LE INCOGNITE EUROPEE
di Alfonso Gianni
L’Unione europea deve affrontare nei prossimi mesi, oltre
che la recente recrudescenza della pandemia, l’incremento dell’inflazione che,
per quanto ritenuto da molti, transitorio, continua a crescere. Nello stesso
tempo la discussione attorno alla sorte del Patto di stabilità, che dovrebbe
rientrare in funzione dal 1° gennaio 2023, diventa sempre più decisiva per il
futuro dell’Unione. E su questo secondo aspetto molto dipende dalle scelte
concrete che assumerà il nuovo governo tedesco basato sull’alleanza del
“semaforo”. Intanto il 24 novembre la Commissione europea ha avviato il ciclo
del semestre europeo 2022 per il coordinamento delle politiche economiche nell’ambito
dell’Unione. Scorrendo il comunicato emesso lo stesso giorno da parte della
Commissione si ha l’impressione di un tranquillo ottimismo appena increspato da
qualche preoccupazione sull’andamento dell’economia nei prossimi mesi. Il
pacchetto d’autunno del semestre – che comprende l’analisi annuale della
crescita sostenibile, i pareri sui documenti programmatici di bilancio (i Dpb)
dei paesi della zona euro per l’anno a venire, le raccomandazioni strategiche
per la zona euro e la proposta di relazione comune sull’occupazione della
Commissione – si fonda sulle previsioni economiche d’autunno del 2021, “secondo
le quali l’economia europea sta passando dalla ripresa all’espansione, ma si
trova ora ad affrontare alcune nuove turbolenze”. I commenti dei vari esponenti
della Commissione, che lo stesso comunicato riporta, non sono affatto identici,
ma riproducono in sostanza le antiche e note differenziazioni sia nelle
diagnosi che nelle terapie. Assai più serafico è quello di Valdis Dombrovskis,
mentre elementi di maggiore preoccupazione emergono dalle parole di Paolo
Gentiloni, soprattutto per l’impennata inflazionistica.
In effetti gli ultimi dati indicano come
e quanto i venti inflazionistici si siano rinvigoriti. Spiccano in particolare
le notizie che il popolare tabloid Bild ha
riportato qualche giorno fa, sottolineando che l’inflazione in Germania è
salita “ai massimi da 30 anni”. L’andamento dei prezzi ha segnalato un rialzo
tendenziale in novembre pari al 5,2% (contro il 4,5% di ottobre), il che significa
che si è realizzato il più alto incremento dal 1992, quale non si vedeva dai
tempi della riunificazione tedesca. I prezzi alla produzione hanno segnato il
più elevato aumento degli ultimi 50 anni. Il tutto accade in un vuoto di
governo, anche se la coalizione “semaforo” sta facendo di tutto per abbreviarne
la durata. Mentre il dato medio, riferito al mese di novembre dell’anno in
corso, dell’incremento inflazionistico in Europa si attesta al 4,9%, che
secondo Eurostat raggiunge un picco incrementale mai visto da quando esiste
l’euro ed è stata redatta la serie storica. Visti gli elementi di fatto è ben
difficile nascondersi dietro un ottimismo di maniera o addirittura un’illusione
alimentata dal ben noto meccanismo del wishful
thinking. Al riguardo un commentatore spiritoso, nel penultimo numero di Affari&Finanza, stabiliva
un’analogia con l’angosciata
affermazione “No, non può essere lei” di quell’innamorato geloso che cerca di
convincersi che “Non è Francesca” nel famoso brano di Battisti e Mogol dei
nostri anni migliori. È quindi perfettamente comprensibile che la discussione
attorno alla incidenza e soprattutto alla durata del fenomeno inflazionistico
diventi particolarmente accesa e preoccupata.
Fino a qualche
tempo fa un’inflazione da eccesso di moneta in circolazione, come già alcuni
temevano, non si era verificata, sia perché quest’ultima è rimasta in gran
parte prigioniera del circuito finanziario, sia perché la produzione di merci a
basso costo del lavoro da parte dei paesi emergenti o del Sud del mondo ha
prodotto una concorrenza al ribasso che ha costretto i prezzi dei beni prodotti
nei paesi a capitalismo maturo a rimanere contenuti. Ma gli effetti della
pandemia sull’economia reale stanno cambiando le cose sulle stime
dell’inflazione e soprattutto sulla sua evoluzione. Alcuni respingono
nettamente la minaccia, altri, pur non mirando alla introduzione di politiche
restrittive come i “falchi”, ne sottolineano invece le possibili evoluzioni e
conseguenze. Altri ancora agitano lo spauracchio dell’inflazione proprio per
reclamare la fine delle politiche espansive così come per scongiurare aumenti
retributivi e salariali. E’ proprio il caso dei settori più aggressivi delle
classi dominanti tedesche pronti a denunciare come miccia per l’esplosione di
una più alta e duratura spinta inflazionistica, la promessa elettorale della
Spd di portare il salario minimo orario a 12 euro entro la fine del 2022,
rispetto agli attuali 9,6 euro. La Lagarde
insiste sul carattere temporaneo e transitorio del fenomeno inflazionistico. Lo
ha fatto anche di fronte ai dati tedeschi, in una recentissima e ampia
intervista rilasciata al Frankfurter
Allgemeine Zeitung, ove chiama in causa la fine del ribasso dell’Iva decisa
per sei mesi dal governo tedesco come una
tantum per contrastare gli effetti depressivi sull’economia della pandemia,
dicendosi convinta di una riduzione della pressione verso l’alto dei prezzi nel
corso del 2022. Uguale ottimismo, riferendosi al suo paese e all’intero
contesto europeo, ha espresso il ministro francese Bruno Le Maire. D’altro
canto la Lagarde deve motivare le ragioni che hanno portato la Bce, da lei
diretta, a mantenere inalterati i tassi che altri volevano immediatamente
alzare e il ministro delle finanze della Francia non può certo sprofondare nel
pessimismo a fronte della imminente presidenza francese del Consiglio della Ue.
Ma al di là dei
vari atteggiamenti, il rilancio dell’inflazione è un fatto reale. Concorrono a
determinarlo fattori che risiedono tanto dal lato della domanda quanto in
quello dell’offerta. A volte incrociandosi e sovrapponendosi tra loro. Le
catene di approvvigionamento a livello globale si sono inceppate, se non
addirittura interrotte in alcuni casi. La rarefazione delle forniture di alcune
materie prime e di semilavorati strategici, come i semiconduttori; costi di
trasporto elevati e rallentati grazie alle misure di sicurezza anti Covid (le
navi cargo ferme di fronte a Los Angeles forniscono un’immagine potente); le
tensioni geopolitiche sul fronte dell’approvvigionamento energetico e dei mezzi
necessari alla transizione ecologica (da cui non sono estranei la situazione in
Afghanistan e la tensione Usa-Cina riguardo a Taiwan); la drastica diminuzione
della occupazione accompagnata dall’incremento della precarietà dei nuovi e
vecchi posti di lavoro; l’appiattimento
della curva dei tassi di rendimento tra titoli a breve e a lunga durata negli
Usa, e non solo; l’improvvisa frenata della crescita cinese e il disastro,
seppure finora contenuto, ma potenzialmente esplosivo a livello mondiale, di Evergrande, il colosso immobiliare del
Dragone; l’enorme e rapido incremento del debito pubblico a livello mondiale:
tutti questi elementi, qui richiamati un po’ alla rinfusa, determinano le nuove
cause dell’aumento dei prezzi.
La diminuzione
dell’offerta a fronte di una domanda che si sta riprendendo, ovvero un fenomeno
inconsueto quale la scarsità, è uno dei fattori più evidenti dell’aumento dei
prezzi. Se guardiamo agli Usa il costo medio di un’auto nuova ha toccato un
record ogni mese negli ultimi sei mesi. A settembre ha superato la soglia di
45mila dollari per la prima volta nella storia. Non va meglio per le auto
usate, il cui prezzo medio veleggia sopra i 28mila dollari, circa il 40% in più
rispetto a prima della pandemia. Inoltre sta comparendo un nuovo fenomeno, non
solo negli Usa. Diversi cittadini dopo la sospensione forzata del lavoro,
almeno in presenza, rifiutano, se se lo possono permettere, di rientrare
semplicemente nei loro precedenti ruoli, a meno di un incremento retributivo,
il che aumenta il costo del lavoro. Tutto ciò fa dubitare che il fenomeno
dell’inflazione sia di breve durata. Anzi: si affaccia il pericolo della stagflazione,
ovvero di una compresenza di bassa crescita con aumento contemporaneo dei
prezzi. In Europa istituzioni e banche scommettono
che una simile prospettiva non sia possibile data la consistenza degli attuali
tassi di crescita. Ma se si considerasse quest’ultima, più propriamente, come
un rimbalzo dopo i crolli dell’anno scorso, anziché una vera e propria
crescita, quindi non necessariamente destinata a stabilizzarsi, il fantasma
della stagflazione tornerebbe ad aleggiare. In fondo per definire le condizioni
della stagflazione basta che si verifichi la situazione in cui l’inflazione
staziona sopra il 3% e la crescita non supera l’1%.Per queste
ragioni sopra il semestre europeo si addensano non solo le nubi dell’inflazione,
ma anche i problemi che derivano dalla sorte del Patto di stabilità e crescita.
Valdis
Dombrovskis sostiene che il Patto “ha funzionato bene” e che la flessibilità di
cui è già dotato ha retto la tempesta, per cui non servirebbe una modifica
legislativa, ma al massimo “una comunicazione interpretativa”. L’opinione di
Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli affari economici e monetari, è che
il Patto “ha ottenuto risultati ambivalenti” e dunque richiederebbe
aggiustamenti pur senza cambiamento dei Trattati e delle regole fondamentali.
“Sappiamo che il disavanzo medio non tornerà sotto il 3% del Pil nel 2021 e nel
2022 – ha detto Gentiloni –, ma mi sembra che nel breve-medio periodo questa
possa essere una regola che con qualche flessibilità non sia impossibile da
rispettare … Non è possibile confrontare debito e deficit. L’aumento del
disavanzo è probabilmente temporaneo. Lo
stesso non può dirsi per l’incremento del debito”. Poi i due si sono accordati
per una dichiarazione congiunta anodina, cercando di sterilizzare lo scontro
tra falchi e colombe. A quanto ci è dato oggi di sapere, il programma del nuovo
governo tedesco mantiene una certa dose di ambiguità sulla materia. Riconosce
la flessibilità mostrata dal Patto, ma afferma subito dopo che lo sviluppo
futuro delle regole di bilancio deve permettere “la crescita, mantenere la
sostenibilità del debito e provvedere ad investimenti sostenibili e favorevoli
al clima.” Ma la reintroduzione tale e quale del Patto di stabilità nel 2023
creerebbe la tempesta perfetta per congelare la ripresa, favorire il
materializzarsi della stagflazione, fare implodere l’Unione europea. Il tempo
per decidere si sta restringendo e nel prossimo semestre, peraltro segnato
dall’incertezza sull’esito delle elezioni presidenziali francesi, non si potrà
far finta di niente.Le principali
ipotesi di modifica del Patto, tra quelle ammesse al tavolo di partenza, sono
sostanzialmente tre: una revisione dell’entità annua della riduzione del debito
sopra il 60%; una sorta di patto à la
carte, proposto tra gli altri da
Jean-Paul Fitoussi e benvisto dal ministro francese Bruno La Maire, per cui
ogni paese, sulla base di una certificazione di un organismo indipendente (come
il nostro Ufficio parlamentare di bilancio) stabilirebbe un proprio piano di
rientro dall’extradebito, sottoposto all’approvazione della Commissione e del
Consiglio europei; una revisione, considerata la più improbabile, del tetto del
60% del rapporto debito/Pil, vista la sua inadeguatezza, pur senza modificare i
Trattati ma solo i protocolli, con l’unanimità degli Stati, ma saltando la
ratifica dei parlamenti nazionali. Le ipotesi più forti come quella di un
abbattimento o cancellazione del debito, almeno per quanto riguarda la parte
accumulata durante la pandemia, sono naturalmente considerate eretiche e
neppure prese in considerazione, se non in ambienti accademici.Il dibattito
intergovernativo nell’Unione appare arretrato non solo rispetto all’andamento
dell’economia reale, ma persino alle posizioni di personalità non ascrivibili
al credo keynesiano. Per fare solo qualche esempio, l’ex ministro Giovanni Tria
è stato netto nel dire, ora che ha le mani libere, che il fiscal compact era sbagliato fin dall’inizio (ma venne addirittura
messo in Costituzione con la modifica dell’articolo 81). Per Klaus Regling, ex
braccio destro di Theo Waigel il “padre dell’Euro”, e ora direttore del
famigerato Mes, la regola della riduzione dell’extradebito al 60% nel giro di
venti anni (che costringerebbe l’Italia a surplus di bilancio del 6/7% annui) è
del tutto irrealizzabile e insensata. Dietro allo
scontro su cifre e algoritmi, si nasconde il grande tema della conversione
ecologica dell’economia. Ma il flop di Cop26 non lascia grandi speranze che nel
semestre europeo si facciano molti passi in avanti in questa direzione.
Fino a qualche
tempo fa un’inflazione da eccesso di moneta in circolazione, come già alcuni
temevano, non si era verificata, sia perché quest’ultima è rimasta in gran
parte prigioniera del circuito finanziario, sia perché la produzione di merci a
basso costo del lavoro da parte dei paesi emergenti o del Sud del mondo ha
prodotto una concorrenza al ribasso che ha costretto i prezzi dei beni prodotti
nei paesi a capitalismo maturo a rimanere contenuti. Ma gli effetti della
pandemia sull’economia reale stanno cambiando le cose sulle stime
dell’inflazione e soprattutto sulla sua evoluzione. Alcuni respingono
nettamente la minaccia, altri, pur non mirando alla introduzione di politiche
restrittive come i “falchi”, ne sottolineano invece le possibili evoluzioni e
conseguenze. Altri ancora agitano lo spauracchio dell’inflazione proprio per
reclamare la fine delle politiche espansive così come per scongiurare aumenti
retributivi e salariali. E’ proprio il caso dei settori più aggressivi delle
classi dominanti tedesche pronti a denunciare come miccia per l’esplosione di
una più alta e duratura spinta inflazionistica, la promessa elettorale della
Spd di portare il salario minimo orario a 12 euro entro la fine del 2022,
rispetto agli attuali 9,6 euro.