di
Franco Astengo
Non
è vero che l’8 settembre rimanga come un nodo irrisolto nella storia d’Italia:
atti, ruoli, protagonisti, responsabilità sono chiari e restano
incontrovertibili nel delineare l’identità del nostro Paese per una intera fase
storica. Mi permetto quindi di riproporre questo testo nell’idea che si possa
fornire ancora un contributo a delineare ciò che è avvenuto nel momento più
critico nella storia dell’Italia dall’Unità in avanti.
Eventi
grandi, eccezionali, pongono i popoli e le donne e gli uomini che ne fanno
parte davanti alla necessità di scelte drastiche e decisive per l’avvenire
della loro nazione, della loro entità collettiva e per loro stessi.
Si
verificano passaggi storici che quasi “costringono” a prendere coscienza di
verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la cui piena
consapevolezza sembrava riservata a pochi.
Uno
di questi avvenimenti, forse quello davvero decisivo nella storia d’Italia
(almeno per la sua parte più recente) fu rappresentato dal vuoto istituzionale
creatosi con l’armistizio dell’8 settembre 1943.
In
quel contesto emerse la necessità, per i singoli, di compiere scelte cui la
gran parte non aveva mai pensato di dover essere chiamata. In quel drammatico
frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il
sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un
sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali. Lo Stato non era
più in grado di pretendere quei “sacrifici per amore” di cui parla Jean Paul
Sartre nell’intervista rilasciata nel 1969 a Rossana Rossanda, a proposito
della guerra in Vietnam.
In
questo senso Claudio Pavone, nel suo fondamentale “Una guerra civile, saggio
storico sulla moralità della Resistenza” cita opportunamente Hobbes,
riferendolo direttamente all’Italia del 1943: “L’obbligo dei sudditi
verso il sovrano s’intende che dura fino a che dura il potere, per il quale
esso è in grado di proteggerli, e non più a lungo, poiché il diritto che gli
uomini hanno per natura di proteggere se stessi, quando nessun altro può
proteggerli, non può essere abbandonato a nessun patto”.
“Il Leviatano” (pag.216).
La
scomparsa della presenza statale, come si verificò d’improvviso l’8 settembre
1943, poteva essere avvertita con un senso di smarrimento o come un’occasione
di libertà. Però quando le truppe tedesche di occupazione cominciarono a dare
un minimo di formalizzazione alla loro violenza e quando, subito dopo, i
fascisti crearono la Repubblica Sociale, quando cioè nell’Italia occupata il
vuoto istituzionale fu in un qualche modo riempito da un diverso sistema di
autorità, la scelta da compiere divenne più dura e drammatica, perché la
spontanea, umana solidarietà “tra scampati” dei primi giorni non poteva essere
più sufficiente.
La
scelta doveva, infatti, esercitarsi fra una disobbedienza per la quale
apparivano altissimi i prezzi da pagare e le lusinghe della, pur tetra,
“normalizzazione” nazifascista.
Il
primo significato di libertà che assunse la scelta resistenziale fu implicita
nel suo rappresentare un atto di disobbedienza.
Non
si trattò tanto di ribellione a un governo legale, perché su chi detenesse la
legalità non c’erano dubbi, ma di ribellione verso chi disponeva, in quel
momento, della forza per farsi obbedire.
Era,
cioè (come precisò poi, nel 1986, Franco Venturi nel corso di un seminario
tenuto alla Scuola Normale di Pisa) “una rivolta contro il potere dell’uomo
sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve
averla vinta sulla virtù”.
Per
la prima volta nella storia dell’Italia Unita le italiane e gli italiani
vissero, in forme diverse anche rispetto alle realtà territoriali nelle quali
si trovarono a dover vivere e operare, un’esperienza di disobbedienza di massa.
Il
fatto va ricordato come di particolare rilevanza proprio per quella generazione
che, nella scuola, era stata educata a una sorta di “culto dell’obbedienza”.
Un
secondo elemento da analizzare attentamente è rappresentato dal fatto che,
davanti a scelte prima di tutto individuali, si presentò il nesso “necessità- libertà”,
che proprio nella scelta resistenziale assunse, insieme, problematicità e
limpidezza nello stesso tempo. Una scelta da compiere, citando ancora Sartre (“La
repubblica del silenzio”) “nella responsabilità totale e nella solitudine
totale, cercando la rivelazione stessa della nostra libertà”.
La
solitudine, cioè la piena responsabilità individuale della decisione (“ho fatto
di mia spontanea volontà, perciò non dovete piangere” scrive a 19 anni Vito
Salmi, partigiano garibaldino, fucilato a Bardi il 4 Maggio 1944) è come
esaltata e insieme riscattata dalla percezione dell’ineliminabile necessità di
scegliere tra comportamenti che recavano iscritti valori che come ha scritto
Massimo Mila portavano a una “rivelazione a se stessi di una nuova possibilità
di vita”.
Questo
senso della vita che “ricomincia da capo” (come scrisse “Risorgimento Liberale”
il 23 Novembre 1943) sebbene avesse assunto sotto tanti aspetti la veste della
politica, andava ben oltre quel “correre il rischio del politico” che Carl
Schimtt indica quale conseguenza ineluttabile del fatto che “tutti i cittadini
vengono obbligati a prendere posizione nella guerra civile”.
Si
trattò piuttosto, come scrive Hirschman, “della percezione improvvisa (o
dell’illusione”) che posso agire per cambiare in meglio la società e che,
inoltre, posso unirmi ad altre persone della stessa opinione”.
La
politica irruppe così nella vita partigiana, allorquando la “banda” nata da
un’iniziale spinta di rivolta antistituzionale, o almeno di supplenza
all’eclisse delle istituzioni, evolvette rapidamente e in modi originali,
secondo una linea che la portò a diventare, in termini weberiani, da una
semplice “comunità” o “associazione”, vero e proprio “gruppo sociale” retto da
un ordinamento in cui l’agire era orientato in vista di dotarsi di regole
vincolanti ed esemplari.
Il
tramite di quella che, sempre Claudio Pavone, indica come “la via di una nuova
istituzionalizzazione” fu rappresentato dalla presenza dei partiti che, attraverso
il CLN, avevano assunto il ruolo di punto di riferimento, di vera e propria
“guida politica” dell’intero movimento resistenziale.
L’organizzazione
di tipo militare non sarebbe stata da sola sufficiente a tenere unito un
esercito partigiano, tanto variegato e geloso della propria autonomia.
I
legami con i partiti fecero da contrappeso alle spinte autonomistiche e
ribellistiche che pure erano ben presenti, come del resto a quelle
localistiche.
Questi
legami resero più omogenee al loro interno le singole formazioni,
differenziandole dalle altre di diverso colore, ma nello stesso tempo operarono
come fattore di unità perché non solo trasmisero alla base la politica unitaria
del CLN, ma alimentarono la convinzione che fosse l’impegno politico in quanto
tale a costituire il cemento sostanziale tra i partigiani.
La
scelta individuale compiuta al momento del “prendere o lasciare” del momento
dell’invasione tedesca e della subalternità fascista era così maturata nella
prefigurazione di un futuro diverso dove l’anelito alla libertà trovava
sostanza nei principi fondativi di un’appartenenza politica.
Il
radicamento dei partiti nella società italiana del dopoguerra ebbe certo uno
dei suoi presupposti in questa loro presenza resistenziale e si può affermare
ancora adesso, con sicurezza e con orgoglio, che su queste basi fu possibile
poi, nel corso di frangenti quanto mai difficili, scrivere la Costituzione
Repubblicana.
Fu,
però nelle scelte difficili e solitarie compiute all’inizio della lotta di
Resistenza che si realizzò la saldatura tra chi aveva combattuto il fascismo
nel Ventennio e chi era salito in montagna dopo l’8 Settembre: una saldatura
che avrebbe formato una nuova classe dirigente, una “generazione lunga” che
avrebbe, tra fatiche, contraddizioni, conflitti ricostruito una convivenza
civile e una coscienza collettiva: ciascheduno per la propria parte, con le
proprie convinzioni ma nell’idea di fondo che attraversò i resistenti italiani:
non ci si poteva limitare alla disfatta tedesca, bisognava ricostruire prima di
tutto un senso comune. Come scrisse Silvio Trentin “Vincere la guerra per
vincere la pace”.
Si ricorda, infine, a
futura imperitura memoria che il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9
settembre 1943 a Roma. L’indomani della “fellonia” della casa reale e del
governo Badoglio. È il momento più difficile della storia nazionale
unitaria: il territorio italiano, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in
Calabria e quello a Salerno - che avviene lo stesso 9 settembre - è diventato
una delle aree di guerra in cui le truppe anglo-americane e quelle tedesche si
affrontano direttamente. L’annuncio dell’armistizio, il giorno 8, non è stato
preparato in alcun modo e le forze armate italiane si trovano completamente
allo sbando. Il
CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti dell’antifascismo storico,
ognuno con un suo rappresentante. Sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi
(1873-1951), rappresentante di Democrazia del Lavoro antico socialista
riformista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del Partito
Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito Socialista
Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito
d'Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana (Alcide
De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito Liberale
(Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica” della
lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani alla
resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all’Italia il posto che le
compete nel consesso delle libere nazioni».
Insomma
l’Italia fu fatta, in quell’occasione, superando anche i limiti del
Risorgimento (la gramsciana “rivoluzione
mancata”) dai tanto vituperati, in seguito, partiti: fra i quali i grandi
partiti di massa, il cui modello è stato incautamente abbandonato per
abbracciare l’idea dei partiti personali e della governabilità esaustivamente
intesa quale unica cifra dell’agire politico nell’omissione della necessità di
rappresentanza.