L’INDICE
di Ottavio Rossani
Tra fede e ragione: il credo di Cesare Cavalleri.
Cesare Cavalleri è morto il 28 dicembre.
Ma lui aspettava la morte “con serenità” per la grande fede. Aveva scritto al
direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, annunciando la sentenza che
“graziosamente” gli aveva letto il suo medico secondo cui gli restavano 9
settimane di vita per il “grande salto”. Era il 23 novembre scorso. Ma di
settimane ne ha avute solo cinque e mezza. Lucidissimo fino all’ultimo giorno,
in un’intervista concessa a Francesco Ognibene, pubblicata venerdì 23 dicembre 2022 su “Avvenire”, il quotidiano
al quale ha collaborato dalla fondazione nel1968, ha voluto sottolineare che
“tra fede e ragione non c’è dissidio”. Ha spiegato che la fede può esaltare, ma
la ragione completa e rende consapevoli. Lui è stato “membro numerario”
dell’Opus Dei, alla quale ha aderito all’età di 22 anni. Nella sua storia c’è
anche l’incontro con il fondatore, san Josemaría Escrivá. Come giornalista ha
battuto ogni record, facendo il direttore della rivista “Studi Cattolici” per
ben 57 anni. Era nato a Treviglio nel 1936. Laureato in Economia alla Cattolica
di Milano, per alcuni anni aveva fatto l’assistente in statistica. Ma la sua
passione era la letteratura, ma anche l’arte, la moda, i costumi e le
tradizioni delle diverse società. Quello che ha dato valore alla sua cultura
enciclopedica è stato l’impegno con cui ha affrontato il giornalismo e
soprattutto l’editoria. Ha diretto la “Ares” dal 1968: un altro record. Oggi si è svolto il funerale nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Questa breve notizia che ho elaborato non dice tutto
della sua vita, ovviamente. Non dice quanto fosse aperto verso gli altri,
quanto lui amasse le persone, e di quanto fosse disponibile anche ad aiutarle,
sia sul piano spirituale, sia su quello materiale. Si distingueva per la
sua dedizione a comprendere, ma anche per il rigore intellettuale, che però non
era rigidità. Aperto al dialogo, aveva tuttavia valori fondamentali inderogabili
che illuminavano la sua esperienza esistenziale. Aveva anche una
predisposizione all’ascesi. Dico questo perché l’ho conosciuto negli Anni
Sessanta, quando da giovane aveva già deciso la strada da percorrere.
L’incontro con Escrivà gli ha cambiato la prospettiva. Più volte ha detto: “Da
lui ho imparato tutto”.
Questo mio ricordo è la testimonianza di un’amicizia
forte, continua, lunga, culturale prima di ogni altro aggettivo. Ero da poco
arrivato a Milano. Ho frequentato anche io l’università Cattolica. Su questo
terreno comune ci siamo incontrati. Ho collaborato con alcuni articoli alla
rivista. Ma per poco perché sono entrato al Corriere della Sera nel 1970, e non
ho avuto più tempo per collaborare sulle riviste. Ma il rapporto di amicizia è
continuato negli anni, anche se gli incontri non erano frequenti. Ma spesso ci
sentivamo al telefono.
E sono rimasto legato a lui perché non si può
dimenticare chi ti aiuta. Nel 1967 ero un po’ in crisi. Non era facile la città
in quegli anni. Avevo perso un anno universitario per colpa di una
malattia che mi aveva debilitato. La ripresa era stata dura. L’umore aveva
subito qualche colpo. Averlo conosciuto, poter parlare con lui, ascoltare i
suoi ragionamenti, che erano suggerimenti indiretti, mi aveva aiutato, mi aveva
spinto a recuperare fiducia in me stesso. Lui non dava consigli, lui ragionava.
A lui ho fatto leggere i miei primi scritti, i primi racconti, le prime poesie.
E anche dalle sue letture mi sono venute riflessioni importanti. La sua
recensione a un mio libro di poesie, pubblicato nel 2013, Riti di seduzione,
uscita nella sua rubrica “Leggere, rileggere” su “Avvenire” nel 2014, mi
rimane molto cara, non per il suo riconoscimento del valore poetico
dell'opera, ma per la sua capacità di comprensione dei miei temi e di
penetrazione nella mia tenuta emotiva.