LETTERA A UN DETENUTO
di
Zaccaria Gallo
Ho aderito a “chiamata alle parole” promossa da Fondazione Vincenzo
Casillo e Liberi dentro - Eduradio&TV, che invitavano cittadini e cittadine
a scrivere lettere ai detenuti. Un modo per creare connessioni, per mettere in
circolo narrativa di resistenza e far sentire un po’ meno sole le persone in
carcere.
Caro
amico, permettimi di chiamarti amico, anche se non ci conosciamo e,
probabilmente, non ci conosceremo mai. Scriverti è comunque un modo per
incontrarci almeno con le parole e, attraverso esse, con i sentimenti. Già, i
sentimenti. Ne abbiamo di comuni? Io penso proprio di sì. Vedi, tu sei lì
dentro, non so da quanto tempo né per quanto tempo, e non mi importa conoscere
la causa che ti ha condotto nel luogo dove sei. La mancanza di un parente, d’un
figlio o d’un padre, d’una madre, la lontananza da una donna con cui stavi
condividendo parte del tuo viaggio nella vita, i pensieri d’un futuro avvolto
nella nebbia dell’incertezza, il desiderio di poter assaporare la gioia della
libertà, non sono sentimenti che provi soltanto tu, ma sono quei moti
dell’anima che ogni uomo prova nei momenti di solitudine in cui il destino o il
caso lo gettano. Quella società che, oggi, regolata da leggi che ha prodotto
nel tempo per proteggersi da chi le infrange, è una società che vive nel
concetto di una giustizia giusta. Non sempre è così, purtroppo. Perché è la
stessa società in cui i ricchi hanno dei sentimenti di inclusione e appartenenza,
i poveri e chi non ha lavoro o lo ha perduto sono invece “detenuti” in una
gabbia spesso invisibile, ma piena di dolore e afflizione. Ѐ la stessa società che
produce milioni di esseri al mondo “detenuti” in guerre e carestie, esportando
lei stessa armi, depredando lei stessa le loro risorse, e producendo poi la
sofferenza indicibile di tutti quei migranti che, se non muoiono in mare,
durante i loro viaggi della speranza, saranno comunque “detenuti” lontano dalle
loro terre, dai loro cari, dalle carezze di un figlio, di una madre, di una
sposa. Ed è in questa società che, da sempre, i malati o peggio ancora gli
anziani, quelli non autosufficienti, durante le loro malattie, le loro
infermità, sono “detenuti” in ospedali e cliniche, case di riposo, anche loro a
combattere una battaglia spesso solitaria per sopravvivere alla sofferenza e
all’abbandono. Ti scrive questa lettera uno che, qualche mese addietro, il
Covid ha “detenuto” in una terapia intensiva, in totale solitudine con se
stesso, non conoscendo il futuro, quello prossimo e quello più lontano (se ci
sarebbe stato o no), consapevole della terribile angoscia in cui i propri cari che,
fuori, senza notizie, soli anche loro, erano “detenuti” nella incertezza di
quello che li attendeva. Il mio ricovero coincise con il Natale e il Capodanno.
Ecco perché avvicinandosi questi giorni, oggi, mi sento, come ti ho detto
prima, molto vicino ai tuoi sentimenti. Sono i sentimenti che provano in tanti
e che ti accomunano a ognuno di loro. Io ce l’ho fatta. Altri, non sapremo mai
quanti, con grandi sacrifici, rinunce, dolori, ma grande speranza in sé stessi,
ce l’hanno fatta. Sono sicuro! Ce la
farai anche tu. Metticela tutta. Spero che queste povere parole, ti facciano un
po’ di compagnia, in attesa che sorga presto nella tua vita quel bel sole che
ha nome libertà. Un abbraccio e tanti auguri.