di Gianni Zambianchi
Gianni Zambianchi |
In che lingua, in che
perso dialetto?
Mario Luzi
Socrate nel Teeteto di Platone racconta che Talete,
mentre mirava le stelle e gli occhi aveva rivolti ad esse, cadde in un pozzo.
Una servetta spiritosa che lì si trovava lo motteggiò dicendogli che delle cose
del cielo si dava pena d'indagare ma di quelle che aveva davanti e sotto i
piedi non si curava. Per molti ancor oggi il dialetto è un incespo; un qualcosa
di sconosciuto, di basso non meritevole d'attenzione. Poco importa se una
moltitudine di poeti neodialettali, anni Settanta-Ottanta, l'hanno innalzato a
poesia, andando oltre i modelli bozzettistici e d'occasione; Raffaello Baldini,
Ferdinando Cogni, Mirco Maffini, Tonino Guerra, Biagio Marin, Franco
Scataglini, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, per citarne alcuni. Da lingua
del fare a lingua della poesia. Il vernacolo è il gergo degli umili, dei
diseredati, la lingua del latte, della terra e delle radici; appartiene alla terrigna
franchezza del volgo. Il poeta siciliano Buttitta sosteneva che: «un popolu, diventa poviru e servu, quannu
ci arrobbanu la lingua...». Il dialetto appartiene all'inconscio collettivo
di un popolo, è la ramazza del quotidiano, la misura della disperazione e della
gioia, della mortificazione e della ribellione; idioma delle origini e gran
sarto che veste su misura. Strappato all'oralità cui esso appartiene per natura
e riproposto come scrittura era inevitabile che si contrapponesse alla lingua
nazionale - il fiorentino letterario trecentesco - lingua estranea, artefatta ed imposta,
seppur bella. Chi ha frequentato la scuola di Stato ben sa quanto sui dialetti
si mantenessero gravi forme di pregiudizio, in quanto ritenuti idiomi inferiori
alla lingua, sia esteticamente che espressivamente; il suo uso, seppur limitato
in qualche scritto, comportava la sottolineatura con lapis rosso e
penalizzazione di mezzo voto. Il ventennio fascista evidenziò ulteriormente il
contrasto fra lingua nazionale e dialetti, fra prosopopea, grondante retorica
di regime, e la cruda schiettezza dei secondi.
Tradurre
la parlata piacentina in scrittura non è facile, e pure la lettura presenta
difficoltà; occorre conoscere i grafemi - segni - che servono a riprodurre i
suoni - fonemi - della lingua; l'uso delle dieresi sulle vocali e l'accento
grave e acuto per declinare l'apertura o la chiusura delle stesse. I poeti
locali che si sono cimentati nella scrittura della parlata piacentina, da
Vincenzo Capra a Valente Faustini, da Egidio Carella a Ferdinando Cogni,
presentano notevoli difformità di scrittura; ma in ognuno v' è un sistema coerente e dirimente che non si contraddice.
La polemica sugli strafalcioni - errori di pronuncia - poco interessano;
interessano dettato, orientamento e sostanza. Se mancano poco servono pronuncia
e scrittura.
Catulu
Végna
vóia a un puéta
tradüs
un puéta c'agh piès,
vurìsal
sáital ind la sò láigua natèl.
Necesèri
'l mumáit, ma l'é trop rèr!
Fenumenèl
difàti,
epür
mè ò pruè e 'g l'ò fàta!
Catullo
Viene
vòglia a un poeta
tradurre
un poeta che gli piace,
volérselo
sentire nella sua lingua natale.
Necessario
il momento, ma è troppo raro!
Fenomenale
infàtti,
eppure
io ò provato e ce l'ò fatta!
[Ferdinando Cogni]