di Ennio Abate
Conobbi Eugenio Grandinetti nell’anno scolastico 1976-’77
all’Istituto Tecnico di Sesto S. Giovanni. Entrambi insegnanti di lettere, in
quei mesi passati insieme colsi tre tratti fondamentali della sua personalità:
la sua provenienza, come me, dal Sud (Calabria); le sue competenze eccezionali
in educazione linguistica; l’essere compagno impegnato in una
CGIL Scuola da poco nata e allargata anche agli “extraparlamentari”. Avemmo
colloqui fruttuosi, ma circoscritti e sommari (mi confidò, tra l’altro, che non
aveva mai fatto a botte in vita sua), perché ogni giorno assillati dai problemi
della disorganizzata sezione staccata di
quell’Istituto a Cinisello. Che dalla sua prima sede - addirittura un ordinario
appartamento al primo piano di un condominio popolare in Via Monte Grappa
riadattato alla meglio e suddiviso in classi-loculi - era stata appena
trasferita in un nuovo edificio a più piani in Via Lincoln, dove si coabitava
con una scuola professionale e un liceo scientifico in un clima di sospetti e
diffidenze. Ogni poco succedevano episodi comici o drammatici, impensabili da
chi avesse in mente la scuola prima del ‘68. Nel frattempo, fuori, per le
strade di Milano e dell’hinterland, scorrevano ancora, di tanto in tanto,
manifestazioni di operai; e, per questo o quel problema, qualche delegazione di
insegnanti o studenti scendeva dalla metropolitana in Piazza Duomo per andare a
protestare davanti al Provveditorato di Piazza Missori. L’anno dopo, il 1978,
Eugenio ottenne il trasferimento a Milano (al Giorgi, mi pare). Non si ruppe il
legame appena iniziato tra noi. Le occasioni d’incontro, però, non erano più
tante né quotidiane. E soprattutto, proprio in quell’anno, il clima sociale e
politico mutò di colpo. Quello che ancora chiamavamo gergalmente il
movimento - un calderone nel quale, dopo l’esplosione
inaspettata del ‘68-’69, malgrado la bomba a Piazza Fontana e la strategia
della tensione, continuavano a ribollire i bisogni e le idee
politiche di quegli anni, orientate qua in senso riformista là in senso rivoluzionario
o reazionario - arrivò sfiancato e quasi da paralitico di fronte allo shock del
rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Chi, come
Eugenio, pensava di «poter modificare l’organizzazione sociale attraverso la
modificazione della scuola» o, come me, scommetteva sulla possibilità di una
rivoluzione socialista/comunista differente dai modelli proposti da PCI e PSI o
da quello stalinista sovietico, fu brutalmente ammutolito e spazzato via dalla
scena politica a causa della militarizzazione del conflitto sociale imposta sia
dai lottarmatisti che dallo Stato e dalla feroce
stretta repressiva che ne seguì.
Di tanto in tanto
prendevo il metrò da Cologno Monzese, dove abito dal ‘64, e andavo da Eugenio,
in Via Meda 14, a Milano. A prendere un caffè e a chiacchierare con lui e
Franca, sua moglie, anche lei insegnante ma di inglese. Per qualche ora i miei
resoconti sulle peripezie scolastiche dei miei due primi figli o sul respiro
sempre più affannoso della mia vita di periferia (ora che non potevo più fare
politica assieme ad altri, essendo appena uscito dal fallimento di Avanguardia
Operaia) s’intrecciavano con le notizie che lui e Franca mi davano sugli amici
frequentati a Milano: i pittori Migneco e Occhipinti; Rosa, la vedova di Birolli;
Franco Loi; Ruth Leiser Fortini, di cui Franca era amica (e seppi anche che la
tesi di laurea di Eugenio sulla poesia di Galeazzo di Tarsia era stata letta
dallo stesso Fortini), Aldo Giobbio, Totò, Giovanna. O di quelli che avevamo in
comune (Gigi Lanza, Lidia Gavinelli, Carlo Oliva, Nuccia Pelazza).
Raccontandoci delle vacanze estive - Eugenio e Franca le trascorrevano di
solito in Inghilterra o a Belsito, che seppi essere il suo paese d’origine - spuntavano anche i ricordi delle nostre infanzie povere o storie bizzarre di
parenti e conoscenti. Qualche volta, al margine delle conversazioni, parlammo
anche delle poesie che scrivevamo. Lo facevamo entrambi da isolati e lontano
dai cenacoli poetici attivi nella Milano d’allora. In primo piano c’era l’esperienza
assorbente dell’insegnamento. Accanto a quella e alla militanza sindacale,
comunque esterna ai partiti e ai “gruppi extraparlamentari”, dai quali si era
tenuto alla larga, Eugenio continuava a coltivare assiduamente le sue passioni
giovanili: scienze naturali e cultura umanistica. Aveva accantonato la poesia,
pur continuando a scrivere versi, come ha ricordato nella Premessa a
«La gabbia della luna» (youcanprint 2015). Oltre a queste visite saltuarie (ero sempre io che andavo
da loro e mai il contrario), ci si vedeva a volte in sempre più rari incontri
di insegnanti ormai ripiegatisi a trattare i “problemi della scuola” nei vecchi
modi corporativi o dilaniati e reticenti nel giudizio sulla vicenda Moro. (Ne
ricordo uno all’Umanitaria; e un altro alla Scuola per il Turismo del 17 maggio
1978 sul caso Granata, una insegnante vicina ad Autonomia
Operaia, che si era rifiutata pubblicamente di condannare il rapimento di
Moro). Per tutti gli anni Ottanta, in quei nostri tentativi occasionali e
improvvisati di riflettere a caldo sulla cronaca convulsa e tragica di quegli
anni, Eugenio era sicuramente poco o niente coinvolto dai discorsi
“rivoluzionari”, che io invece avevo assorbito e messo in pratica nella
militanza in Avanguardia Operaia dal ’68, come ho raccontato. Era distaccato e guardingo sia nel giudicare gli eventi
sia nel dar troppa importanza alle discussioni teoriche sulla “crisi del
marxismo”, della quale io affannosamente leggevo su il
manifesto. E non mostrò molta curiosità verso i nuovi rapporti -
con Giancarlo Majorino, Attilio Mangano, il gruppo milanese della rivista Primo
Maggio e poi con lo stesso Fortini, che avvicinai per la prima
volta, nel 1983, per presentare con me a Cologno, in un clima quasi catacombale
per la repressione in corso del lottarmatismo, il libro Le nude
cose. Lettere dallo “speciale”di Del Giudice, insegnante anche lui
all’Itis di Sesto San Giovanni e finito in carcere “per partecipazione a banda
armata” - che intessevo per orientarmi in una situazione scombussolata. Certo,
era stata messa fuori gioco sia l’ipotesi rivoluzionaria di Avanguardia Operaia
(la mia) sia la sua prospettiva riformistica. Ma era come se Eugenio pensasse e
fosse preso da altro. E cosa poteva
essere quest’altro? Qualcosa di lontano dalla cronaca, dalla
politica e dalla storia da falsa guerra civile (Fortini)
di quegli anni. Era l’attenzione di Eugenio verso la natura. Che in me, con il
trasferimento a Milano da Salerno, s’era invece del tutto rattrappita. O che,
nei miei ricordi giovanili del Sud, si presentava soprattutto come una ferita,
una malattia (Salernitudine). Essa, invece, in Eugenio era amorosa
e dotta allo stesso tempo. Sia - ritengo - grazie ai suoi ritorni costanti a
Belsito e sia per la conoscenza scientifica della botanica e della zoologia,
che a me era mancata. Me n’ero accorto con ammirazione sempre nel 1978, quando
io e la mia moglie d’allora passammo le vacanze estive a Capo Vaticano
assieme ad Eugenio, a Franca e ad altri loro amici. In alcune passeggiate
osservai attentamente Eugenio. Era davvero a suo agio. Era nel suo ambiente.
Capace non solo di dare il nome esatto a quelle “cose”, che riempivano il paesaggio
e che io, un po’ vergognandomene, riuscivo a indicare solo con nomi generici
(‘erbe’, ‘piante’), ma di descrivercene caratteristiche e usi medicinali. E con
la stessa sicurezza conosceva la storia di quei paesi calabresi. O, con pacate
parole, ci faceva percepire la sua vicinanza anche emotiva ai miti
mediterranei, che il mare o il paesaggio circostante gli evocavano. Per Eugenio
il “mondo classico”, che io avevo sfiorato e poco amato nei miei anni di
liceale coatto a Salerno, non era distintivo scolastico da vantare ma
esperienza interiorizzata e viva, di cui senza intoppi “moderni” nutriva la sua
immaginazione di poeta. In più, aggiungo adesso, quei luoghi, e in particolare
quei boschi, gli ricordavano - altra continuità - il legame felice con suo
padre.
Negli ultimi anni,
dedicandosi quasi esclusivamente alla poesia, Eugenio ha recuperato una vocazione in
lui ben radicata. Eppure non posso trascurare che il recupero è avvenuto sotto
il segno di una delusione totale nei confronti della storia di emancipazione
legata ai nomi del comunismo e della sinistra, al cui progetto egli pur aveva
dato negli anni Settanta buona parte delle sue energie. E neppure tacere sul
suo profondo scetticismo verso quei tentativi (miei o di altri) di fare
gruppo, di ricostruire un noi (o un io-noi,
come altrove ho scritto). Non credo di sbagliarmi se dico che li trovasse ormai
sterili e, comunque, poco rispondenti alle sue esigenze e alla sua ben più
radicata visione “naturalistica” della vita. E, pur scrivendo poesie a
carattere civile o ideologico, per dimostrare innanzitutto a se stesso che non
aveva rinunciato alla «visione utopistica di una società di uguali», ritengo
che lo facesse senza più convinzione o, comunque, in modo contraddittorio con
una spinta nichilista profonda al suo «disamorarsi d’essere». Un confronto tra
la scelta della poesia e la scelta di fare gruppo o fare
rivista può parere antipatico. Eppure devo chiedermi e
chiedere: erano o sono tentativi contigui e convergenti? oppure divaricati e
tendenti a contrapporsi? Non ho la risposta. (Vorrei, però, che non mi si
accusasse di rozzo schematismo. Non sostengo, cioè, che poesia=io=solipsismo (individualismo)
=nichilismo. Né che fare rivista (o gruppo) =noi=comunismo=positività. Se non è
meglio l’io solitario e poeta non è meglio neppure il noi comunitario o dei
molti in poesia. Sono, infatti, convinto che solipsismo e nichilismo possono
manifestarsi (ma anche essere evitati) sia dall’io che dal noi; sia scrivendo
poesia e sia costruendo un gruppo o una rivista. Non, però, per una sorta di
automatismo e cioè grazie alla poesia o grazie
al fare gruppo, associazione o partito. E devo ammettere che il
costante ripresentarsi nei gruppi o nelle riviste che dalla fine della
militanza in Avanguardia Operaia ho cercato di fondare e animare (per ben tre
decenni!) di attriti latenti o espliciti, di fughe o abbandoni spesso non chiari,
ha quasi dato più ragione allo scetticismo di Eugenio che alla mia tenace
scommessa. Tanto da arrivare a considerare seriamente l’ipotesi che questi miei
tentativi siano condannati ad un epigonismo senza sbocco o che una cultura
critica, oggi, in un mondo così alla
rovescia rispetto a quello che volevamo costruire, è
impossibile o possa sopravvivere stentatamente ai margini. Eppure non mi sento
di credere (che di fede si tratta) che è nella poesia che
si può salvare il salvabile, e che il salvabile sia
l’utopia. Con Fortini resto all’idea che la poesia sia una promessa
di felicità, ma la promessa non basta.
[Il testo
completo di questo ricordo è disponibile su Poliscritture]