di
Angelo Gaccione
Una estate di alcuni anni fa, mi
trovavo in Calabria; in genere il luogo è piuttosto fresco: per la sua altura,
la posizione quasi ai piedi della Sila e la ricchezza di vegetazione che lo circondava.
Ho usato il verbo all’imperfetto perché negli ultimi decenni la mano criminale
e la stupidità di quel vigliacco che è l’uomo, come lo definisce Dostoevskij in Delitto e
castigo, ha ridotto in cenere buona parte di questa ricchezza e di questo
inestimabile patrimonio. In quella estate ci furono alcune giornate torride: un caldo
africano come non se ne aveva memoria. In una di quelle giornate, riflettendo
su cosa sarebbe potuto accadere se quell’onda maligna e impalpabile… avevo
costruito, ahimè soltanto mentalmente, un racconto dalle tinte forti e direi
spietato. Nulla di fantasioso, per carità, anzi più reale della realtà
stessa. In seguito mi pentii di non averlo messo su carta: forse non ebbi
l’energia necessaria, considerato il caldo e la mia pressione ballerina; forse
mi spaventai io stesso di quella prefigurazione tanto tragica: in fondo era pur
sempre la terra dei miei parenti e dei miei conoscenti. E tuttavia, da allora, la
possibilità che si verifichi un evento estremo (non importa se in un solo
luogo, una città, o un intero continente) che obblighi gli uomini e le donne a
fare i conti con una situazione claustrofobica, blindata, ultimativa,
perentoria, da stato d’assedio, da asfissia, - in una civiltà complessa come la
nostra -, è rimasta vivida nella mia immaginazione di scrittore. Confesso che
registrare le reazioni, i comportamenti, le forme simboliche che i gesti
assumerebbero nel loro divenire mondano, le formule plurime che gli atti
rivelerebbero, davanti alla probabilità di una possibile fine, tutto questo mi
affascina letterariamente.
Quel che sta accadendo in questi giorni con il panico
scatenato dal diffondersi del corona virus e dai morti che sta causando, ha
riacceso quel desiderio. E tuttavia anche questa volta vi rinuncerò. Mi
interessano ora altre questioni, più prosaiche e meno letterarie. La prima è
questa: un semplice virus è in grado di attaccare al cuore qualsiasi tipo di
società e mettere in ginocchio le civiltà più organizzate ed evolute. Una
persistenza temporale della sua diffusione può ridurre in frantumi intere
economie, rendere spettrali le città, distruggere ogni forma di socialità,
rendere ostili e infrequentabili (e mai avremmo osato crederlo) persino luoghi di
culto e ospedali. Il terrore di rimanere privi di provviste alimentari spingerebbe
all’accaparramento di ogni sorta di merci (com’è avvenuto qui a Milano, per
esempio), e in una situazione di alta mortalità gli istinti più belluini,
irrazionali e feroci, scatenerebbero una violenza distruttiva che opporrebbe
individuo a individuo. C’è mancato poco (sono stato testimone oculare) che in
un noto supermercato non avvenisse una rissa furibonda per un paio di
scatolette di tonno: le ultime rimaste su scaffali vuoti. Il motto latino mors
tua vita mea, diverrebbe immediatamente la cifra più evidente della deriva.
Salterebbero buone maniere, solidarietà di classe, principi culturali, istanze
morali. La caccia agli untori la conosciamo dagli scritti sulle pestilenze di
epoche neppure tanto lontane, e per nulla oscure dal punto di vista
scientifico; la diffidenza l’ho verificata di persona entrando semplicemente in
un negozio; il disprezzo verso gli abitanti di Codogno si può leggere sui
cosiddetti Social, o materializzato nei video ironici e offensivi che circolano
sui nostri tablet. La figura del capro espiatorio è sempre in agguato, e in
casi come questi è su di essa che si scarica lo sfogo collettivo, la proiezione
paranoica di tutte le fobie.
La seconda questione è una presa d’atto. La constatazione, cioè,
che non esiste alcuna invulnerabilità e alcun luogo dove il bacillo non possa
giungere e sterminare. Questa presa d’atto sgretola la sicumera, l’illusione di
onnipotenza faustiana, il suo illusorio delirio tecnologico, e rimette con i
piedi per terra la fragilità dell’essere umano. La goccia di sperma che
goccia, com’è definito l’uomo in una sura del Corano, ha la controprova
della sua natura effimera, e come basta un virus per annientarlo, addirittura
in quanto specie.
La terza è che si può rimanere blindati in casa, o in bunker
attrezzati per sfuggire al contagio: ma per quanto tempo, prima di divenire
folli o divorarsi l’uno con l’altro come cannibali?
A ben vedere questo corona virus ci offre molti insegnamenti e
ci obbliga a queste e ad altre più approfondite considerazioni, se vogliamo
prenderne atto. Partiamo dal dispendio di danaro messo in campo per approntare
le necessarie contromisure, dagli sforzi di operatori sanitari, strutture
ospedaliere, controlli militari e via enumerando. Dalle legittime
preoccupazioni di governi e istituzioni per impedire una vera e propria
pandemia, il collasso definitivo delle strutture produttive, la paralisi
dell’intrapresa nel suo complesso, le decisioni autoritarie per far rispettare
divieti, procedure, isolamenti territoriali; dai ricoveri forzati eseguiti da
gruppi armati e militari che ci giungono dalla Cina; dai pattugliamenti, le
necessarie evacuazioni, le restrizioni, i cordoni sanitari. Tutto ciò perché
l’emergenza inesorabilmente lo richiede e i cittadini non possono che adeguarsi.
Si potrebbe accennare di passaggio, e come è stato scritto su queste stesse
pagine, che nessuna mobilitazione è mai avvenuta per mettere al riparo le 100
mila vite che l’amianto si porta via ogni anno in Europa. Tanto meno ci si preoccupa
dei 10 mila morti e più, causati dall’inquinamento ogni anno qui in Italia. Ma
non importa.
Importa però sapere che molti Stati possiedono nei loro arsenali
armi chimiche e batteriologiche in grado di sterminare più persone del corona
virus. Che le bombe nucleari possono produrre l’estinzione dell’intero genere
umano. Che la contaminazione prodotta dai componenti di questi armamenti
riguarderebbe l’ambiente per centinaia e centinaia di anni e che seppellirsi in
un bunker sarebbe vana illusione. Che le fughe radioattive sono un piccolissimo
assaggio di quello che potrebbe avvenire con l’uso delle armi che abbiamo
accumulato. Che la spesa militare è la prima voce del bilancio mondiale, non la
preservazione della salute, la ricerca medica, la salvaguardia dell’ambiente o
la cultura. Se è così, e purtroppo così è, perché i capi di stato e di governo
continuano su questa via sciagurata e criminale? E perché noi cittadini ci
disinteressiamo di una questione così epocale e fondamentale? Terremoti,
fenomeni estremi legati ai cambiamenti climatici, carestie, penuria d’acqua,
epidemie, inondazioni, desertificazioni, ci avvertono di quanto già siamo in
pericolo.
E allora perché non usiamo la stessa mobilitazione che il mondo sta
dimostrando contro il corona virus per prenderci cura delle nostre esistenze,
contrastando i “bacilli artificiali” (armi e ordigni di ogni genere) creati
volontariamente da noi stessi e che se impiegati condurranno il genere umano
all’estinzione? Perché non impieghiamo l’immensa spesa militare per debellare e
contenere minacce così spaventose? A che ci serviranno i bombardieri nucleari,
i sottomarini, le portaerei quando le prossime pandemie penetreranno nelle
nostre città? Potrebbe accadere di non avere nemmeno il tempo di recarsi al
supermercato per accaparrarsi il tonno. Pensiamoci.