La
democrazia nel tempo dei populismi
di
Giovanni Bianchi
I populismi non sono una
novità
Ovviamente anche nel tempo dei populismi
la democrazia è a rischio. Del resto è impossibile dimenticare l’ammonimento
sturziano per il quale la democrazia non è un guadagno fatto una volta per
tutte. E allora, anche nel tempo del populismo mediatico, si tratta di
ricostituire un punto di vista a partire dai populismi odierni, con l’intento
perenne di far dialogare intorno ad essi le diverse generazioni portatrici di un
approccio e di vocazioni giustamente diversificate.
Una
grande tradizione populista è rintracciabile nella storia degli Stati Uniti
d’America, nelle culture politiche, nei partiti i elettorali, negli stessi
sindacati.
Ma
indubbiamente l’interpretazione più estesa e consistente del populismo si
ritrova nel continente latino-americano e in particolare in Argentina. L’epopea
del peronismo è paradigmatica e non manca di nulla. Il generale, l’icona
femminile, quasi sacra, di Evita Peron, le manifestazioni oceaniche di piazza,
le strutture organizzative che vanno dalla destra sindacale, cui fu attento il
gesuita Bergoglio, fino alla sinistra più estrema ed armata dei montoneros guidati da Eduardo Firmenich,
ora professore universitario esule a Barcellona. Venature populiste si
ritrovano dunque in diverse formazioni e perfino nel kennedismo nordamericano.
Si pensi a quella che continuo a considerare la pagina più alta della retorica
politica del Novecento, costituita dal celebre discorso sul Pil di Bob Kennedy alla
Kansas University nel 1968: il Pil non misura il costo delle nostre carceri e
delle manette, così come il tenore affettivo delle famiglie americane…
Ma
da dove guardiamo oggi al fenomeno populista in Italia?
A
far data dalla caduta del Muro di Berlino del 1989, bisogna ricordare che
l’Italia è l’unico paese al mondo ad avere azzerato tutto il precedente sistema
dei partiti di massa. Non è successo in nessun altro paese d’Europa.
I
partiti erano l’organizzazione di una cultura politica popolare, lo strumento
per la selezione della classe dirigente sui territori e in ordine alle
istituzioni nazionali, un’organizzazione diffusa della quotidianità popolare. E
basterebbe pensare ai festival dell’unità per rendersi conto di quanto la
politica si fosse mischiata alla vita della gente e di come a partire da lì
fosse in grado di costituire la figura del “militante politico”, sulle cui
gambe ha camminato nel dopoguerra, sotto tutte le bandiere, la democrazia reale
del Paese.
È
il crollo irreversibile di questo mondo (ha sempre ragione Toynbee a ricordarci che le culture e le civiltà non vengono uccise, ma
si suicidano) che ha spalancato autostrade e praterie ai nuovi populismi
mediatici italiani.
Ad
interpretarli aiuta un’espressione sintetica delle giovani sociologhe americane
le quali affermano che oggi le politiche e i giovani politici si occupano di surfare le situazioni e i problemi, così come giovani atletici e
coraggiosi cavalcano sulla tavoletta del surf
le onde immense dell’oceano, senza chiedersi granché sulla natura delle onde.
E’
questa la ragione per la quale oggi tutti i populismi passano attraverso i
media, sono mediatici e rappresentano l’interpretazione mediatica della
“politica senza fondamenti”, sulla quale le riviste italiane degli anni Ottanta
dibattevano e facevano previsioni.
Interrogandomi
a mia volta sul tema e sulla situazione sono riandato a studi che feci nel 2000
in un saggio dedicato alla quotidianità. Allora avevo scelto come pesce-guida
dello scandaglio Walter Benjamin e i suoi studi sul dramma barocco tedesco.
Ma
si tratta di cosa troppo seria e comunque superata dagli eventi in corso e
dalle tecnologie che hanno profondamente mutato non soltanto il comportamento e
la percezione dei politici: Benjamin si occupava del Settecento e dei sovrani;
noi invece dobbiamo fare i conti soprattutto con una vasta fascia di classi
medie impoverite e con il ceto politico che esse esprimono.
Cicciolina
I
nostri populismi vengano meglio affrontati e intesi nell’origine se si ricorre
a un saggio di Francesco Alberoni pubblicato negli anni Sessanta con il titolo L’élite
senza potere.
Un
saggio utilissimo e tuttora importante perché opera la distinzione tra la
leadership e il divismo. Il leader è dotato di autorità, di carisma, deputato a
governare. Il divo domina l’immaginario, affabula, non governa, è circondato di
enorme simpatia e gli viene consentita la trasgressione. Una distinzione
evidentemente superata dai fatti. Gli idealtipi e i personaggi si sono
mischiati, con nessun vantaggio né per il leader né per il divo. Il punto di
svolta, o se si vuole la “frattura”, in Italia la produce Marco Pannella con la
candidatura e l’elezione al Parlamento di Ilona Staller, in porno-arte Cicciolina. Anche in questo caso
l’elezione della Staller farà tendenza e aprirà autostrade più impolitiche che
politiche.
Non
a caso avremo da allora una sempre maggiore presenza degli uomini di spettacolo
in politica: sia con teatri e trasmissioni dedicate alle vicende nazionali
correnti, sia con la presenza sul terreno della rappresentanza di attori e
soprattutto comici.
E’
anche utile dire che non si tratta di un fenomeno soltanto italiano,
enfaticamente rappresentato da Beppe Grillo, ma di una sorta di mania
internazionale. Una imitatrice di Cicciolina interessò qualche anno fa le
cronache politiche spagnole, mentre il caso più clamoroso è quello del “pagliaccio
Tiririca” in Brasile, approdato al Parlamento di Brasilia con 1 milione e 750
mila voti di preferenza e con un programma molto sintetico: “Non so cosa
facciano in Parlamento, ma se mi eleggerete ve lo spiegherò giorno per giorno”.
E’
anche per questa ragione che è esplosa, in particolare nel nostro Paese, la
discussione intorno al rapporto tra politica e antipolitica, spesso
dimenticando che il confine tra politica e antipolitica è un confine
estremamente poroso, ossia percorribile nei due sensi.
Gli ingredienti
Vi
sono infatti ingredienti costitutivi insieme della nuova politica e
dell’antipolitica.
La
velocità infatti sembra il criterio principe delle nuove politiche, in
grado di offrire governabilità là dove la democrazia tradizionale produce
lentezze ed ostruzionismi. Il problema ovviamente non è campato per aria ed
alcuni costituenti, come Giuseppe Dossetti, se lo ponevano già in allora: come
adeguare i tempi dell’esecutivo a quelli di caduta assai più veloce dei modelli
economici e tecnologici.
Così
pure il vincere, non avere ragione, pare
essere la missione dei nuovi politici. Al punto che il campo della politica
sembra diventato un campo di basket, dove si ama distinguere tra vincenti e
perdenti. Il basket è un grande sport, ma la politica è e dovrebbe restare un’altra
cosa. I criteri di giudizio, la capacità di critica e di aggregazione, la
stessa filia di un partito, non possono discendere da questi criteri. La
democrazia soprattutto richiede tempi di studio e di discussione dei problemi che
male si accordano con la fretta delle decisioni e la mutevolezza delle
emozioni. Troppe volte infatti il bagaglio espressivo del populismo mediatico
sembra alludere a un antico esperimento dannunziano: i 18 mesi della Repubblica
del Carnaro, che videro la città di Fiume trasformata in laboratorio e palcoscenico di una messa in scena di
sentimenti, esagerazioni e provocazioni che finirono la propria esibizione
sotto le granate volute da Giolitti. Perfino il marinettismo dovette sembrare
più castigato…
E
ancora un’osservazione che discende dai rapporti interni alle diverse
componenti del PD e alle sceneggiate che di tempo in tempo vengono esibite. In
questo caso, oltre al populismo, funzionano vecchi meccanismi e astuzie della
politica riconducibili al relativismo dei giudizi. Non va infatti mai dimenticato che la statura
di un politico viene normalmente misurata dall’opinione pubblica attraverso il
confronto con quella dei suoi seguaci e avversari. Vale la regola arcinota per
la quale i friulani sono i più alti tra gli italiani, ma se si confrontano in
Europa con gli olandesi non possono che apparire di media statura. Credo che
questo relativismo sia la ragione per la quale Renzi non abbia nessun interesse
ad estromettere dal partito gli
oppositori. Perché gli appaiono come la dimostrazione palmare di quanto lui sia
più veloce e vincente. Così il confronto con i concorrenti e gli avversari mette in secondo piano quello
con la realtà e la durezza dei problemi che stanno dietro la rappresentazione
della realtà. La politica che ha deciso di governare le emozioni risulta assai
più forte nella rappresentazione e rischia di mostrare la corda e la sua
debolezza proprio nel confronto con la durezza dei fatti. Per questo torna in
campo il termine surfare: essere
bravi nell’equilibrio sopra la tavoletta è altra cosa rispetto al confronto con
i problemi.
Lo
showman tiene inevitabilmente il campo, ma proprio la sua abilità vincente
rischia di impedirgli di intraprendere il cammino dello statista. Si torna cioè
alla considerazione, che riguarda quasi in toto la politica italiana: i
populismi mediatici governano le emozioni degli elettori prima e più (o anche
al posto) dei problemi.
Si
può danzare benissimo l’estate, ma l’estate è soltanto una stagione dentro un
anno politico più lungo, e non privo delle rigidità dell’inverno.
Anche le politiche nuove
discriminano
Anche
le rappresentazioni della nuova politica possono discriminare. È così che la “rete”
di Grillo finisce di fatto per escludere più del censo che consentiva agli
inizi dello Stato unitario la partecipazione al voto nel nostro Paese di appena
il 2% della popolazione. Anche
per una difficoltà tecnologica delle vecchie generazioni, le consultazioni di Grillo
raggiungono una platea di qualche decina di migliaia di elettori. E il resto? È
colpa dei vecchi essere vecchi? E perché l’età avanzata dovrebbe impedire
l’esercizio del voto e della cittadinanza?
Un
lungo discorso andrebbe ripreso
sull’antropologia degli italiani e sul suo modo di attestarsi oggi dopo le
celebri diagnosi di Leopardi, di Prezzolini e di Guido Dorso.
Resta
il problema di rifare ancora una volta i conti con la sostituzione nell’ambito
della cittadinanza reale operata dalle nuove classi medie impoverite rispetto
al popolo del secondo dopoguerra. Non è un problema statistico né tantomeno
soltanto sociologico. È un problema antropologico che attiene alla politica: è
un problema di analisi e riguarda l’organizzazione culturale di massa. Siamo
richiamati a fare i conti con quella che oramai universalmente viene
riconosciuta come la “società liquida” (Bauman). Società liquida alla quale
rischia di corrispondere sempre più una politica ciarliera e gassosa.
Si
pensi a come il cibo -riconosciuto universalmente come food- sia diventato uno degli ingredienti dei nuovi populismi, dal
quale nessuna nuova ideologia o predicazione riesce a prescindere. Anche Radio
Popolare ha deciso infatti di dedicarvi più di una rubrica pur rivolgendosi a
una platea di ascoltatori di irriducibili della politica tosta e sicuramente
fondata. Lo stesso e più deve dirsi del calcio, in tutte le sue versioni: il
calcio come spettacolo, il calcio come filosofia, il calcio come borsa dei
calciatori e dei loro stipendi, il calcio come rito di massa, il calcio come
colla e motivazione degli oltranzisti della curva dello stadio. Il food e il calcio sono diventati infatti elementi
portanti del nuovo pensiero unico generalizzato dal capitalismo come narcisismo
acquisitivo (straparlando di merito e professionalità), e del nuovo populismo
di massa che assimila e uniforma i comportamenti.
È
patetico lo spettacolo che tutte le mattine di bel tempo si offre ai miei occhi
nella sottostante piazza Petazzi. Antichi sestesi che hanno lavorato nelle
grandi fabbriche e condotto dure lotte appaiono impegnati in discussioni
accalorate e dottissime sulla filosofia del calcio e la borsa del campionato,
dimentichi della politica di un tempo, approfittano di qualche pausa per
scambiarsi informazioni sulla prostata…
E
al di là del sarcasmo e delle celie, inviterei a non sottovalutare questa
pedagogia di massa del populismo. Perché il modello educativo risulta comunque
centrale nei populismi nelle diverse fasi storiche. Basta riandare al ventennio
fascista e al contrasto con la Chiesa cattolica, dove le condiscendenze nei
confronti del regime trovarono un limite e terminarono con le leggi razziali e per l’avversione
al modello educativo rappresentato dal Balilla. Fu il cardinale di Milano,
Ildefonso Schuster, a dire ad alta voce durante una cresima ai ragazzini
stipati nelle navate del Duomo: “Macché Balilla, voi siete soldati di Cristo”.
Una versione americana
Una
versione americana del rapporto tra democrazia e populismo la troviamo in
Walter Lippmann, che distingueva tra “massa
confusa” (spettatrice dell’azione e non partecipante ad essa) e “classe
specializzata”, che si occupa dell’opinione pubblica. Pensava infatti
Lippmann che “gli interessi comuni si sottraggono interamente all’opinione
pubblica”. Una visione indubbiamente attenta, e particolarmente attenta al
ruolo dell’élite.
Una
visione in certo modo approfondita e rafforzata da Reinhold Niebuhr, che
osservava, sulla medesima lunghezza d’onda: “La razionalità è una capacità
davvero assai limitata”.
Insomma,
il populismo dilaga dove minore è l’informazione e affievolito lo spirito
critico. Posizione diversa da quella dalla quale osservava il fenomeno Walter
Benjamin, quando procedeva all’elaborazione luttuosa della leadership usando
gli strumenti del dramma barocco tedesco. Quindi rovistando nella storia, a
differenza della tragedia dei greci che scandagliarla il mito. Con l’intento
comunque di rinvigorire la virtù degli spettatori. Tradotto nella vulgata corrente,
si dovrebbe dire che Benjamin usa gli strumenti dei “gufi”, non quelli degli
“ottimisti”. Un approccio da non dimenticare è quello di Harvey Cox (1964) che
pone il problema a partire dalla morte di Dio. Osserva Kox che alla spietata
visione materialista del marxismo si è sostituita un’altra visione altrettanto
spietatamente materialista. E non ci vuole molto a intendere che qui affonda le
sue radici la vulgata del pensiero unico.
E
vale ancora la pena osservare come tutto -immagini e slogan- viaggi non
all’interno dell’antica propaganda, ma si serva degli strumenti della nuova
pubblicità. Vedrò di fare ancora un paio di esempi.
Icone della quotidianità
Il
primo esempio mi è stato suggerito dalla copertina del fascicolo di
“laRepubblica” di mercoledì 23 settembre 2015 dedicato alla moda. Prima pagina:
“Dalle sfilate arrivano abiti, borse e gioielli dallo stile neutro. Per parlare alle nuove generazioni”. Più
sotto, sempre a caratteri di scatola: “Moda.
Il futuro è no-sex”.
Il
messaggio subliminale non mi pare né criptico né esaltante. Ed è essenzialmente
rivolto a quanti, presi dalla professione e dalla corsa del dopo in carriera,
scelgono con più decisione lo status di single.(La
famiglia e il carico dei figli consumano troppo tempo prezioso.) Infatti nella
seconda pagina troviamo un titolo sibillino: “L’era del vestito plurale”. Quindi: “Fluidità é la parola chiave
del post-contemporaneo. Siamo in un’epoca di metissage completo, figlio di una proliferazione culturale che
vuole uscire dall’ “igenismo” minimalista
dei designer”.
Non
siamo evidentemente al top della spiegazione facile. E mi è venuto in mente che
già altra volta mi era capitato di pensare che lo sguardo più acuto sul
populismo americano e mediatico fosse quello di David Foster Wallace nella
raccolta di saggi pubblicata da Einaudi nel 2006 con il titolo Considera l’aragosta. L’autore di Infinite Jest (1281 pagine, note ed errata corrige inclusi) si
produce in Considera l’aragosta, nel
primo capitolo, in una descrizione ed analisi del festival dei film porno
tenuto a Las Vegas. Le chiavi interpretative che David Foster Wallace fornisce
sono insieme acute ed esilaranti: un modo divertente e geniale per interpretare
uno degli aspetti del populismo americano. Ovviamente Foster Wallace non era pagato
per fare della pubblicità. Torniamo invece in Europa e torniamo in Italia e
torniamo pure al quotidiano “laRepubblica” di giovedì 24 settembre 2015.
Sfogliate fino a pagina 41 dove vi imbattete nel titolo: “Lezioni di sesso alla danese. Fate figli presto”. Più chiaro il
soprattitolo: “Svolta nei corsi scolastici per arginare il crollo del tasso di
natalità. Ora si insegna che è meglio non aspettare a procreare”.
L’articolo-reportage è serio e firmato da Andrea Tarquini.
Si
fa osservare che programmi e materiali si adeguano sin dalle elementari, in
Danimarca, per salvare lo Stato sociale. Il reddito minimo per chi ha figli può
arrivare a 1760 euro al mese. Ogni studente riceve, in nome del diritto allo
studio, un assegno di 700 euro ogni mese. Insomma più che a vendere oggetti
alla moda no-sex, i danesi risultano preoccupati della loro scarsa natalità, e
quindi si ingegnano a incentivare, anche fra i giovanissimi, la voglia di fare
figli, supportandola con i contributi finanziari. (Nella cattolicissima Italia
si provvede invece ad organizzare il Family
Day.)
Mi
chiedo se il populismo quotidiano che attraversa queste società liquide non si abbeveri
assai di più a questi provvedimenti piuttosto che ai riti – pure essi populisti
– della politica mediatica vecchia e nuova. E se andate col pensiero a
un’Italia lontana vi accadrà di scoprire quanto populismo propositivo (i
populismi non sono soltanto malattia ed epidemia) vi fosse nella campagna di
promozione dell’Autosole, inaugurata il 4 ottobre 1964: 700 km da Milano a
Napoli, per unire il Bel Paese e una penisola troppo lunga e troppo bella…
Parrebbe
dunque inevitabile questa fase di populismi: diversi, propositivi o
allontananti, tutti comunque dilaganti a tutte le latitudini. Personalmente
trovo aspetti di sano e virtuoso populismo in alcuni discorsi del mio grande
amico sestese Gino Strada, che ha fondato
Emergency per attraversare le guerre, sanando le ferite dei più deboli e
sfortunati, e che sostiene, anche in televisione, che gli uomini possono
eliminare la guerra, così come hanno saputo eliminare la schiavitù. (Una
testimonianza da vero premio Nobel.)
Il
problema, ancora una volta, è dotarsi degli strumenti per interpretare prima i
fatti degli avvenimenti. Per difendersi dalle sirene populiste e sapere usare
gli strumenti a disposizione. Insomma,
l’eterno problema di studiare per costruire un punto di vista.
Con
il gusto anche di scoprire e magari divertirsi, affermando praticamente che non
tutte le democrazie debbono per forza essere di umore saturnino. E che vale la
pena di capire i populismi perché a loro volta non sono poca cosa nella lunga e
incerta partita che stiamo conducendo tra governabilità e democrazia.