di
Fulvio Papi
Per
una trasmissione televisiva della sua “storia” è ricomparsa la figura di
Benedetto Croce. Dico “ricomparsa” perché del filosofo non se ne parla quasi
più: esistono libri di notevole interesse, ma ormai fanno parte di
quell’archivio della cultura, gradino di cultura degli specialisti, ma non
occasione per una divulgazione più ampia nello stesso ceto colto. In una
trasmissione televisiva è ovvio che si proceda per analisi molto generali che
rischiano di ripetere consolidati luoghi comuni, e quindi forse vale la pena di
tornare sull’argomento soprattutto per ricordare il rapporto che il filosofo ebbe
con il fascismo e con le sue differenze interne, dove era rilevante la distanza
teorica e politica con il suo ex - sodale Giovanni Gentile.
Non
si tratta di mostrare, a distanza di decenni, che l’antifascismo di Croce prese
la forma di una testimonianza oggettiva solo dopo, ma immediatamente dopo, il
discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, quando questi si assunse ogni responsabilità
morale e politica di quello che era stata la pratica politica del fascismo dal
primo incendio dell’Avanti! nel 1919,
all’uccisione di Giacomo Matteotti nell’estate del 1924, quanto di tentare un
profilo politico di Croce che, pur nelle differenze contingenti, mi pare mostri
una sua contrarietà teorica e pratica che potrebbe essere una identificazione
storica che, senza cadere in semplificazioni arbitrarie, può mostrare una
coerenza, che ha il suo posto nella storia italiana e soprattutto nei suoi
effetti diffusi.
Ancora
alla vigilia del celebre discorso di Mussolini, cioè nel settembre del ’24,
Croce scriveva all’ottimo amico milanese, Casati, prossimo alla sua cultura e
alla sua sensibilità morale, che egli si trovava in una equidistanza tra
l’amicizia e l’inimicizia nei confronti del fascismo.
Non
ho nessuna intenzione di evocare risentimenti aggressivi, ma piuttosto di interrogarmi
su quale poteva essere la condizione storica e politica di Croce, per poi
precipitare qualche settimana dopo in una opposizione che aveva al suo centro
la difesa della libertà individuale e collettiva e voleva andare al di là del
criterio tradizionale dei suoi seguaci. Per mancanza di altre prove, è
piuttosto ovvio ritenere che lo sviluppo del potere fascista aveva ormai
varcato quel limite nel quale i conservatori pensavano di poterne usare la
forza contro i socialisti (sugli errori della politica massimalista sarebbe
facilissimo fare un’antologia). Croce ormai prende le distanze dal suo
“machiavellico” opportunismo, dato che il 4 gennaio già scrive a Casati di
abbandonare il Senato. Il precipitare della svolta di Croce è facilmente
visibile solo se si ricorda che il suo rapporto con il regime dopo l’assassinio
Matteotti non è nemmeno all’altezza della protesta di un intellettuale
riservato e “privato” come Clemente Rebora, per come la organizza nella scuola
privata dove insegnava. Ancora nel ’24 Croce sosteneva che il fascismo era una
esperienza storica “di passaggio” che avrebbe consentito, dopo gli eccessi del
“biennio rosso”, di restaurare la forma politica e statuale che, prima della
guerra, era propria dello stile liberal-conservatore, il quale nel parlamento
formava un’intesa di notabili, più che la struttura di un partito politico. Il
che non pare particolarmente sottile, a meno che non si creda nel processo
storico esista una forza ideale invincibile, simile, nell’immanenza a una
provvidenza divina.
Nicola Abbagnano |
Il giudizio che Abbagnano affida ai suoi “Ricordi” del 1990
è molto più severo: “non intendo dubitare del suo successivo (dopo il 3
gennaio) antifascismo, nel quale dovette peraltro entrare qualche dose di
risentimento da “prima donna” contro Gentile che con il suo “Manifesto” era
diventato per il fascismo il filosofo di corte. Per don Benedetto agiva
talvolta una prepotente forma di “guapperia” napoletana, specie nelle faccende
che riguardavano il suo primato in tale “guapperia” partenopea, sia pure dal
tratto spagnolesco e all’insegna di un alto livello culturale, è inscrivibile
allo stesso bisogno di avere una corte”. Occorre lasciare del tutto ad
Abbagnano quello che è suo: si può notare che il giudizio secco e psicologico è
molto più “duro” rispetto a quello ben noto di Gramsci sul “papa laico”, dove
nella parola “papa” c’è il concetto stesso di egemonia.
Non
dimenticherei la censura dell’opera “La storia come pensiero e come azione” del
1938, poi rientrata. Bisogna anche dire che nello sviluppo delle vicende
storiche dopo il crollo del 1943, l’eco della parola “libertà” del “manifesto”
di Croce andava ben oltre, la contingenza più o meno personale del documento
stesso. Tant’è che io trovavo questa parola come dominante nel foglio della
formazione partigiana che seguivo più direttamente con una adolescenziale
emotività.
Quanto
alla posizione personale di Croce, dopo una aggressione nel ’26 nella sua casa
da parte di una banda teppistico-fascista, non subì altre violenze. Nella testa
“magistrale” di Mussolini entrarono in corto circuito gli elementi di
superficie dell’atmosfera culturale del tempo (dai futuristi, ai guerreschi
vociani, a un Nietzsche grossolano da trattoria di paese, alle varie forme di
vitalismo filosofico tedesco e francese) non sfuggiva per niente, da abile
manovratore politico, che quello che contava era ormai una rapida e violenta
fascistizzazione del paese in tutti i suoi organismi e nelle forme rilevanti
della vita pubblica molto più di un lessico che, nelle sue sfumature, aveva
comunque una circolazione molto limitata e in ambienti sociali ristretti. La
vendetta nei confronti degli intellettuali non allineati (i filosofi, per
esempio, del famoso Congresso di Milano sospeso dal rettore fascista) ebbe luogo
nel 1931 con l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime per mantenere la
cattedra universitaria. La più completa fascistizzazione della scuola di ogni
ordine venne poi nel ’37.
A. Labriola |
È
un’ovvietà ripetere, per quanto riguarda il giudizio politico su Croce, che
egli era allineato per posizione sociale, gusto idealistico della cultura, per
stile personale a quel liberalismo conservatore che nel ’22, assieme ai
popolani ispirati dal Vaticano, votò il governo Mussolini come rivalsa del
“biennio rosso”. Tuttavia per capire bene questa vicenda politica è più utile
iniziare, quando l’ottantenne Croce si trovò in una situazione post-bellica che
non aveva (nel quadro politico) da decenni più alcuna somiglianza con il suo
esordio socialista all’ombra della lezione di Labriola, corrispondente con
Engels. Il giovane aveva presto ritrovato la sua appartenenza alla cultura
economica della rendita fondiaria e dello stile etico che la contraddistingueva
anche nei gradi più alti dello spirito. Il marxismo poteva essere un modo intellettuale
per comprendere la storia, non una teoria economica. Il marginalismo economico poneva la teorizzazione della realtà
economica (sono molto lontani i temi del “vitale”) molto più valida del
rapporto marxiano tra tempo, lavoro e valore, che poteva essere solo l’ottica
ideologica del proletariato.
Avevo
detto che cominciavo dalla fine. Ebbene il Croce del secondo dopoguerra ha in
odio particolare i suoi stessi “allievi” che coniugavano la libertà con una
giustizia dal timbro certamente filo-socialista. Era il sogno del Partito
d’Azione. Ma per Croce questo era un inquinamento pragmatico intellettuale: la
libertà è il senso della storia, e quindi la costruzione esistenziale di una
politica che non deve integrarsi con altre pratiche ideologiche, proprio come
Croce giudicava la storia europea. Del resto gli erano intollerabili le stesse
contingenti strategie politiche del partito liberale, come, ad esempio, fu sul
problema della scuola pubblica.
Croce,
che in un tempo ormai lontano, era un po’ diventato un’icona della libertà, e
quindi il simbolo dell’antifascismo, adesso come allora, mostrava una
concezione “metafisica” della politica, un gioco privilegiato e sapiente di
intellettuali che ritenevano per il loro campo, di essere gli interpreti dell’azione
(oltre che del pensiero). La nazionalizzazione delle masse era una riflessione
estranea e irraggiungibile del vecchio Croce.
In
due parole: Croce era sempre Croce, così come il valore etico della libertà
rimaneva la finalità della storia. C’era tutta la concretezza di un Croce,
filosofo idealista della cultura, che rimaneva una identità di valore, e nella
sua identità attraversava tempi diversi senza “valorizzare” l’impegno della
loro contingenza. L’inizio è simile alla fine, la mitologia quanto all’autore,
alla sua storia, al suo grande lavoro, appartengono al tempo di un nostro
desiderio di identità positiva o negativa, che è passata come stiamo passando
noi stessi.