LA VIA STRETTA DELLA PACE
di Pierpaolo Calonaci
“[…] e siccome lo stadio di
maggior ricchezza della società conduce a questa sofferenza della maggioranza e
l’economia politica (in generale la società fondata sull’interesse privato)
conduce a questo stadio di maggiore ricchezza, bisogna concludere che l’infelicità
della società è lo scopo dell’economia politica”. K. Marx, Manoscritti
economico-filosofici
Una
volta ai balconi c’erano appese le bandiere della pace. Era comunque, fra luci ed
ombre, un indizio di qualcosa che si desiderava. Poi c’erano le manifestazioni
oceaniche contro la guerra; e coloro che si opposero al servire la patria con
le armi, e in un attimo fecero sì che l’obbedienza non fosse più una virtù. C’era
il maestoso movimento di protesta che confluì a Genova e lì, sotto la violenza
istituzionale, venne reciso. C’era una denuncia coraggiosa contro la chimera dell’arma
e dell’energia atomica, una delle concause della militarizzazione globale della
società. Cosa resta di tutta questa identità popolare? Di tutto quello che
costituiva la mentalità con la quale non accettare un’organizzazione sociale
fondata sull’ingiustizia? C’era innegabilmente un grido popolare davanti alla
mancanza di pace che non era una richiesta (anche se spesso si presentava con
la velleità di un mero diritto) ma un impegno quotidiano. Insomma, ci
s’infervorava parecchio, nelle strade e nei luoghi privati, se ne discuteva,
almeno un po’. Oggi la parola pace, come le parole giustizia sociale o
compromesso capitale-lavoro sono state definitivamente assorbite dalla legge sociale
dell’economia politica che è (non da oggi) un condensato organico di
tecnocrazia amministrativa, di supremazia dell’economia finanziaria su quella
reale (il pareggio di bilancio che cancella lo stato sociale e le conquiste del
mondo del lavoro ne è l’emblema), ponendo l’interesse privato del plutocrate come unico fine da
realizzare, attraverso ogni tipo di guerra.
Non è più la pace un sentire ideale
(come all’inizio ho tratteggiato e che non era banalmente solo assenza di
guerra), la pietra angolare su cui
edificare una società più equa, la via
stretta da attraversare agendo vicini (oggi è anche vietato, figuriamoci!) in
modo costruttivo, facendo della rinuncia all’appropriazione il passaggio verso
l’utopia di una giustizia sociale, capace, altresì, di creare quelle condizioni
dove l’immaginazione e la creatività siano foriere di un presente e futuro
davvero differenti. Fino ad un certo momento storico (la caduta del muro di
Berlino segna questo spartiacque), la pace rimandava appunto a questo desiderio
di società altra. Con l’entrata definitiva nel lessico partitocratico ed
economicista, la pace è stata svilita e deformata da un sistema totalizzante di
necessità geopolitiche affinché, legittimando gli interventi “umanitari”,
l’esportazione della democrazia, le missioni di pace con le armi, venga
trasferita poi sul piano individuale e quotidiano, come la normalità della
negazione di ogni conflitto, di ogni dubbio, di ogni critica. Questa normalità totalizzante
non le permette di instillare nei cuori la tensione a guardare oltre la grigia
quotidianità o di riappropriasi di reali tempi di vita e di spensieratezza
(verso i quali l’articolo di Gaccione, 'Tempo
e vita', (“Odissea” 18 novembre 2021) ne stimava la perdita esistenziale). Quindi
segna un’involuzione, l’instaurarsi di questo nuovo modello culturale e
antropologico con cui si ribalta il significato autentico della Pace,
consegnandola alla schiavitù della rassegnazione. Una sorta di metamorfosi che sta
dentro a ciò che Pasolini denunciava del consumismo (una delle espressioni
dell’economia politica), ben peggiore del fascismo.
Il consumismo, infatti,
creando bisogni artificiali senza fine e al contempo distruggendo i bisogni più
reali riesce con enorme facilità e a costo zero (basta guardare alla coscienza
di classe dei lavoratori) a trasformare anche la pace in una merce per il
profitto della guerra e del mito della produzione “inarrestabile”. Come i
lavoratori sono merce nella legge della domanda e dell’offerta, così anche la
pace. Pasolini, dunque, ammoniva coloro (per
estensione, i pacifisti) che assumono l’abito mentale della disobbedienza senza
essere disobbedienti; un modo per tornare a obbedire senza saperlo[1].
Di fatto ciò significa restare dentro la mentalità individualista borghese dove
i dominati si pensano e pensano secondo le categorie e le rappresentazioni costruite
dai dominanti[2].
L’apparato borghese di produzione che, pur di funzionare e prosperare
(attraverso la ciclicità dell’omologazione e delle sue retoriche “contro”), fagocita
ogni tema rivoluzionario per legittimare la propria funzione dominante[3].
Un esempio palmare di come questo ordine sociale sia capace di sdoppiarsi e produrre
altrettanta separazione e divisione negli atteggiamenti e nei linguaggi, anche
politici, risiede nel costrutto sociologico di Pierre Bourdieu: l’interesse al disinteresse. La pace ha
questo stemma, come ogni merce viene scambiata con questa caratteristica. Non
contiene più quel sentire popolare di ricerca ingenua (di libertà autentica, come
l’etimo richiama) verso forme di relazioni umanizzanti. Il discorso policromo
sulla pace è stato colonizzato da questo sdoppiamento che si muove tra
interessi privati, di partito ed egoistici, cristallizzando di fatto quel
sentire omnicratico nel puerile grido
delle cicale che De Andrè aveva cantato, neutralizzandone così la portata
critica e l’agire culturale, il grido di giustizia, riducendo di fatto l’agire
pacifico ad un agire interessato autoreferenziale.
La Marcia della pace
Perugia-Assisi testimonia questa involuzione che cancella, tra l’altro,
quell’aspetto fisico, popolare, semplice che la pace invece suggellava. Ancora l’interpretazione
della critica pasoliniana all’enorme dipinto di Picasso - la pace - ci aiuta a chiarire cosa essa sia diventata. Polemizzando
contro l’impianto estetico con cui, da una parte presenta l’opera come un
ideale di vita serena (che Pasolini ammira in quanto idillio di pace) dall’altra
ne rifiuta l’ideologia idealistica che conduce Picasso a fare della sua
rappresentazione della pace un allontanamento da quel sentimento popolare che è
la chiave per comprendere l’inferno del reale[4].
Poiché “nel restare dentro l’inferno con
marmorea volontà di capirlo, è da cercare la salvezza […]”. La pace è coscienza del dramma delle contraddizioni laceranti di
una società classista e fallocentrica,
consapevolezza in grado di toccare le cause del dominio; la pace rompe gli
argini dei circoli viziosi dove si produce cultura, scienza e obbedienza (il cosiddetto
sistema formativo della scuola e dell’università), mette sotto accusa
l’ideologia della sicurezza e del nazionalismo (ancora prorompente), rifiuta quella
panoplia di comodità e di accumulazione che la riducono a un mercimonio. È vero
che la serrata e rigorosa critica sociale della filosofia di Simone Weil pose
sotto accusa i pacifisti, poiché temevano la morte, ma altrettanto ne criticava,
penso, quell’atteggiamento sdoppiato (borghese) che evita di esporci in virtù
della sua ambiguità di fondo: con cui da un lato critichiamo le forme e le
strutture delle leggi economiche e dall’altro, più o meno consapevolmente,
collaboriamo con il loro funzionamento. La morte, per la mistica Weil, era
soprattutto quella dell’anima; quando si aliena o viene alienata dal desiderio
estetico, e politico, di Armonia da cui la Pace dovrebbe attingere. Quel
desiderio estetico quale forma poetica che sovverte la tranquillità dell’ordine
sociale e che al contempo fa operare la pars
construens dell’azione pacifica.
Note1. Cfr. G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica,
narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Queste righe e le
seguenti si rifanno abbondantemente a questo poderoso e magistrale lavoro di
ricostruzione critica dell’opera del poeta italiano.2. Cfr. P. Bourdieu3. Cfr. W. Benjamin, L’autore come produttore. 4. Cfr. G. Santato, ibid.
“[…] e siccome lo stadio di
maggior ricchezza della società conduce a questa sofferenza della maggioranza e
l’economia politica (in generale la società fondata sull’interesse privato)
conduce a questo stadio di maggiore ricchezza, bisogna concludere che l’infelicità
della società è lo scopo dell’economia politica”.
Una
volta ai balconi c’erano appese le bandiere della pace. Era comunque, fra luci ed
ombre, un indizio di qualcosa che si desiderava. Poi c’erano le manifestazioni
oceaniche contro la guerra; e coloro che si opposero al servire la patria con
le armi, e in un attimo fecero sì che l’obbedienza non fosse più una virtù. C’era
il maestoso movimento di protesta che confluì a Genova e lì, sotto la violenza
istituzionale, venne reciso. C’era una denuncia coraggiosa contro la chimera dell’arma
e dell’energia atomica, una delle concause della militarizzazione globale della
società. Cosa resta di tutta questa identità popolare? Di tutto quello che
costituiva la mentalità con la quale non accettare un’organizzazione sociale
fondata sull’ingiustizia? C’era innegabilmente un grido popolare davanti alla
mancanza di pace che non era una richiesta (anche se spesso si presentava con
la velleità di un mero diritto) ma un impegno quotidiano. Insomma, ci
s’infervorava parecchio, nelle strade e nei luoghi privati, se ne discuteva,
almeno un po’. Oggi la parola pace, come le parole giustizia sociale o
compromesso capitale-lavoro sono state definitivamente assorbite dalla legge sociale
dell’economia politica che è (non da oggi) un condensato organico di
tecnocrazia amministrativa, di supremazia dell’economia finanziaria su quella
reale (il pareggio di bilancio che cancella lo stato sociale e le conquiste del
mondo del lavoro ne è l’emblema), ponendo l’interesse privato del plutocrate come unico fine da
realizzare, attraverso ogni tipo di guerra.
Non è più la pace un sentire ideale
(come all’inizio ho tratteggiato e che non era banalmente solo assenza di
guerra), la pietra angolare su cui
edificare una società più equa, la via
stretta da attraversare agendo vicini (oggi è anche vietato, figuriamoci!) in
modo costruttivo, facendo della rinuncia all’appropriazione il passaggio verso
l’utopia di una giustizia sociale, capace, altresì, di creare quelle condizioni
dove l’immaginazione e la creatività siano foriere di un presente e futuro
davvero differenti. Fino ad un certo momento storico (la caduta del muro di
Berlino segna questo spartiacque), la pace rimandava appunto a questo desiderio
di società altra. Con l’entrata definitiva nel lessico partitocratico ed
economicista, la pace è stata svilita e deformata da un sistema totalizzante di
necessità geopolitiche affinché, legittimando gli interventi “umanitari”,
l’esportazione della democrazia, le missioni di pace con le armi, venga
trasferita poi sul piano individuale e quotidiano, come la normalità della
negazione di ogni conflitto, di ogni dubbio, di ogni critica. Questa normalità totalizzante
non le permette di instillare nei cuori la tensione a guardare oltre la grigia
quotidianità o di riappropriasi di reali tempi di vita e di spensieratezza
(verso i quali l’articolo di Gaccione, 'Tempo
e vita', (“Odissea” 18 novembre 2021) ne stimava la perdita esistenziale). Quindi
segna un’involuzione, l’instaurarsi di questo nuovo modello culturale e
antropologico con cui si ribalta il significato autentico della Pace,
consegnandola alla schiavitù della rassegnazione. Una sorta di metamorfosi che sta
dentro a ciò che Pasolini denunciava del consumismo (una delle espressioni
dell’economia politica), ben peggiore del fascismo.
Il consumismo, infatti,
creando bisogni artificiali senza fine e al contempo distruggendo i bisogni più
reali riesce con enorme facilità e a costo zero (basta guardare alla coscienza
di classe dei lavoratori) a trasformare anche la pace in una merce per il
profitto della guerra e del mito della produzione “inarrestabile”. Come i
lavoratori sono merce nella legge della domanda e dell’offerta, così anche la
pace. Pasolini, dunque, ammoniva coloro (per
estensione, i pacifisti) che assumono l’abito mentale della disobbedienza senza
essere disobbedienti; un modo per tornare a obbedire senza saperlo[1].
Di fatto ciò significa restare dentro la mentalità individualista borghese dove
i dominati si pensano e pensano secondo le categorie e le rappresentazioni costruite
dai dominanti[2].
L’apparato borghese di produzione che, pur di funzionare e prosperare
(attraverso la ciclicità dell’omologazione e delle sue retoriche “contro”), fagocita
ogni tema rivoluzionario per legittimare la propria funzione dominante[3].
Un esempio palmare di come questo ordine sociale sia capace di sdoppiarsi e produrre
altrettanta separazione e divisione negli atteggiamenti e nei linguaggi, anche
politici, risiede nel costrutto sociologico di Pierre Bourdieu: l’interesse al disinteresse. La pace ha
questo stemma, come ogni merce viene scambiata con questa caratteristica. Non
contiene più quel sentire popolare di ricerca ingenua (di libertà autentica, come
l’etimo richiama) verso forme di relazioni umanizzanti. Il discorso policromo
sulla pace è stato colonizzato da questo sdoppiamento che si muove tra
interessi privati, di partito ed egoistici, cristallizzando di fatto quel
sentire omnicratico nel puerile grido
delle cicale che De Andrè aveva cantato, neutralizzandone così la portata
critica e l’agire culturale, il grido di giustizia, riducendo di fatto l’agire
pacifico ad un agire interessato autoreferenziale.
La Marcia della pace
Perugia-Assisi testimonia questa involuzione che cancella, tra l’altro,
quell’aspetto fisico, popolare, semplice che la pace invece suggellava. Ancora l’interpretazione
della critica pasoliniana all’enorme dipinto di Picasso - la pace - ci aiuta a chiarire cosa essa sia diventata. Polemizzando
contro l’impianto estetico con cui, da una parte presenta l’opera come un
ideale di vita serena (che Pasolini ammira in quanto idillio di pace) dall’altra
ne rifiuta l’ideologia idealistica che conduce Picasso a fare della sua
rappresentazione della pace un allontanamento da quel sentimento popolare che è
la chiave per comprendere l’inferno del reale[4].
Poiché “nel restare dentro l’inferno con
marmorea volontà di capirlo, è da cercare la salvezza […]”. La pace è coscienza del dramma delle contraddizioni laceranti di
una società classista e fallocentrica,
consapevolezza in grado di toccare le cause del dominio; la pace rompe gli
argini dei circoli viziosi dove si produce cultura, scienza e obbedienza (il cosiddetto
sistema formativo della scuola e dell’università), mette sotto accusa
l’ideologia della sicurezza e del nazionalismo (ancora prorompente), rifiuta quella
panoplia di comodità e di accumulazione che la riducono a un mercimonio. È vero
che la serrata e rigorosa critica sociale della filosofia di Simone Weil pose
sotto accusa i pacifisti, poiché temevano la morte, ma altrettanto ne criticava,
penso, quell’atteggiamento sdoppiato (borghese) che evita di esporci in virtù
della sua ambiguità di fondo: con cui da un lato critichiamo le forme e le
strutture delle leggi economiche e dall’altro, più o meno consapevolmente,
collaboriamo con il loro funzionamento. La morte, per la mistica Weil, era
soprattutto quella dell’anima; quando si aliena o viene alienata dal desiderio
estetico, e politico, di Armonia da cui la Pace dovrebbe attingere. Quel
desiderio estetico quale forma poetica che sovverte la tranquillità dell’ordine
sociale e che al contempo fa operare la pars
construens dell’azione pacifica.
3. Cfr. W. Benjamin, L’autore come produttore.