione Atalanta, sono tutti concordi nel ritenere che la minaccia della pirateria resta viva”, spiega la rappresentante Ue per gli Affari esteri e le politiche di sicurezza, Federica Mogherini. “Dobbiamo continuare a mantenere la pressione sui pirati per dare sicurezza al Corno d’Africa. Questo è nel nostro comune interesse”.
In verità, le unità militari di “Atalanta” hanno registrato nel 2014 solo cinque “incidenti” ascrivibili ad atti di pirateria in acque somale, quatto dei quali classificati come “eventi sospetti” e solo uno, a febbraio, identificato come un vero e proprio “attacco”. “L’anno peggiore è stato il 2011 quando furono registrati 166 eventi sospetti, ridottisi a 73 nel 2012 e ad appena 20 lo scorso anno”, riporta EU Navfor. La drastica riduzione degli atti di pirateria in Corno d’Africa e nel mondo è confermata dall’International Maritime Bureau (IMB). L’agenzia internazionale ha registrato nei primi nove mesi di quest’anno 178 episodi (rispetto ai 352 dello stesso periodo del 2011), con 17 imbarcazioni assaltate, 124 abbordate e 10 incendiate. Una decina gli incidenti che hanno interessato le acque della Somalia, 13 la Nigeria (29 nel 2013) e 4 il Ghana (nessuno nel 2013). “Nel corso del 2014 si è registrato tuttavia un preoccupante aumento degli attacchi contro le piccole navi cisterna di cabotaggio nel sud-est asiatico”, allerta l’IMB.
Dallo scorso 6 agosto, il comando dell’operazione “Atalanta” è stato assunto dal contrammiraglio Guido Rando. La Marina miliare italiana guida per la terza volta le attività Ue anti-pirateria in Corno d’Africa da quando, nel dicembre 2008, ha preso il via “Atalanta”. Obiettivo principale “ufficiale” della missione militare a cui partecipano 21 Stati membri dell’Ue e due paesi non Ue è la scorta alle navi mercantili del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP), incaricate di consegnare aiuti alimentari in Somalia, oltre che la deterrenza, repressione e interruzione della pirateria marittima e la sorveglianza dell’attività della pesca al largo delle coste della Somalia. Recentemente il Consiglio Ue ha aggiunto alcuni “obiettivi secondari” al mandato di “Atalanta”: in particolare, “le unità aeronavali possono contribuire con i mezzi e le capacità esistenti, a un maggiore approccio complessivo dell’Ue alla Somalia, anche a supporto del Rappresentante speciale Ue per il Corno d’Africa”. Possono essere forniti altresì, supporto logistico, esperti e addestramento in mare per altri attori Ue, “in particolare le missioni di rafforzamento delle capacità marittime regionali (come EUCAP Nestor, la missione civile dell’Unione europea impegnata nelle attività di capacity building nell’area)”. L’operazione “Atalanta” può intervenire pure a sostegno dell’EU Training Mission (EUTM) Somalia (la missione europea di formazione delle forze di polizia e dell’esercito somalo), “al fine di contribuire alla creazione delle capacità necessarie agli stati rivieraschi dell’area per svolgere efficacemente il controllo delle acque d’interesse”. Il personale Ue può essere impiegato direttamente pure nelle attività di assistenza e addestramento delle forze navali, di polizia e delle guardie costiere della regione del Corno d’Africa.
La task force 465 di “Atalanta” è composta attualmente da una fregata belga, una olandese e una spagnola, da un’unità rifornitrice di squadra tedesca, da due velivoli ad ala fissa (uno tedesco e uno spagnolo) e da uno staff internazionale formato da 34 ufficiali e sottufficiali di Belgio, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Romania, Serbia e Spagna. Alle operazioni anti-pirateria la Marina militare italiana ha assegnato sino alla fine del gennaio 2015 la fregata lanciamissili “Andrea Doria”, con un equipaggio di 208 comprensivo dei team specialistici della Brigata Marina “San Marco”, del Gruppo Operativo Subacquei e della Sezione Elicotteri con un velivolo EH 101. Dallo scorso mese di settembre, il 32° Stormo dell’Aeronautica militare di stanza ad Amendola (Foggia) ha messo a disposizione dell’Ue due velivoli a pilotaggio remoto Predator “A Plus” per la “sorveglianza e il riconoscimento di attività sospette riconducibili al fenomeno della pirateria”. I droni operano dall’aeroporto di Chabelley (Gibuti) e sono utilizzati pure in funzioni d’intelligence a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie islamico-radicali di Al Shabab.
“Dall’assunzione del mio incarico di force commander della forza navale europea per l’Operazione Atalanta, non si sono verificati attacchi o incidenti riconducibili al fenomeno della pirateria”, ha dichiarato il contrammiraglio Guido Rando in un’intervista al Velino, il 10 novembre 2014. “La significativa riduzione del fenomeno della pirateria a partire dalla fine del 2011 è dovuta ai successi conseguiti negli ultimi anni e ai concomitanti effetti di diversi fattori, tra i quali lo sforzo esercitato dalla Forza Navale Europea in coordinamento con gli altri dispositivi aeronavali di coalizione (Nato e Combined Maritime Force, la forza marittima congiunta guidata dagli Stati Uniti d’America) o dei cosiddetti Indipendent Deployers (Cina, India, Russia, Giappone, Corea del Sud) e la conseguente adozione delle Best Management Practices, le misure di autoprotezione delle navi, l’assunzione di rotte e velocità più sicure, nonché da un più efficace controllo del territorio e contrasto alle organizzazioni criminali da parte delle autorità somale”.
Secondo il contrammiraglio Rando, “Atalanta” ha consentito la consegna di oltre un milione di tonnellate di aiuti del WFP alla popolazione somala, mentre “sono stati arrestati dalle unità EU Navfor e successivamente riconosciuti colpevoli del reato pirateria dall’autorità giudiziaria 128 soggetti”. “Oltre all’azione di deterrenza esercitata con la presenza di navi e aerei militari nell’area - ha aggiunto Rando - un’altra importante attività di EU Navfor è stata finalizzata alla raccolta di informazioni utili alla comprensione del pattern of life, ossia le normali attività sociali ed economiche svolte dalle popolazioni costiere”.

Il 3 giugno 2014, anche i ministri della Difesa della Nato hanno deliberato l’estensione dell’operazione militare anti-pirateria “Ocean Shield” sino alla fine del 2016. La task force 508 di “Ocean Shild” ha preso il via nell’agosto 2008 e vede oggi le unità aeronavali della Nato pattugliare una vasta superficie marittima compresa tra il Golfo Arabico a nord, le Seychelles a sud, il Golfo di Aden ad ovest e le Maldive ad est. “Ocean Shield contribuisce a proteggere una delle rotte navali più importanti al mondo e dove i pirati continuano ad attaccare le unità navali”, afferma il Comando generale dell’Alleanza Atlantica. “Nel 2013, la Banca Mondiale ha stimato che annualmente la pirateria causa danni all’economia internazionale per 18 miliardi di dollari. Gli sforzi anti-pirateria della Nato aiutano a ridurre questo costo”. Ampissimo il mandato assegnato alle unità aeree e navali impiegate con “Ocean Shield”. “La flotta Nato può perseguire attivamente le navi pirata sospette per prevenire gli attacchi”, riporta il Comando della task force 508. “I Nato boarding teams possono abbordare una nave sospetta per verificare se i pirati sono a bordo di essa. Le unità possono usare la forza per fermare i pirati. Tutti i pirati arrestati sono trasferiti il più presto possibile alle agenzie nazionali responsabili dell’applicazione delle leggi. In aggiunta a queste attività e come parte dell’Operazione Ocean Shield, la Nato sta operando con altri corpi internazionali per aiutare a sviluppare la capacità dei paesi della regione a contrastare da sé la pirateria”. Alle operazioni marittime dell’Alleanza contribuiscono periodicamente le forze navali di paesi latinoamericani e asiatici. A settembre e a novembre, si sono tenute nel Golfo di Aden una serie di esercitazioni congiunte tra le unità del Giappone e della Nato. Esse sono state condotte nel quadro dell’Individual Partnership and Co-operation Programme (IPCP), sottoscritto in primavera dal Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen e dal Primo ministro giapponese Shinzō Abe per “rafforzare il dialogo politico e la cooperazione militare, soprattutto nel campo della lotta alla pirateria e dell’assistenza in caso di disastri”

venerdì 16 gennaio 2015


Intervista a Luca Maciacchini
in occasione del suo nuovo spettacolo
“Caini e spalloni”

Odissea: Come nasce il progetto?
Maciacchini: Nasce su suggerimento di un operatore culturale del Comune di Ponte Tresa, Svizzera.In occasione della presentazione del libro “Caini e spalloni” di Sergio Scipioni. Mi suggerì di cercare se fra quei racconti di vita vissuta ci poteva essere qualche 'fonte di ispirazione'. Ne trassi subito tre canzoni, accolte molto favorevolmente la sera stessa della presentazione pubblica.
O: Come è avvenuto il lavoro di costruzione dei testi dei monologhi?
M: L'editore del libro Giacomo Morandi ha scritto una prima stesura del testo, poi arricchito dall'amico e collega Davide Colavini che cura anche la regia dello spettacolo. Si è attinto dai testi originali, ma anche dalla nostra personale fantasia.
O:“Quando eravamo quasi nemici”. È tua l’idea del titolo del cd?
M: No, è stata un'idea di Giacomo Morandi che, per distinguerlo dal titolo del libro, ha proposto varie denominazioni: io ho scelto quella che mi pareva meno scontata e più accattivante.
O: Che lingua usi nei monologhi?
M: L'italiano, mentre per le canzoni abbiamo ritenuto opportuno ricorrere al mio dialetto personale.
O: È un dialetto che si parla ancora?
M: Per la verità è un dialetto piuttosto 'viscerale': un misto fra milanese, varesotto e ticinese. Io sono una sorta di 'turista autodidatta' del dialetto che ho imparato ascoltando i dischi di Nanni Svampa e Walter Valdi, mescolandolo con quel poco che sentivo parlare da alcuni miei parenti. Forse è un dialetto, il mio, che non esiste ufficialmente, lo chiamo scherzosamente il maciacchinese.
O: Che costumi porti in scena e chi li ha realizzati?
M: Una divisa di finaziere autentica, acquistata on line. Non abbiamo potuto fare diversamente, la Guardia di Finanza non ci avrebbe concesso abiti di archivio.
O: Come sarà impostata la regia dello spettacolo “Quando eravamo quasi nemici”?
M: In maniera molto semplice: sono in scena con la mia chitarra e due frecce indicatrici, una indica l'Italia e una indica la Svizzera, a ricordarci le due realtà geografiche fra le quali si svolge la vicenda.
O: Quale tra le storie che interpreti ti ha maggiormente commosso?
M: Di fatto interpreto soltanto il finanziere che racconta tutte le vicende dal suo punto di vista; ed è proprio lui che più di tutti i personaggi evocati, oltre a commuovermi mi provoca compassione, nel senso originario del termine. Quasi un parallelo fra gli odierni magistrati che fanno fino in fondo il loro dovere, per poi sentirsi frustrati di fronte a una legge che dovrebbe garantire giustizia, e che per una ragione o per l'altra, nei fatti non basta a farli arrivare al buon fine che essi perseguono.  
O: Tu che sei originario di Varese, non lontano dal confine con la Svizzera, sai se esiste tuttora la realtà narrata nei tuoi monologhi?
M: Probabilmente non esiste più in questa forma. L'esportazione di materiale non propriamente lecito è forse da ricercare in ambiti coperti dal segreto bancario.
O: Dove è distribuito il tuo cd?
M: Per ora soltanto durante i miei spettacoli, ma si può acquistare anche on line scrivendo a info@giacomomorandi.it
O: Quali sono le tappe di Quando eravamo quasi nemici”?
M: Farò una tournée nel Nord Italia e in Svizzera, specialmente nelle terre di confine. Lo presenteremo anche attraverso emittenti radiofoniche e televisive dei due paesi.

Luca Marchesini. Attore, musicista e cantautore poliedrico. Innamorato del teatro e della musica fin dalla tenera età, dopo la maturità classica si diploma presso la Scuola d’arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Consegue il diploma di chitarra classica presso il conservatorio musicale “Guido Cantelli” di Novara. La sua carriera artistica di attore è distinta da prestigiose collaborazioni in teatro con i registi: Gabriele Vacis, Michal Znaniecki, Eugenio Allegri, Giampiero Solari, Roberto Brivio e Walter Manfré. I suoi concerti di chitarra classica riscuotono successo sia in Italia che in Svizzera. Nel 1999 pubblica un saggio dedicato alle canzoni di Fabrizio De Andrè dal titolo “Anima salva” Le canzoni di Fabrizio De Andrè. Discografia: “Semaforo rosso” (Ecosound 2008);  “Il boomerang di Dante” (Devega 2010). Tra i suoi spettacoli teatrali piu’ significativi: “Virgilio è ballabile” (2003 in onda anche su Radio Svizzera Italiana) - “Semaforo rosso” (2004) - “Omero jazz e blues” (2009) - “Giorgio Ambrosoli” (2011). Le traduzioni dei testi in lingua italiana di “Caini e Spalloni” sono disponibili sul sito web: www.lucamaciacchini.com


PER RIMANERE UMANI





                                                  








TEATRO
Dopo il successo romano, “Io. Camille” della nostra collaboratrice
Chiara Pasetti, approda a Milano, nel bellissimo teatro liberty
di via Filodrammatici, situato nel cuore della città.
Un appuntamento da non perdere.




“IO. CAMILLE”
Drammaturgia di Chiara Pasetti 
Con Silvia Lorenzo
Regia di Angelo Donato Colombo 
La voce di Rodin è di Massimo Popolizio
Voce fuori scena di Anna Bonaiuto
Al “Teatro Filodrammatici” di Milano  
(Via Filodrammatici 1, Milano, a fianco del Teatro alla Scala)
Venerdì 13, Sabato 14 Febbraio 2015, ore 21.

Lo spettacolo Io. Camille vuole raccontare la scultrice geniale e la donna appassionata che fu Camille Claudel (1864–1943). Personalità inquieta, irriverente, incline a violente passioni, condusse un’¬esistenza interamente dedicata alla sua arte, svolgendo un mestiere da uomini e legandosi sia artisticamente sia sentimentalmente al maestro della scultura francese Auguste Rodin. La fine della loro relazione segnerà un distacco definitivo, irreversibile, che si riverbera anche nelle opere di entrambi. Mentre il suo nome, finalmente, comincia ad emergere, e il suo talento viene riconosciuto, Camille si chiude in un isolamento carico di manie di persecuzione, distruggendo molti suoi lavori. Abbandono, rabbia, amarezza, solitudine, frustrazione, delusione, amore ferito, odio, senso di «qualcosa di assente» che sempre l’aveva tormentata... Tutto questo confluisce in una psicosi paranoica per la quale la madre e il fratello Paul ne chiedono l’internamento in un asilo per alienati mentali. Un ricovero che pare essere “temporaneo”, e che la vedrà trent’anni chiusa fra le mura del manicomio di Montdevergues, presso Avignone; non scolpirà più una sola opera dal momento del suo ingresso. Morirà in manicomio, nel 1943. Sola, abbandonata da tutti. Nemmeno il suo nome nella fossa comune, ma un numero di matricola: 1943-392. Impossibile capire di chi si trattasse.
Ero io… Io. Camille.

Privacy Policy