IL TROVATORE
di
Gabriele Scaramuzza
È in corso ora alla Scala (e siamo nel febbraio del
2020) la rappresentazione di Il Trovatore, in coproduzione col Festival
di Salisburgo del 2014. In generale posso dire che ho apprezzato questa
edizione: buona mi è parsa la direzione di Luisotti, bravi gli interpreti,
soprattutto Violeta Urmana, classica Azucena ormai; ma anche Liudmyla
Monastyrska, Massimo Cavalletti, Gianluca Buratto hanno dato il loro meglio. Francesco
Meli è ormai una presenza fissa alla Scala, nei ruoli più disparati; la sua è
più una voce da Cavaradossi che non da Manrico; ma si ascolta volentieri
dovunque. Quello che mi ha lasciato perplesso è invece la regia, ci
tornerò. Più in particolare ho gioito che non abbiano trascurato (ci
mancherebbe altro, ma non è raro che succeda) Tu vedrai che amore in terra
all’inizio del quarto atto; non è stata ripetuta come credo si debba, ma almeno
c’è stata. Del resto così faceva anche la Callas, che non ripeteva (purtroppo a
mio avviso: al dettato verdiano ci si deve attenere) neanche l’Addio al
passato.
In quanto segue riprenderò anche notazioni già
presenti nel mio Incontri. Per una filosofia della cultura (Milano,
Mimesis, 2017, pp. 101-108).
*
Ed ora qualche considerazione generale sull’opera.
Nella mia ottica, per il grado del coinvolgimento personale, La Traviata
resta inarrivabile. Ma trovo Il Trovatore più compatto: non ha quei
momenti di cedimento che in Traviata a mio parere sono le cabalette di Alfredo
e di Germont all’inizio e alla fine della prima parte del secondo atto; in
fondo anche l’aria di Alfredo che apre il secondo atto non è granché.
Da tener conto è inoltre che, ancorché Il Trovatore venga indicato come “dramma
in quattro parti” (laddove Luisa Miller,
Rigoletto e La Traviata, assieme ad altre opere, vengono indicate come
“melodramma”), esso resta indubbiamente tra le più melodrammatiche delle opere
verdiane, ma di un melodrammatico che non decade mai a kitsch. È dramma fatto
di lunghi racconti, è anzi un racconto di racconti, che riprendono il passato,
ma per farlo reagire con violenza sul presente; è davvero in gioco quel “passato
carico di adesso” di cui dice Walter Benjamin. La presenza ossessiva di
ricordi lugubri muove l’azione, la condiziona; passato e presente interagiscono
tra loro. Cupe memorie si fanno presentimenti e inquinano il futuro.
Non mancano nel Trovatore motivi grotteschi; ci si ritrovano ben presenti tratti
caricaturali e palesi esagerazioni, spesso denunciate. Si pensi al linguaggio
truculento del Conte, ai raccapriccianti racconti di Azucena, ai toni drastici
di Manrico. È l’opera
più complicata e sfuggente di Verdi, la meno afferrabile, la meno “realistica”;
si svolge in un’atmosfera rarefatta, fuori del tempo. Che sia proprio questo
che la regia - con la mescolanza di epoche, con gli slittamenti di toni che la
caratterizzano, vuol dire?
*
Due parole sulla regia dunque: Ronny
Dietrich nel suo Una notte al museo scrive: “In un continuo mutamento di
prospettiva la musica di Verdi si configura da un lato come osservatrice
neutrale della situazione, per poi calarsi ex abrupto nell’intimità più
recondita dei protagonisti e sondare con estrema precisione le loro emozioni.
Parallelamente assistiamo a una continua dissolvenza incrociata di passato e
presente, secondo una modalità che potremmo definire cinematografica. Il
regista Alvis Hermanis, che ritiene impensabile separare la trama del Trovatore
dal suo contesto storico, ambienta la messa in scena in un museo, un luogo in
cui il passato esiste in un modo particolare e possiede una propria realtà. Ciò
che lo affascina sono soprattutto le persone che vi lavorano come guide
turistiche o assistenti museali”.
E Dietrich continua ricorrendo alle
parole del regista stesso: “È interessante osservarle [le persone in gioco];
quello cha passa loro per la testa si può solo supporre. Non di rado ci si
avvede che condividono il sentire dei dipinti affidati alla loro sorveglianza,
dei personaggi raffigurati, e che quando li descrivono si identificano con loro
o addirittura se ne innamorano. La nostra messa in scena del Trovatore
comincia alla fine di una giornata in un non meglio specificato museo. A
eccezione di Manrico tutti i personaggi della trama sono impiegati del museo
stesso. All’inizio li seguiamo nelle loro attività quotidiane, finché arriva
l’ora di chiusura e sopraggiunge la notte. I piani di realtà cominciano a
confondersi. Sono i quadri a prender vita o i nostri protagonisti a esser
proiettati in sogno nel passato? Per me i dipinti sulla loro superficie recano
ancora la realtà del momento in cui sono stati creati, anche se, come nel caso
dei quadri del ‘nostro’ museo, sono passati ben cinquecento anni. Uno spazio
museale funziona come una macchina del tempo: rende viva la realtà e risveglia
in noi la nostalgia per la storia che scompare. E quanto più Verdi lavora sulla
scala delle emozioni mettendo in scena lo stretto rapporto tra amore e morte,
tanto meno importante diventa la trama: assistiamo a una dissoluzione dello
spazio e del tempo” (i brani appena citati si trovano tutti - tradotti dal
programma di sala del Salzburger Festspiele del 2014 - nell’omologo programma
dell’attuale edizione scaligera: Il Trovatore, Stagione d’Opera
2019/2020, Edizione del Teatro alla Scala, 2019, pp. 96-99).
Un interrogativo resta tuttavia qui
aperto, a mio avviso, e riguarda i quadri scelti: perché proprio quelli tra i
molti che affollano la scena del Rinascimento?
Nel racconto si accumulano fatti
enigmatici, difficilmente comprensibili, e che mai verranno chiariti. Già
l’episodio da cui tutto si origina è denso di stranezze, di superstizioni;
un’aura di non detto, di mistero circonda gli eventi e non si dissipa. È un dramma dove tutto è
portato all’estremo; e l’eccesso com’è noto è un ingrediente fondamentale del
melodramma.
Vediamo l’inizio: una brevissima introduzione orchestrale
prepara il recitativo che apre il dramma. È notte: Il Trovatore è un’“opera nera, notturna (la notte regna quasi
costantemente) e funebre” (Gilles De Van); ed è un’opera di solitudini totali.
Subito Ferrando narra l’arcano e inquietante antefatto: racconta della madre di
Azucena, del malocchio da lei gettato sul figlio del Conte, della sua condanna
(a sfondo razziale e xenofobo, trattandosi di zingare, e straniere) al rogo; e
di Azucena che riceve in eredità la missione di vendicare la madre, rapisce il
bambino e lo brucia; cadendo tuttavia in un raccapricciante e fatale scambio di
persona. C’è però un presentimento del vecchio Conte, che anticipa quel che
verrà (e cioè che suo figlio vive). Soprattutto compare già il rogo: il fuoco è
un tratto dominante dell’opera, subito associato alla figura della
zingara.
Dopo il racconto di Ferrando entra in scena
Leonora che, in Tacea la notte placida
ricorda il nascere del suo amore per Manrico. Il suo linguaggio musicale la
rende diversa dagli altri personaggi, nella cui famiglia non rientra; il
passato certo finisce con l’incombere anche su di lei, ma non le manca qualche
accento liberatorio: è l’unico personaggio a rispondere a un passato cui non ha
partecipato, non resta chiusa in esso. Ma subito mette in gioco il legame tra
amore e morte che segna il suo destino: dell’amore dice: s’io non vivrò per esso, / per esso io morirò; questa alternativa
torna continuamente, anche in Manrico. Leonora è il personaggio più sfuggente,
forse il più enigmatico dell’intero dramma. Vive l’amore, ma ha continui
presentimenti di morte, di annientamento. È disposta anche a morire pur di non
cedere al Conte: Vibra il ferro in questo
core, / Che te amar non vuol, né può.
*
Motivi psicanalitici sono presenti nel testo: “La
mia tesi è che nel Trovatore Verdi
abbia dato espressione al conflitto basilare tra pulsione di vita e pulsione di
morte” (Fabrizio Della Seta). Questo conflitto è presente in pressoché tutti i
personaggi, emblematicamente in Leonora, che ha nette tendenze masochiste.
Le stesse melodie del Trovatore, trascinanti, facilmente memorizzabili, sono costruite
secondo schemi tradizionali (guardano al passato dunque), non disdegnano la
dimensione arcaica della ballata popolare, che a volte mostra uno scollamento
tra parole e musica, che scorrono su binari diversi: l’orrido che è raccontato
e la forma da cantastorie del racconto. C’è “una leggera distanza dell’autore
che aderisce alla storia senza lasciarsene completamente abbindolare” (De Van).
Verdi fa uso di effetti stranianti, sembra anticipare Brecht in questo; non a
caso Luciano Berio fa un remake di Il
Trovatore (in La vera storia, rappresentata
alla Scala nel 1982), in cui accentua la vicinanza a Brecht.
Restando a Berio, anch’egli
aveva scorto nel Trovatore risvolti
psicanalitici. In un suo intervento del 1974 dal titolo Verdi? scrive che, come la morte di Wozzeck, così le morti di taluni
personaggi verdiani “non solo suscitano pietà e commozione: si tratta, anche,
di morti che accusano”. E aggiunge: “Pensate per un momento al finale di Rigoletto e di Traviata (il Trovatore,
come tutti sanno, è una faccenda più oscura e freudiana)”. E certo non è
semplice capire chi e cosa accusino le morti del Trovatore. Fabrizio Della
Seta sottolinea la eccentricità di quest’opera nel mondo verdiano, e la
“difficoltà di coglierne un messaggio, un significato”, che invece è più
agevole cogliere in altre opere quali Rigoletto
e Traviata. E ricorre appunto a temi
psicanalitici, in effetti molto utili per interpretare personaggi e
situazioni.
La conclamata oscurità del testo (comunque tale
fino alla prima scena del secondo atto inclusa, a parere di Della Seta) è da
lasciar valere in quanto tale, così come si manifesta; senza angosciarsi a
scioglierla come se fosse un difetto cui rimediare, o a farla valere come
giudizio negativo. Leggiamo: “l’apparente illogicità del libretto […] è tale
rispetto alla logica”, discorsiva, diurna; “la vita emotiva ne segue una
propria totalmente diversa”, imprevedibile. Riprendendo Francesco Orlando,
Della Seta dichiara che non siamo di fronte a un “banale psicologismo
dell’autore o del personaggio”, bensì a una concezione del drammatico-musicale
“come sistema simbolico strutturato secondo principi formali analoghi a quelli
che governano le manifestazioni dell’inconscio”. Talché Manrico può ben essere
vuoi figlio di Azucena, vuoi fratello del Conte; senza rispettare il principio
di non contraddizione. L’opera è costruita come montaggio di blocchi netti,
contrapposti; che mutano, si contraddicono, ma insieme ignorano la propria
contrapposizione, non la vivono come una mancanza ma con naturalezza.
Dopo Ferrando e Leonora, entrano in scena
pressoché contemporaneamente il Conte di Luna e Manrico. Il Conte non ha ricordi,
vive nel suo presente, soggiogato dalle sue passioni. Ha tratti nettamente
sadici, un linguaggio truce, violento sempre. È dominato da un erotismo cupo,
da un amore esasperatamente geloso ed esclusivo, che muove il suo inestirpabile
proposito di vendetta su Manrico, il rivale amato da Leonora.
A tutta prima non è dramma di ambivalenze
psicologiche Il Trovatore; sembra
anzi piuttosto semplice nel suo susseguirsi di melodie felici, agevolmente
godibili, e di personaggi monolitici. I protagonisti tutti non si tormentano in
dubbi e conflitti dichiarati. Esplosioni veementi e drastiche li
caratterizzano. È opera di passioni nettamente delineate, travolgenti: la
gelosia è vera e soltanto gelosia, l’amore è di slancio e non conosce
sfumature, l’odio è irrimediabile, la vendetta indiscutibile, atroce. È
un’opera estroversa Il Trovatore,
quanto è intimista La Traviata,
composta nello stesso periodo, e rappresentata pochi mesi dopo - e ci si
potranno chiedere le ragioni nella personalità di Verdi di una simile
contemporaneità. Ma va anche letto in controluce Il Trovatore; e qui la psicanalisi, come s’è visto, può fornire
utili strumenti e rivelare un angosciante sottofondo di non detto.
Manrico (l’unico a cantare anche fuori scena) è in
certo modo simile a Leonora nell’accostamento tra amore e morte: Amor, sublime amore, ma se è destino che
cada, aggiunge, solo in ciel precederti /
La morte a me parrà; invoca la morte e si lamenta che sia “tarda nel venir”. Vive il conflitto tra
l’amore per la madre e quello per Leonora, che si intralciano vicendevolmente,
si rincorrono fino all’ultimo. Sintomo della complessità della sua personalità
è anche la strana pietà che lo assale
quando risparmia la vita al Conte - di cui ignora che è suo fratello.
Ultima appare la figura centrale della madre,
Azucena, nel secondo atto. E qui occorre fermarsi un attimo.
*
Stranamente in un contesto quale quello verdiano,
dominato da figure di padri (non meno di quello kafkiano) nel Trovatore non v’è traccia di padri
(tranne il Conte, peraltro defunto, e solo menzionato). Molti padri viceversa
si affollano, talvolta opposti tra loro, nel mondo verdiano. La presenza di una
madre nel Trovatore (o comunque di
colei che ne fa le veci, a tutti gli effetti) è un fatto unico. Mentre figlie,
mogli, amanti, orfane non mancano in tante opere verdiane. La madre di Luisa,
ad es., ben presente in Kabale und Liebe
di Schiller, è espunta (senza neanche sentire l’esigenza di motivarlo) in Luisa Miller, dove assumono grande
rilevanza i due padri in conflitto; in Rigoletto
la madre è un ricordo dolce, ma lontano, e come moglie morta; moglie-madre
intensamente assente è Maria nel Simon
Boccanegra. Non c’è nessuna traccia di madri in Nabucco, Ernani, Macbeth, Traviata. Men che meno in Otello.
Solo nel Falstaff invece Alice è
madre di Nannetta.
Azucena non ha padri né mariti né compagni;
Leonora non ha padre né madre. Manrico ha una madre: Azucena; ma si scoprirà
che non è la sua vera madre; della sua madre carnale non v’è alcuna traccia. Il
dramma è dominato comunque da una figura materna.
Da tener presente è che la morte della madre di
Verdi, avvenuta nel giugno del 1851, deve pur aver lasciato una traccia nella
progettazione, già in atto, del Trovatore.
Ma da non dimenticare è anche la paternità negata a Verdi (come la maternità a
Margherita Barezzi), e il problema contorto, e mai del tutto chiarito, della
maternità di Giuseppina Strepponi, costretta (da Verdi, ma il suo ruolo nella
vicenda è quanto mai imbarazzante e problematico) ad abbandonare i tre figli,
viventi, per legarsi a Verdi.
Azucena dunque: vive di memorie che ancora
la condizionano, drammaticamente si racconta e ricorda: Stride la vampa, Condotta
ell’era in ceppi. Più avanti, catturata, ancora ricorda il suo passato
nella bellissima ballata Giorni poveri
vivea. Un ritorno del rimosso si ha quando come in trance, confondendosi,
si lascia sfuggire di fronte a Manrico la verità che voleva celare (aveva
ucciso il proprio figlio), e che riesplode nel finale allorché la rivela al
Conte di Luna. Da Luca Zoppelli traggo suggerimenti assai pertinenti: Condotta ell’era in ceppi ha un
andamento da racconto di un lontano passato, che però esplode con ben altra
intonazione nel presente del mi vendica.
Qualcosa di analogo - suggerisce acutamente Zoppelli - accade nei racconti dei
sopravvissuti alla Shoah: procedono per un po’ linearmente, come spassionate
ricostruzioni del passato, ma presto l’azione si stacca dal racconto e scoppia
la presenza nell’oggi del terribile passato, incancellabile.
*
Ha qualcosa in comune con Leonora Azucena. Le due
donne assolutizzano i propri ruoli, non concedono alcuno spazio l’una all’altra,
non riconoscono alcun diritto all’esistenza di altri affetti; vivono come
inaccettabili altri amori, inconciliabili col proprio. Si ignorano. Questo è
evidente in più punti, al massimo nell’ultima scena. Qui, l’unica volta in cui
madre e amata sono sulla scena insieme, non si vedono, non si parlano, ognuna
presa dal suo delirio. Incarnano due amori incomunicabili, esclusivi,
intolleranti, gelosi l’uno dell’altro, tra cui Manrico è costretto a muoversi.
Proprio perché in ogni personaggio le passioni si assolutizzano si scontrano
senza rimedio, si combattono ferocemente; non si mediano mai.
Azucena è un personaggio diviso, come Rigoletto,
nel suo duplice ruolo: vive il conflitto tra amore filiale e amore materno; è
una madre che dispensa insieme vita e morte. Soprattutto lei è pesantemente
condizionata dal passato fino alla fine, quasi fosse in gioco un’ereditarietà
di stampo positivistico. È spinta da una sorta di coazione a ripetere: ricalca
insistentemente le orme della propria madre, mai dimentica la sua esortazione.
La madre le impone la missione cui dedica la sua vita: il mi vendica la incalza ossessivamente. Alla fine trionfa persino
sull’amore per il figlio: Ei struggeasi
in pianto… io mi sentia il core dilaniato, infranto; poi il ricordo
dell’orrore del supplizio, il riecheggiare del mi vendica prevale su ogni affetto, ed è tanto più agghiacciante se
in gioco è l’amore per “il figlio mio…”.
Riprendiamo l’opera dall’inizio del quarto atto.
Vediamo innanzitutto il contesto in cui si colloca: il terzo atto si è appena
concluso con Manrico che canta Di quella
pira, rivolgendosi all’amata Leonora. C’è il fuoco innanzitutto,
elemento-base dell’opera: all’origine di tutto sta il rogo della strega, madre
di Azucena, che (come più volte ricordato) vuole vendetta e con questo muove
l’azione e genera la catastrofe.
Era già
figlio prima d’amarti,
continua Manrico; annunciando a Leonora la sua intenzione: Madre infelice corro a salvarti, / o teco almeno corro a morir (la
seconda ipotesi si avvererà presto). Offesa mortale all’amata da parte di
Manrico, che la lascia per andare in soccorso della madre prigioniera. L’amata,
Leonora, infatti subito accusa il colpo: Non
reggo a colpi tanto funesti! / Oh! Quanto meglio sarìa morir! (sarà presto
accontentata anche lei). D’altronde, in una precedente scena speculare, la
madre aveva a sua volta tentato con tutte le sue forze (No, soffrirlo non poss’io.../ Il tuo sangue è sangue mio!..)
di distogliere il figlio dal correre in soccorso dell’amata che stava per
prendere il velo.
All’aprirsi del quarto atto Manrico è nella torre
prigioniero, giunge nei pressi Leonora accompagnata da Ruiz, ma subito vuole
star sola nella notte oscurissima; e
ricorda: D’amor sull’ali rosee.
L’aria esprime insieme ansia e speranza; dà voce alla memoria dell’amore, e
alla speranza che Manrico senta e a sua volta ricordi. Manrico canta dalla
torre, il Miserere è sullo sfondo coi
suoi rintocchi funesti, che riempiono Leonora di cupo terror. Poi l’invocazione di Manrico: Non ti scordar di me! e subito dopo la protesta appassionata,
trascinante, di Leonora. In essa convive lo sgomento per la propria
fine con una memoria struggente, che tinge di speranze il suo oggi.
L’esplosione liberatoria della splendida cabaletta (non di rado a torto tralasciata
nelle rappresentazioni), Tu vedrai che
amore in terra, non è priva anch’essa di presentimenti di morte: O col prezzo di mia vita / La tua vita io
salverò, / O con te per sempre unita / Nella tomba io scenderò.
Il seguito scorre via rapido verso il finale,
d’un’ellitticità vertiginosa: Leonora si offre al Conte di Luna in cambio della
salvezza di Manrico; ma prende (troppo presto) il veleno. Poi la scena si
sposta nell’“orrido carcere” oscuro: Manrico consola Azucena delirante (Riposa madre…, tra i momenti più
toccanti dell’opera). Segue l’arrivo di Leonora e del Conte, gli atroci
sospetti di Manrico quando Leonora gli rivela che è venuta a salvarlo (Ha quest’infame l’amor venduto, e: ti abbomino, ti maledico - senza mezzi
termini), la rivelazione di Leonora e il repentino mutamento di Manrico (insano… ed io quest’angelo osava maledir),
la morte di entrambi, la rivelazione della verità alla fine, straziante:
Manrico era fratello del Conte, non figlio di Azucena (antefatto noto: il
tragico errore compiuto da questa nel vendicarsi). Con le parole Sei vendicata, o madre!, immediatamente seguite
dall’esclamazione del Conte inorridito
(come si legge nel libretto) E vivo ancor!, si conclude l’opera.
Il Trovatore, oltre a essere un dramma
cupo, “è allo stesso tempo una delle opere che meglio incarnano il rigoglio
melodico di Verdi e la gioia rinvigorente che può regalare agli ascoltatori”;
dove il canto si innalza “come una sfida vana contro il destino avverso e
contro la morte” (come scrive De Van).
Stando a quanto sostiene Della Seta, le sue forme
possono esser viste come una ripresa, ma insieme come un congedo dal passato:
“come uno sguardo retrospettivo a un mondo stilistico” (quello di uno “stile
vocale virtuosistico, brillante e assai difficile”) che Verdi aveva “ormai
abbandonato”. Nella Traviata, in Sempre libera degg’io, il virtuosismo
vocale esprime “il desiderio di Violetta di godere fino in fondo il breve
tratto di vita che le resta da percorrere”. Laddove si può ipotizzare che “nel Trovatore Verdi abbia impiegato lo
stesso mezzo stilistico per rappresentare il cupio dissolvi di Leonora, la sua vertiginosa corsa all’abisso”. Ma
con ciò ha messo in scena anche la dissoluzione delle eroine del melodramma
tradizionale. L’intero Trovatore anzi
è percorso da un presentimento di “morte dell’opera”, nelle sue forme note e
nei suoi tradizionali contenuti, come una ripresa e insieme un congedo da un
passato ormai in affanno.