LA GUERRA È UNA MALATTIA, CURIAMOLA
di
Graziano Mantiloni
Non
era ancora scomparso l’incubo del covid, un virus così pestilenziale da mettere
in ginocchio intere popolazioni in ogni parte del mondo che un nuovo virus si è
affacciato ancora più prepotente e pernicioso sulla scena mondiale: la guerra
in Ucraina. Per non parlare dell’accendino, vicino alla miccia in Kosovo e ora
Taiwan, che gli USA-NATO agitano sempre più scriteriatamente. Ma ha poca
importanza quale sia il terreno di scontro. Focolai di guerra esistono ovunque
da anni e anni e questo è solo un nuovo drammatico scenario che ripropone
riflessioni e impegni più urgenti. Il fatto rilevante è che le parti coinvolte
in Ucraina (Russia e NATO), questa volta posseggano le armi atomiche e il
pericolo di una escalation che porti ad usarle è sempre più imminente. Con la
tragica eventualità della distruzione a livelli inimmaginabili della vita sulla
terra. Ciononostante si rileva la tendenza diffusa a minimizzare la portata
degli effetti di questo micidiale strumento di morte e proseguire
nell’imperterrita mentalità arcaica di prendere parte all’una o all’altra
fazione, armare eserciti, fronteggiarsi, devastare città, uccidere cittadini
inermi, strappare un lembo di terra strategico, metterci la bandierina. Un
perverso copione che si ripete nel tempo. Ma ci dobbiamo convincere che oggi il
mondo è cambiato; dal 1945, con l’avvento dell’era atomica è profondamente
cambiato. Ciononostante, un giorno sì e l’altro pure è allarmante sentire capi
di stato in conflitto minacciare l’uso dell’atomica, una drammatica
prospettiva, alla quale l’opinione pubblica, martellata da una propaganda
mediatica, asservita ai peggiori guerrafondai del pianeta, si assuefà come se
fosse ineluttabile. Spesso ritenendo sia il solo percorso obbligato,
dimenticando diplomazia, dialogo, spirito umanitario, spirito di sopravvivenza.
Ma
la guerra è una malattia come sostiene anche il teologo e psicologo tedesco
Eugene Drewermann. Dobbiamo prenderne atto e soprattutto è il momento di
mettere in piedi un apparato “sanitario” tale da curare adeguatamente le
infezioni che provengono dai costruttori di armi, da coloro che pensano,
erroneamente specie di questi tempi, di avere tutto da guadagnare da un
conflitto. Ahimè, dimenticando o ignorando, nell’eventualità di un disastro
atomico, che periranno sì i poveri cristi, ma anche i ricchi guerrafondai si
troveranno sulla stessa tolda della nave.
Non
comprendere, nell’epoca attuale, il dramma di un conflitto atomico è dovuto
proprio al fatto che la guerra è una malattia, un virus pericolosissimo,
subdolo, che si insinua nelle menti deboli, primordiali, poco avvezze al
ragionamento logico e che fa ingrossare metaforicamente la pancia fino
all’inverosimile tanto che gli affetti dal virus “ragionano di pancia” – si
dice – e si nutrono di un viscido egoismo, vessilli inutili, propaganda.
Curare
la mentalità che alimenta i conflitti dovrebbe essere la priorità dell’essere
umano d’oggi. Papa Francesco dal suo canto afferma con vigore: “la guerra è un
sacrilegio, smettiamo di alimentarla”. Per questo, in ogni parte del mondo, la
spinta al cambiamento non può essere calata dall’alto (vediamo bene quanto i
capi delle nazioni si rivelino oggi poco saggi) ma deve nascere dalla
consapevolezza del diritto alla sopravvivenza di ciascuno. Curare significa
mettere la lente sul veicolo di infezione più pericoloso ovvero nel
nazionalismo. Come già indicava Carlo Cassola quaranta anni fa, superare il
nazionalismo, significherebbe acquisire una nuova mentalità, un nuovo senso di
fratellanza. Un nuovo modo di vivere, importante per curare la mentalità che ci
trascina nei conflitti e ci offusca la vista rispetto ad una prospettiva
storica di vita. La via di uscita, quindi, c’è ed è quella di invertire la
rotta, finché siamo sempre in tempo, curarsi dal nazionalismo, uno dei maggiori
portatori del virus della guerra.
In
questa prospettiva non c’è che da auspicare che specie gli intellettuali, di
ogni paese, prendano una netta posizione contro il nazionalismo che ci trascina
nella barbarie della guerra, l’espressione più aspra e acuta della malattia
nella nostra civiltà.