MUTARE SGUARDO
di Fulvio Papi
Probabilmente abbiamo più di una difficoltà
a confessare tutti i nostri peccati che hanno condotto in rovina il paese e
che, all’estremo hanno costretto a chiamare per evitare la bancarotta, esperti
di finanza (“economisti” in senso classico, è un altro genere). Essi hanno
afferrato il denaro solamente da chi non lo poteva nascondere, per esempio nel
caso dell’IMU, i proprietari di seconde case.
È noto che gli esperti del denaro non sanno la storia e
forse nemmeno la propria. Così a nessuno è venuto in mente che le seconde case
spesso sono state comprate in un clima di euforia ideologica (rosea nube
tossica su una economia drogata) e di incitamento dei pubblici poteri con la
distruzione del territorio (volgarità estrema dei comuni interessati) e
l’investimento di modeste quantità di denaro, talora derivato da faticosi
risparmi. Risultato: dopo decine di anni questi antichi proprietari di pochi
metri quadrati devono pagare cifre che non sono affatto proporzionate agli
attuali redditi reali. Capisco che per gli strateghi della finanza le storie
dell’esistenza non esistono, e capisco anche l’emergenza: se in una nave si
sbaglia la proporzione delle scialuppe di salvataggio rispetto ai passeggeri,
nel caso di naufragio funziona il “si salvi chi può”. E da noi si salvano
quelli che si salvano sempre. A suo tempo le persone di buona cultura dissero:
“una patrimoniale”. Vi fu l’insurrezione di onorevoli (i significati possono
slittare sino alla parodia) che erano lì proprio per scudo ai loro padrini,
beneficiati per questo scopo anche dal pubblico denaro.
Ma in realtà queste sono tutte chiacchiere poiché le
grandi ricchezze sono invisibili come sono invisibili i miliardi (180 dicitur) che sfuggono al fisco. Grande
visibilità hanno invece i denari di quel milione di persone che vengono tassati
per il 52% del loro reddito.
Visibilità e
invisibilità sono parole che si possono usare in molti contesti: relativamente
al clima, al traffico, ma anche, e in modo differente, a livello sociale. Ora un
livello sociale non nasce mai da rapporti immediati come può accadere in una
sociologia di superficie, ma proviene da “condizioni di possibilità” che
derivano da una storia e anche dal sapere come si fa una storia. Capisco le
loro ragioni quando politici né odiosi né disonesti, cercano, con il sussidio
di dati, a dire poco pieni di silenzi, e quindi molto poco rilevanti, di
mostrare che “stiamo uscendo dalla crisi”. Mi domando se questa frase sia a
livello metaforico (l’uscita) che a livello fattuale (crisi) abbia senso. So
che il mezzo fa il messaggio e che il messaggio vuole dirigersi verso
interpretazioni favorevoli, ma, infine, bisognerebbe sapere di più e meglio.
Nella nuova
strutturazione (in continuo movimento) dell’economia mondiale, forme sociali,
tecnologie produttive, modalità del consumo ecc. ecc., quali sono realmente le
nostre possibilità? Eviterei le risposte, tutte, che si dicono banalmente da
anni. Se un oggetto viene prodotto da capitale italiano in un luogo qualsiasi dove
il costo di produzione è molto basso, e poi viene venduto sul nostro mercato a
un prezzo come se avesse dovuto sopportare i nostri costi di produzione, che
cosa succede? Il profitto del capitale aumenta e il consumo necessariamente si
restringe (a causa della disoccupazione prodotta dal la delocalizzazione
dell’impresa). Si possono citare molti altri casi simili a questo, e altro non
sono che conseguenze della nostra storia economica e politica, della mancanza
di intelligenza e di giustizia. “Molle
Tarentum” diceva Orazio, e ora? Ora si muore lavorando.
Non credo che
i giovani siano la soluzione del problema (dato che i cretini si ripartiscono
equamente per età e per sesso). Alla prova, mi sembrano divisi, quando parlano,
da una formalità molto bassa, quando non si manifesti, al contrario, una
esaltazione psichica da profeti tanto banali quanto arroganti e maleducati. Il
fatto è che il modello educativo che hanno assimilato, è ancora quello della
verità televisiva in 15 secondi poiché la rottura dei tempi è un’illusione che appartiene
al linguaggio, e l’eredità, anche involontaria, è sempre la realtà, quella del
rapporto tra verità e tempo del discorso. Dunque quello che si può dire, quello
che si può capire, quello che conviene dire. Si è sempre saputo che una cultura
esige tempi necessari, ma è un sapere antiquato. Auguro tutto il successo
possibile, ma so che sarà molto difficile cambiare veramente. Le parole
d’ordine, gli slogan non sono poi questione di grandi menti. Ma è cosa molto
diversa mettersi di fronte a nodi strutturali della nostra storia (tanto duri
che una “filosofia della storia” è diventato un pragmatismo del proprio
interesse immediato).
Sarà
sgradevole, ma bisogna ammettere che una comunità nazionale esiste in modo
anche sconsiderato, ma esiste nelle partite di calcio, e, in modo rovesciato,
“a manico di scopa ingoiato” nelle cerimonie, quando la forma della
partecipazione esclude qualsiasi impegno che metta in gioco la propria vita
individuale. C’è un costume dell’ipocrisia involontaria, contro il quale scagli
la prima pietra chi onestamente può dirsene sempre privo. Ma non sarà poi
necessario citare sempre il discorso di Churchill sulle “lacrime e sangue” e la
resistenza inglese all’assalto aereo dei criminali nazisti, per ricordare una
comunità nazionale. Ci vuole molto, ma molto meno. Ci si potrebbe accontentare
di un ceto politico (esente da fenomeni disgustosi nell’essere e nel parlare)
sufficientemente consapevole per guardare e far guardare i guasti storici di
uno stato che, purtroppo, nella sua tradizione, è mancato (salvo brevi periodi)
di un’attenzione nei confronti dei cittadini in tutti i sensi (diritti e
doveri), e dei cittadini nei confronti dello stato secondo un reciproco
riconoscimento. Sarebbe bene chiudere con l’autobiografia della nazione di cui
parlava Gobetti (e in fondo anche Gramsci negli anni della detenzione
fascista). So bene che sono progetti molto difficili, persino impossibili, ma è
almeno con questo sguardo privo di paure, di compiacenze, di narcisismi che si
può ricominciare.