PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
La
piazza.
Il pastore greco aveva coniato
un verbo per indicare un’azione (radunare il gregge) che faceva tutti i giorni:
ἀγείρω: raduno, convoco, metto insieme,
avvalendosi di questa perifrasi: dal generare dall’andare lo scorrere, a
rappresentare, nel grembo, l’addensamento (come nucleo) del flusso
spermatico. Da questo verbo dedusse ἀγορά: adunanza,
assemblea popolare, piazza pubblica, mercato, tribunale,
quindi: discorso. Inoltre, da ἀγορά fu
coniato ἀγορεύω: parlo in pubblico, parlo
nell’assemblea, annuncio, proclamo. L’ἀγορά fu il cuore della città e, fra le tante
funzioni, sorse come luogo di raduno dell’ecclesia, quindi come centro
della vita politica, e divenne anche il luogo della vita economica (mercato),
giudiziaria e religiosa. L’ecclesia, in quanto adunanza/assemblea,
discende da ἐκ-καλέω: mando a chiamare, invito, convoco,
azioni, che sicuramente afferiscono a chi godeva di alcuni diritti politici (anche
perché faceva parte dell’esercito cittadino), che veniva convocato, per mezzo
degli araldi. Forum dei latini,
che, inizialmente, significò: mercato, piazza del mercato, è di
difficile decodifica, anche perché da forum fu dedotto, essenzialmente, forensis:
appartenente al foro, alla piazza pubblica, che si trova nel
foro. Livio utilizzò espressioni come queste: vestito forense (da
portare fuori, in piazza) e fazione forense (il partito
della piazza). Per questo motivo il legame di forum è,
presumibilmente, con foras o con foris, con il significato di: fuori.
Anche oggi, nel mio paese, che è un centro piccolissimo, come poteva essere la
Roma delle origini, con l’espressione: vado fuori, si vuol dire: vado
in piazza. Poi la parola è divenuta, anche e soprattutto, per lo sviluppo
edilizio della piazza. Il foro originario era un luogo largo di
aggregazione sociale, idoneo alle attività commerciali: forum boarium, forum
holitorium (mercato delle erbe), il mercato del pesce (forum
piscarium) ecc. Altri possibili significati potrebbero rimandare ad una
perifrasi di questo tipo: è ciò che faccio dopo che ho finito il mio lavoro.
Infine, potrebbe collegarsi ad un verbo conosciuto dai latini: φορ-έω: porto,
trasporto, mostro, ad indicare il luogo dove si porta quanto
sopravanza della pastorizia e dell’agricoltura. Anche a Roma, inoltre, come
nelle città della Grecia, il foro era il luogo delle assemblee e dei comizi.
Incidentalmente, si ricorda che dalla radice φορ,
da tradurre: quando nasce lo scorrere, furono dedotti: fors (sorte), fortuna,
fortis, fornix (volta) con il significato anche di bordello,
da cui, poi, fornicare, furnus/fornus e, nel mio dialetto,
furis’ (forese), che, nelle masserie, erano gli uomini che
trasportavano, addetti alle più dure fatiche.
La parola comizio
è un deverbale di comitor comitaris: unirsi come compagno, accompagnare,
da cui furono dedotte le aggregazioni sociopolitiche del mondo latino. Da comitor
fu dedotto il deverbale comitatus comitatus: accompagnamento, scorta,
séguito, mentre oggi ha acquisito il significato di raggruppamento
per.
Le aggregazioni
sociali, invece, presero il nome di classis, il cui significato, nel tempo,
è divenuto, ma che, inizialmente, fu collegata a: καλ-έω (per metatesi: kla/κλα):
chiamo, convoco e a: (klesis) κλῆσις: chiamata, invito, convocazione
di cittadini, ripartizione per classi. Infatti, come da κλῆσις fu
dedotta ecclesia ad indicare adunanza, così i latini da καλέω ricavarono classe per
indicare i convocati appartenenti allo stesso anno di nascita (esercito
o scuola), mentre, successivamente, con classe indicarono quelli che
avevano lo stesso censo. Nel linguaggio militare indicò: esercito e
flotta; quindi, da classis fu dedotto classico, ciò che
attiene all’esercito, ma anche cittadino della prima classe, mentre
Gellio parlò di classicus scriptor: di prim’ordine, esemplare.
Gli italici
coniarono piazza, parola dedotta da (plethos) πλῆθος, in dorico: (plathos) πλᾶθος, con i significati: moltitudine, folla,
plebe, anche: assemblea popolare. Da plethos furono
dedotti: pletora e pletorico. I filologi fanno discendere piazza
dal latino platea: strada larga/slargo/piazza, a sua volta
dedotta dall’aggettivo (platùs/plateia) πλατύς/πλατεῖα: largo,
ampio, che, diventando sostantivo, si traduce anche piazza. Personalmente,
propendo per un dedotto dα πλᾶθος, sia
perché il collegamento è più plausibile (la piazza si addice alla moltitudine),
sia perché non solo la cultura latina, ma anche quella italica adottarono parole
di origine dorica: μάτηρ al posto
di μήτηρ, στάμων: stame, trama, ordito, al posto di στήμων, per formare stamen staminis, σᾶμα, al posto
di σῆμα: segno
(del grembo), per dedurre eksamen/examen: esame, nel
senso di ciò che si esamina. Bisogna anche dire che i latini utilizzarono anche
σῆμα per
formulare: eksemplum/ exemplum o semper.
La piazza,
come l’agorà e il foro, è il luogo del popolo, in altri
termini dei prestatori d’opera, perché questo è il significato di demos [dem
si può rendere: dal legare (qui per indicare: faticare per produrre) il rimanere],
di popolo e di plebe. La piazza fu il luogo in cui il prestatore d’opera
era in attesa di una chiamata. In greco per indicare moltitudine, massa,
turba disordinata si adottò anche la parola (ochlos) ὄχλος,
che il Rocci indica come calco di vulgus, a seguito di questa metatesi:
(ϝolchos con oscuramento
dell’omicron) ϝόλχος e della trasformazione dei
suoni.
La massa del popolo è stata spesso contraddistinta per la mutevolezza degli
umori e per le grandi confusioni, che i latini definirono turba: confusione,
schiamazzo, tumulto, folla, calca, parola da
collegare a (tyrbé) τυρβή:
confusione, trambusto, tumulto. Le folle sono state sempre
manipolate, nel corso della storia, dai tanti demagoghi o tribuni di turno.
L’agorà,
il foro, la piazza, oltre alle funzioni sin qui dette, furono il cuore degli
scambi commerciali e delle compravendite. Il pastore e il contadino nelle
epoche primordiali socializzarono, mettendo tante cose in comune sia con lo
scambio di prestazioni di lavoro sia con il baratto di beni.
Con ἀλλάσσω: muto, cambio, prendo in cambio, baratto
e dai dedotti di questo verbo come: ἀνταλλαγή: scambio,
i greci indicarono non solo lo scambio di merci eccedenti, ma, inizialmente,
anche di prestazioni d’opera. Si ricorda che nel mio paese c’è una sorta di
istituto socioeconomico denominato “a ritenn‘ “, di cui ho parlato nel
testo: “Alla ricerca della genesi delle parole “.
I greci
avevano espresso questo modo di socializzare anche con il verbo ἀμείβω: do in cambio, prendo in cambio, da cui l’aggettivo:
ἀμοιβαῖος: scambievole,
mentre i latini coniarono reciproco e da muto mutas dedussero non
solo commutatio, ma soprattutto l’aggettivo mutuo. Molti lavori,
molte realizzazioni furono e sono possibili con il concorso (reciproco/mutuo)
di tanti. Per quanto riguarda la parola
della lingua italiana: baratto, bisogna dire che sicuramente fu ideata con
una delle immagini del divenire del grembo materno: la crescita iniziale del
flusso gravidico per ottenere la formazione dell’essere. Nel mio dialetto si
usa solamente il verbo “varattare (barattare)” ad indicare il dispensare (per
sovrabbondanza), a seguito dell’inseminazione, che rappresenta il mancare.
Inizialmente,
Il concetto di vendita fu mutuato da una metafora del grembo, da ciò che
si deduce dalla primigenia crescita: πιπράθκω/πιπράσκω: vendo, poi: πρᾶσις: vendita. Anche i latini si avvalsero della
stessa immagine per coniare vendo/ venditum: è ciò che si fa dentro
il concetto di accumulo, che per il pastore è il legare. Da
sottolineare che gli italici dedussero da vend: vendico e vendetta,
che rimanda a chi si lega le angherie, a chi non dimentica i torti
subiti.
I greci
dedussero il commercio da πόρος: passaggio
(per cui in italiano usiamo la parola: i pori), coniando emporio,
termine usato anche nella lingua latina. Questo legame di poros con emporio
si spiega, presumibilmente, con le merci di passaggio nei vari porti della
Grecia.
I latini per
indicare la compravendita inventarono il verbo deponente: mercor mercaris,
mercatus sum, mercari: compro, acquisto. Da chi ha
comperato furono dedotti: mercatus, mercato, mentre, inizialmente,
con mercantes si indicarono gli acquirenti. Da mercor fu
dedotta merx mercis, a voler dire che l’accumulo di un bene, oltre
quello che serve o può servire, determina l’alienazione. Da merce derivarono
mercede come ricompensa (in merce), mercenario, gli italici mercimonio
(per i latini: mercatus turpissimus) e mercè, nel senso di: per grazia,
in quanto quel legare che genera il mancare di ciò che acquisto rimanda
ad un parto difficile, risoltosi, miracolosamente, bene.
Voglio ribadire
una considerazione di carattere generale di formazione delle parole: la
desinenza di una parola contribuisce a determinare il significato, per cui nel
mio dialetto: merco/mirco (genera il legare il mancare il
rimanere) indica una cicatrice profonda deturpante, per cui in alcuni casi si
usa il verbo smircare/smercare, nel senso proprio di: sfregiare in
modo permanente. Tanto per restare in questo tema, nel mio dialetto, la
cicatrice viene denominata: cesa, da ricollegare a: caedo/caesum:
taglio, ad indicare quel che resta ad uno che si è tagliato,
mentre altri ricavarono cesoie.
Se c’è chi
vende, c’è anche chi compera. Greci, latini e italici videro nella nascita
della creatura ciò che si compera. Nel mio dialetto ai piccoli si dice: i nati
si comprano (s’accatt’n’). I greci, infatti, si erano avvalsi, e non
solo, di κτάομαι, metafora
della nascita e dell’attività del pastore, traducendo: acquisto, mi
procuro, guadagno, posseggo. Dato per certo che accattare del
dialetto è da collegare a κτάομαι, c’è il
verbo latino capio/captum (prendo/preso), che, verosimilmente, ha
dato luogo a: d’accatto, accattone, cattura, accattivare,
cattività, incattivire. Inoltre, dedussero compero da πρίαμαι attraverso questa perifrasi: è ciò che si
genera per me il far lo scorrere dal rimanere (che è: il nascere).
Tanto ho citato perché, nel mio dialetto, c’è il verbo priarsi, che è un
gioire dal profondo, per quanto di buono accade, in primis: la nascita. I
latini si avvalsero di πρίαμαι,
deducendo: pro-πριius: proprio
(mio personale), proprie: propriamente, in modo appropriato,
da cui furono ricavati: proprietà e proprietario.
I latini assegnarono
a emo il significato di: compero, acquisto da questa
brevissima perifrasi: è ciò che faccio dal rimanere, che può essere la
nascita o anche ciò che mi rimane, nel senso che diventa mio. Poi
da emo si ebbe: red-imo/red-emptum. Infine, gli italici coniarono
compero, che, parimenti, è la creatura che nasce.