GRECHETTO
di Giacomo A. Graziani
Non separiamo
il ciclo pittorico di Orfeo da Palazzo Sormani.
Stiamo attenti a non tradire il valore
contestuale di architettura e opere d’arte: attenti a non dissolvere con
improvvide separazioni il significato dei luoghi radicati nell’immaginario
collettivo e fondativi di un sentimento di appartenenza.
Ci sono architetture
che ospitano opere d’arte divenute nel tempo consustanziali al contenitore
architettonico di cui sovente costituiscono lo scrigno più prezioso. È il caso
del ciclo pittorico che occupa interamente le pareti della “Sala del Grechetto”
di Palazzo Sormani.
È pur vero che la sua collocazione originaria
era quella di Palazzo Visconti, distrutto dalla guerra. Ma il suo spostamento a
Palazzo Sormani fu voluto dagli stessi proprietari alla fine dell’800 e la sua
collocazione attuale risale agli inizi del ‘900. La
sala fu aperta al pubblico per visite coordinate dalla Segreteria della
Biblioteca fino all’inizio dei lavori preparatori al distacco delle tavole, in
vista della prossima mostra a Palazzo Reale. Questo ambiente prestigioso di
Palazzo Sormani, dedicato periodicamente a una qualificata e partecipata
attività culturale, ospita il ciclo pittorico di Orfeo, i cui autori fiamminghi
sono stati oscurati dalla consuetudine di citare con il nome del Grechetto
l’iniziale errata attribuzione dell’opera. Si tratta di un luogo che ha
acquisito una risonanza meritevole di una migliore visibilità con una nuova e
più adeguata illuminazione, facilmente realizzabile. Inoltre, come suggerisce con specifica
competenza la Orlandi Balzari, la restituzione delle tele a Palazzo Sormani
potrebbe abbinarsi a ricostruzioni multimediali della sala di Palazzo
Visconti-Verri, offrendo una completa rivisitazione storica dell’opera, con un
allestimento scenografico di alto interesse culturale/didattico, realizzato in
una contestualità tra opera e contenitore impossibile altrove.
Si parla
invece di un trasferimento definitivo del ciclo di Orfeo in un imprecisato ambito
museale. Operazione che viene contestata da autorevoli esperti (v. l’articolo
degli storici d’arte Vittoria Orlandi Balzari e Alessandro Morandotti sul
Corriere della Sera del 2 febbraio scorso) per ragioni storiche e per motivi
tecnici che data la fragilità dell’opera suggerivano un restauro in situ.
Corrono infatti proposte che vogliono
preparare il terreno per uno spostamento dell’intera opera in altro luogo, che sembra
non si sappia o non si voglia per ora definire, quasi a delineare un’operazione
poco chiara, una di quelle di cui i cittadini vengono a conoscenza a cose
fatte. Occorrono invece chiarezza e un dibattito aperto, in grado di orientare
il Comune verso una decisione che sia autorevolmente condivisa.
Con questa finalità mi sembra opportuno accennare
più puntualmente ad altro ordine di considerazioni che attengono al significato
del rapporto tra quest’opera e il pubblico, specialmente milanese, che fino ad
oggi l’ha considerata inscindibile dal contenitore architettonico che la
ospita.
In effetti quest’opera fa parte di un immaginario che la identifica in
un luogo preciso e in un particolare contesto storico e architettonico. Si può parlare di contesto in quanto l’opera,
con un rapporto consolidato con i fruitori, è entrata in una memoria collettiva
che assume un significato di appartenenza e quindi è referente di un valore
sociale. Intendo dire che quest’opera trova il suo significato non solo come
oggetto d’arte in sé, ma come elemento che appartiene per la sua collocazione
al vissuto dei milanesi. Essi
fanno riferimento da più di quattro generazioni a un’opera e a un luogo che
unitamente entrano nella dimensione soggettiva del loro mondo quotidiano.
Su questi processi di
appropriazione culturale e di appartenenza psicologica ai luoghi vissuti hanno
lavorato negli anni ’70 del secolo scorso i precursori della nuova “geografia
Umanistica” e dello “Spazio vissuto” Yi-Fu Tuan e Armand Frémont e a proposito
di queste nuove discipline troviamo un interessante passaggio di Maria Mautone
che afferma:
“(…) ciò
avviene perché con i propri segni la collettività caratterizza il proprio
territorio e si radica in esso esaltando il senso di appartenenza che consente
agli uomini di riconoscersi ed identificarsi nei luoghi dove le stratificazioni
sedimentate nel tempo consentono la continuità dell’identità storica.”*
Con lo
spostamento del ciclo di Orfeo, Palazzo Sormani diventerà nell’immaginario
collettivo “il luogo dove si trovavano le tavole del Grechetto”; una
definizione che denuncerà una perdita irreparabile. Una delle tante purtroppo,
che con una alterazione del paesaggio della memoria ci distaccano
progressivamente dal sentimento di appartenenza a un luogo. Ma davvero con una
operazione di restauro e di ricollocazione si vuole togliere a Palazzo Sormani
un ambiente dal fascino irripetibile e isolare le tavole del “Grechetto”
spaesandole in un asettico ambiente museale? Se si tratta di trovare soldi per pagare il
restauro, discutiamone e intanto aiutiamo con i nostri mezzi di comunicazione
la sponsorizzazione per la raccolta di fondi avviata dal Comune. Ma se si danno
per decise soluzioni che snaturano il contesto di un’opera così significativa,
forse i cittadini vorranno dire la loro.
[*M. Mautone: “Il paesaggio tra identità
e territorialità”
Bollettino. Soc.
Geografica Italiana - Serie XII vol. IV - Roma, 1999
Pagg. 331-338.]
FIRMATE LA PETIZIONE
Pagg. 331-338.]
FIRMATE LA PETIZIONE
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