PIRANDELLO DI
LAVIA
di Leonardo Filaseta
Gabriele Lavia |
Al teatro Strehler di Milano è andato in scena dal
27/2 al 12/3 ed ora è in giro per l’Italia I
giganti della montagna di Pirandello
con Gabriele Lavia regista e protagonista. La summa di grande afflato
spirituale e di fratellanza universale è il nucleo dell’ultima opera di
Pirandello con il finale suggerito al figlio Stefano prima di morire. La
compagnia di teatranti guidata da Else, detta la contessa, approda “in un tempo
e luogo indeterminati, tra la favola e la realtà”. Luogo chiamato villa La
Scalogna dove vivono solo il mago Cotrone e i suoi seguaci. La contessa attrice,
che porta in giro la favola del figlio cambiato (rubato alla madre e scambiato)
è in forte tensione col marito conte - che ha sperperato tutto per lei- ed ha
rimorso per l’autore della favola, che innamorato di lei, si è suicidato.
Cotrone dopo aver dato prova di vero mago, facendo sparire o mutare persone e
cose e dopo una danza sfrenata dei suoi chiassosi compagni, fa vedere agli
arrivati come gli Scalognati vivano felici di poco e ognuno abbia un compito:
la visionaria Griscia, il fisarmonicista, il cantastorie… Con calma e pazienza
induce i teatranti, e con più tenero fervore la contessa, a fermarsi nel locale
teatro, pur se in stato di abbandono. Poi li manda tutti a riposare. Nella
seconda parte la scena s’apre con un mucchio di persone con caschi in testa
addormentati, le maschere, che al tocco di qualcuno si svegliano e danzano
frenetiche. L’anziana Griscia, rapita, racconta un sogno: s’incammina all’alba
per una strada solitaria e poi dei soldati le si affiancano e infine ha una
visione miracolosa: la madonna? Atmosfera fiabesca sottolineata dal risveglio
marionettistico e allucinato delle maschere danzanti. Intervengono Cotrone e la
contessa. Lui socraticamente le fa un delicato discorso sugli spiriti, più veri
del vero: “sono come gli alberi, la fiamma, il vento; quello che crediamo vita
è un’illusione, ma l’arte no, l’arte è una realtà: Edipo, Amleto esistono ed
esisteranno sempre. Devi credere come i bambini che inventano giochi, ci
credono e poi li vivono”. Le ripete più volte di recitare con sincerità la
favola del figlio cambiato. Lei, cede interiorizzata, s’infervora e con grave
solennità recita la favola. Commozione incantevole sulla scena e in platea.
Cotrone comunica ai teatranti il loro compito: nella vicina montagna
abitano i giganti delle “forze brute”: bisogna andare loro incontro per
trasformarli con l’energia magica del teatro. Mentre sono tutti uniti,
teatranti e Scalognati, dal cielo arriva fragorosa e terremotante una
trasvolata di cavalcate e di aerei da guerra, travolgenti. Tutti in massa si
trascinano al fondo al grido: abbiamo paura! Cala il sipario. Tutti ammutoliti,
immobilizzati da un vortice emotivo. Ci liberiamo con l’applauso fragoroso di
10 minuti. È la vera
magia. Spettacolo mirabile intriso di fede incrollabile nella funzione
fantasmatica, redentrice del teatro. Teatro necessario, assoluto cui tese
Pirandello per tutta la vita: comunicante la grande poesia. Al primo Pirandello
intriso di raziocinante tormento durante la prima guerra mondiale, il cui
sgomento si riverbera in drammi come I sei personaggi o Enrico IV, subentra un
amabile Pirandello-Socrate, poetico, dell’ultimo decennio di vita. Ora si
incammina in un cristianesimo pacificante. Già nel ’34 in “Non si sa come” l’uomo è definito impotente ma “si trova in un’affermazione
del Trascendente, e quindi di Dio” (S. D’Amico). Nel ’36 l’ultimo dramma ha un
risonante respiro di pace andando incontro ai barbari giganti. Profetico
messaggio all’Europa cristiana. Coglie una diversa immagine di noi umani.
Scorge nel pacifico e misterioso Cotrone qualcosa del nostro mistero che ci
sfugge. Come dice il poeta D. Walcott, “amerai lo straniero che era il tuo
Io…/Rendi il cuore a se stesso, allo straniero che ti ha amato”. Pirandello è
con Cotrone, con i deboli, con gli infelici. È uno di loro, è con loro, piange
con loro.
Due i più grandi e più seguiti spettacoli quest’anno al
Piccolo. Questi I giganti ed Elvira di Jouvet di Servillo. Una comune
impostazione, regista e primo attore identici che dà unità d’interpretazione e
una comune visione del magistero dell’attore: vivere sulla propria pelle il
personaggio, l’altro fino al miracolo della fusione: metafora dell’io sono te e
tu sei me. Fecondità in ambedue del teatro che ci scioglie i nodi, ci avvicina
l’una all’altro di qualsiasi condizione siamo, ci umanizza.
Lungo sarebbe l’elenco degli attori, tutti bravissimi che
partecipano con festa e giocondità come un coro di musici. Ricordiamo almeno la
contessa di Federica Di Martino: dolente e a tratti enigmatica. La compostezza
contemplativa fa di Cotrone un gigante di umanità. Pacato, sicuro, ineffabile
sottotono e sempre più convincente nel placare i furibondi contrasti dei
teatranti e nell’infinita tenerezza verso il dolore della contessa che man mano
viene rabbonita da lui fino a che lei decida di rifulgere ardente e trascinante
nella recita del figlio cambiato: simbolo della donna-madre straziata. Lavia si
annulla in Cotrone, umile e luminoso, accoglie tutti. Aiutato dallo scenografo
Alessandro Camera con il suo archeologico teatro che ricorda la Scala
bombardata e dai costumi di Andrea Viotti festosi e squillanti, la sua regia è
coinvolgente, corale. Dirige con appassionata e amorevole slancio la gioconda
follia degli Scalognati e gli irrequieti teatranti che innerva con la chiassosa
allegria dei nuovi compagni.
Degno allievo di Strehler di cui gli anziani ricordano Re Lear in cui un giovanissimo Lavia
faceva l’irrequieto infelice figlio. È nella stessa linea di incantare
con attori condotti allo stremo e della forte pregnanza simbolica delle scene.
Anche il Nostro è mago d’incantesimi. Comunque ambedue iniziati alla religione
del teatro, martiri dell’evento
perforante, arricchente.