GIORGIO
ARMANI
di Angelo Gaccione
Dentro il vestito niente
Premetto che non ho nulla di personale contro lo stilista
piacentino-milanese, anzi ho sempre apprezzato la sua riservatezza e
gentilezza. Se passavi da via Borgonuovo e lo trovavi davanti al portone della
sua casa, era lui a salutarti per prima, seppure non ti conoscesse. La casa
avevo avuto modo di visitarla in occasione di una delle giornate aperte delle
dimore storiche. Un’altra occasione la ebbi quando convocai amici e collaboratori
di “Odissea” nella piazzuola di via Croce Rossa davanti al monumento di Aldo
Rossi, quello dedicato a Sandro Pertini. Proprio davanti all’hotel di lusso di
Giorgio Armani. Ho sempre criticato quell’ammasso di marmo che opprime una
piazzola raccolta ed armonica e lo feci anche quella volta pubblicamente.
Armani ci fece sapere che se il monumento fosse stato spostato in un luogo più
consono (la Milano post-moderna, per esempio la Bicocca) si sarebbe occupato
lui di ridisegnare lo spazio. Dell’Armani Silos di via Borgognone e della
riqualificazione di quell’aria ho scritto articoli, e un capitolo confluirà nel
mio nuovo libro su Milano. Dunque, da parte mia nessuna pregiudiziale ostilità e
tanto meno invidia per il suo successo e la sua ricchezza. Tutt’altra storia è
l’avversione che io provo nei confronti del mondo della moda, come del resto ne
provo per l’ambiente dei letterati di cui faccio parte, uno dei peggiori in
assoluto, assieme a quello dei politici di professione: conformista, miserabile,
compromissorio, corrotto, intrallazzatorio… e aggiungete voi gli altri
aggettivi che covate nello stomaco. Un mondo in apparenza scintillante, ma
fatto di un sottosuolo pullulante di schiavi e di sfruttati di cui le griffe
della moda fanno finta di essere all’oscuro. Un mondo di rapina che si è
accaparrato terre fertili, materie prime, manodopera; che ha costretto alla
chiusura centinaia e centinaia di quei piccoli laboratori che la fanno
prosperare, a causa dei prezzi da fame che propone, e indifferente a disperazione,
dolore, morte. Che provoca, lungo la sua catena dell’indotto, uno sfruttamento
a scalare fino all’ultimo e più debole degli anelli: quello dove si annida il
cinese o il pakistano che cuce e assembla a mano, in un sottoscala o dentro una
stamberga, bucandosi gli occhi per 18 ore al giorno invisibile e senza diritti.
In quali mani finiscono quei prodotti e quali corpi
adorneranno quei vestiti super lusso venduti a cifre da capogiro nelle vie più
centrali ed esclusive delle città del mondo? È una parte minoritaria e precisa
della società che ne potrà fruire, sono gli esponenti di quella classe sociale
di super ricchi fatta di sfruttatori e parassiti, che ben conosciamo e che se
la gode, mentre coloro i quali tengono in piedi la nazione, ne sono il nerbo
necessario, muoiono sui posti di lavoro, fanno fatica a mantenere le famiglie,
rinunciano a curarsi. Sono nuovi ricchi e volgari parvenu del mondo
della finanza, della politica, della massoneria, dello spettacolo, dello sport,
del cinema, dell’effimero; quelli che siedono fianco a fianco alle prime della
Scala e dei Festival, che sfoggiano vestiti da migliaia di euro per esibire
culi e tette, indifferenti al corso del mondo, al numero dei morti quotidiani
sul lavoro, alle tragedie, allo sfascio, allo sperpero, di cui sono i fautori.
In una nota su questo stesso giornale Sergio Azzolari sottolinea come gli
organi di informazione abbiano riservato uno spazio spropositato alla scomparsa
dello stilista Armani. Ha ragione. Ci sono vite che pesano e altre che non
contano nulla. Armani avrà vestito una piccola aristocrazia di ricchi, ma un
biologo che si è dannato tutta la vita l’ha salvata a miliardi di persone. Un
minatore, un vigile del fuoco, un contadino, un ferroviere, uno spazzino, una
semplice oscura casalinga che si prende cura di tutta la famiglia, una maestra,
un medico dotato di coscienza umana, un volontario che mette a disposizione
gratuitamente il suo tempo e la sua salute, non hanno mille volte più utilità
sociale di un qualunque disegnatore di abiti per pochi privilegiati? Non
meriterebbero costoro una considerazione mille volte maggiore?
Ho espresso in libri e articoli il mio pensiero su certi
ambienti per spenderci altro tempo. Raramente ne ho sentito uno che abbia
aperto bocca su questioni gravi che tutti ci riguardano. Raramente mi è
capitato di vederne uno in piazza, nemmeno dopo stragi nelle città, dopo
massacri di innocenti, dopo ingiustizie evidenti e scandalose. Non ne ho visti
prendere le distanze da certi loschi figuri: anzi, ci fanno comunella, li
ricevono nelle loro ville e ne vengono ricevuti. In tal modo contribuiscono
alla giustificazione dell’immoralità pubblica, fondano un sentire
giustificatorio che assolve ogni degrado sociale, ogni illegalità. Mi chiedo se
allo stilista milanese la stampa avrebbe riservato altrettanto spazio se avesse
preso posizione contro il genocidio di Gaza, se avesse preparato una sfilata in
via Monte Napoleone con brandelli di stoffe insanguinate come quelli dei bimbi
palestinesi, se avesse detto pubblicamente che governi e partiti ci stanno
portando alla terza guerra mondiale, che la sua scintillante Milano se la
stanno divorando gli speculatori, che i ceti medi e popolari la scintillante
Milano li sta deportando altrove, che chi vi è nato e l’ha amata è costretto ad
andarsene perché è diventata cara come i suoi vestiti. Gli avrebbero dato tanto
spazio? Io credo di no. Ma fortunatamente lui ha disegnato solo abiti.