OLTRE I MURI DEL PATRIARCATOdi
Claudia Mazzilli La poesia mestiza di
Gloria Anzaldúa. Dalla
lettura di G. Anzaldúa, Terre di confine. La frontera. La nuova mestiza,
nella nuova traduzione di Paola Zaccaria, appassionata studiosa della poeta
chicana. Borderlands
/ La frontera. The new mestiza (un
testo che scavalca le definizioni di genere perché ha sia capitoli in prosa sia
parti in poesia) è ora disponibile al pubblico italiano nella nuova traduzione
di Paola Zaccaria, che già curò la prima traduzione pubblicata nel 2000 per
l’editore Palomar. In questa edizione le parti in inglese sono tradotte in
italiano mentre le parti in spagnolo non sono tradotte, per esporre chi legge
all’esperienza faticosa del passaggio transfrontaliero da una lingua all’altra,
al rischio di non capire e di non essere capiti, alla collisione tra culture
non assimilabili dall’atto della ricodificazione linguistica.E infatti nella postfazione la traduttrice e studiosa Paola
Zaccaria, conscia che “tradurre è un po’ migrare, tradurre è come bruciare
le frontiere” (p. 285), rivendica anche per la traduzione lo stesso
orizzonte critico smurante, de-nazionalizzante e de-coloniale.
Sul confine in Messico severi profili di case sventrate
dalle onde,scogli che si sbriciolano in
mare,onde d’argento marmorizzate di
spumascavano un buco sotto la
recinzione del confine.Sotto il cielo di ferrobambini messicani tirano il
pallone oltre la recinzione,lo rincorrono, entrano negli US./.../Ma la pelle della terra non ha
cuciture.Il mare non può essere recintato,el mar non si ferma ai
confini.Per mostrare all’uomo bianco cosa
pensava della suaarroganzaYemayá ha buttato giù la rete
metallica./.../Yo soy un puente tendidodel mundo gabacho al del mojado,lo pasado me estira pa’ ’trásy lo presente pa’ ’delante./.../(da La patria, Aztlán, pp.
20-21) Gli Aztecas del norte, il gruppo etnico più numeroso
tra gli indios che abitano in territorio statunitense, si considerano originari
di Aztlán, il Sudovest degli Stati Uniti, e si definiscono Chicanos.
L’archeologia conferma che tali insediamenti risalivano almeno a 20.000 anni
fa: la più antica testimonianza di presenza umana (da riferire agli antenati
indiani dei Chicanos), ritrovata in Texas, risale al 35.000 a.C.Gli Aztechi (o Nahuatl, il popolo di Aztlán) lasciarono il
Sudovest degli Stati Uniti solo nel 1168 d.C., guidati dal Dio della Guerra
verso un luogo dove un’aquila (=il padre celeste) appollaiata su un cactus
teneva nel becco un serpente (=la madre, il principio ctonio): qui sorgerà
Città del Messico. Ma questo mito di fondazione fa già comprendere che
nell’America precolombiana il serpente, l’ordine matriarcale, si era già
sottomesso e sacrificato all’aquila, l’ordine patriarcale.Prima che gli Aztechi diventassero una nazione
patriarcalizzata e centralizzata, divisa in classi e amministrata da militari e
burocrati che esigevano tributi e prigionieri dai popoli limitrofi (un processo
culminato tra il 1429 e il 1440), Coatlicue, Signora dalla Gonna di
Serpenti, garantiva l’equilibrio tra i sessi, tra i principi di luce e tenebra,
vita e morte: la società era egualitaria e la discendenza era matrilineare, le
donne possedevano la terra ed erano sacerdotesse. I lamenti rituali della Llorona
(Figlia della Notte), in cui le donne piangono mariti, figli e fratelli che
partono per le “guerre fiorite”, serbano traccia del canto di resistenza della
donna india, messicana e chicana, in una società che ormai glorifica il
guerriero e la guerra; inoltre il culto delle divinità femminili sopravvisse
negli strati più bassi della popolazione: in particolare erano adorate la dea
dell’acqua dolce (Chalchiuhtlicue), la dea del cibo (Chicomecoatl)
e la dea del sale (Huixtocihuatl).“Negare l’angla che è in te / è tanto grave quanto
negare l’india e la nera” (p. 265), confessa Gloria Anzaldúa, che non
rifiuta di usare simboli e culti tra l’isiaco e il dionisiaco, che non sono
meso-americani:
Sono una vite rampicanteche striscia giù dalla lunanon ho guardiani.Per scacciare la bestiascuoto terra, aria, fuoco, acqua nel sistro lunare. divoro le rose di Iside.Ammantata in pelle di pantera,suono gli assordanti cimbali.Adesso, percuoto come fosse
tamburo la carcassa del mondocreo crisi per ricordare il mio
nome. (da: Canción de la diosa de la noche, pp. 267-271)
Con la conquista spagnola, i venticinque milioni di nativi furono
decimati dalle malattie del Vecchio Mondo: vaiolo, morbillo e tifo.I mestizos o Chicanos, i messicani-americani (di sangue
misto indiano e spagnolo) ereditarono l’America centrale e meridionale,
ritornando nel territorio d’origine, Aztlán. Contraendo matrimoni misti con gli
indiani del Nord America crearono un meticciato ancora più composito nei suoi
multiformi incroci. Ma nell’Ottocento il Texas, allora parte del Messico, subì
invasioni sempre più aggressive di angli, che sottrassero terre e commisero
atrocità di ogni tipo ai danni dei tejanos (nativi texani di ascendenza
messicana).Con la guerra scoppiata nel 1846 tra Messico e Stati Uniti, il
Messico perse i territori che oggi costituiscono il Texas, il New Mexico,
l’Arizona, il Colorado e la California, prolungando al presente una storia di
rapina, violenza, odio razziale, fino alla dipendenza completa del Messico dal
mercato statunitense: su ottanta milioni di messicani metà sono disoccupati. Non
c’è scelta: morire di fame o emigrare al nord. “En cada Chicano y mexicano
vive el mito del tesoro territorial perdido”: l’odissea del ritorno alla
mitica Aztlán, una patria che non li vuole, che li rispedisce al di là del Rio
Grande. I messicani lo attraversano anche tre volte al giorno su zattere
gonfiabili o a nuoto, tenendo gli abiti in alto sulla testa.Alla fatica usurante del lavoro della terra, alle sante e alle
antenate (che come lucertole e serpi faranno cadere con la vecchia pelle la rassegnazione,
l’obbedienza e il silenzio...), a figure ibride e mitologiche, ma soprattutto a
questi attraversamenti e respingimenti tra Borderlands, terre di confine
appunto, Gloria dedica testi poetici che hanno il respiro epico delle diaspore
e degli esodi: migrazioni che sono collettive anche quando hanno come
protagonista una sola fra le tante “schiene bagnate” (Sus plumas el viento,
pp. 150-54; Culture, pp. 155-56; Sobre piedras con lagartijos,
pp.157-161; El sonavabitche, pp. 162-168: cioè son of a bitch,
figlio di puttana).Questa è la preistoria e poi la storia che Gloria Anzaldúa ci
racconta a premessa della sua vicenda familiare e personale: il padre mezzadro,
che restituisce alla Rio Farms Incorporated più di quanto guadagni. Le
donne di famiglia sottomesse agli uomini. I tentativi dei familiari di passare
il confine.Per Gloria, invece, la prima forma di sconfinamento sarà la
cultura. Lei stessa fino alle scuole superiori e all’università non si era mai
avvicinata ai bianchi di un palmo, confessa. Alla Pan American University gli
studenti chicani dovevano frequentare due corsi di lingua: per imparare un
inglese senza accento messicano e per correggere lo spagnolo dalle non poche
varianti regionali dello spagnolo chicano e dalle contaminazioni di altre
lingue di frontiera (spagnolo messicano, Tex-Mex o spanglese, pachuco o calò).
Ma, osserva Gloria, avvezza a parlare tutte queste lingue a seconda degli
interlocutori, abituata addirittura a passare da una lingua all’altra nel corso
della stessa frase o della stessa parola, “non si possono addomesticare le
lingue selvatiche, si può solo tagliarle” (p. 76). La sua è una lingua
biforcuta, come quella dell’antica dea in forma di serpente ctonio.Lei e i suoi si definiscono spagnoli quando vogliono identificarsi
come gruppo linguistico, pur essendo “indios per il 70-80 per cento” (p.
89).Si definiscono ispanici o latino-americani quando vogliono
riferirsi al legame culturale con altre popolazioni di lingua spagnola.Si definiscono messicano-americani quando non si sentono né
una cosa né l’altra.Si definiscono mestizos quando affermano sia
l’ascendenza spagnola sia quella india.Chicanos quando rivendicano l’identità
politica di un popolo consapevole, nato e/o cresciuto negli Stati Uniti.Tejanos se si tratta di chicani del
Texas... e così via...
Lei e i suoi, quando sono tra i gringo, soffrono il complesso
dell’inferiorità. Tra i latinos soffrono il complesso dell’inadeguatezza
linguistica. Tra gli indios soffrono il senso di colpa dell’amnesia, della
perdita dell’ascendenza indigena, essendo diventata prevalente l’ascendenza
spagnola.
Parlo più lingue di loro,sono consapevole di tutte le
radici del mio pueblo;loro, la mia gente, non lo sono.Sono le radici viventi, addormentate.(da: Nopalitos, pp. 146-48)
Gloria difende dall’arroganza dei gringo la sua raza
mestiza, destinata a ulteriori ramificazioni e a nuovi nopalitos (le
foglie tenere della pianta del fico d’India), ma non la idealizza. Ecco
un’altra devianza, un altro sconfinamento: il suo essere queer in una cultura
omofoba e machista, in cui i maschi creano le regole, le donne le
trasmettono di madre in figlio/a, e di nuovo gli uomini le ribadiscono con la
violenza dei pugni o la rabbia autodistruttiva della bottiglia, della sniffata,
della siringa, in cui annega il senso dell’inferiorità razziale. Così, ad
esempio, Gloria ci parla di sua nonna:
Una volta la guardai negli occhi
azzurri,le chiesi: hai mai avuto un
orgasmo?Rimase a lungo in silenzio.Infine mi guardò negli occhi
scuri,mi raccontò di come Papagrande le
rovesciava la gonnadella camicia da notte sulla
testae nel buio tirava fuori il suo palo,
il suo bastone,e faceva lo que
hacen todos los hombresmentre lei rimaneva stesa a
pregareche finisse presto. Non le piaceva parlare di quelle
cose.Mujeres no hablan de cosas
cochinas.Neanche alle sue figlie, le mie tías,
piaceva mai parlarne –delle altre donne del padre, dei
loro fratellastri.(da: Immacolata, inviolata: como ella, pp. 143-45)
La sua famiglia, come la maggior parte dei Chicanos, praticava
un cattolicesimo meticcio. La Vergine di Guadalupe ha un nome indio più antico,
Coatlalopeuh, la quale a sua volta discende dalla più antica e su
menzionata divinità creatrice, Coatlicue o “Gonna di Serpente”, madre
delle divinità celesti: testa di teschio umano (o di serpente); collana di
cuori umani, gonna di serpenti e piedi con artigli. Le divinità femminili
furono relegate sottoterra già dagli Aztechi, come in molte altre culture
patriarcalizzate. “Colei che un tempo era completa in sé, che possedeva sia
aspetti superiori (luce) sia sotterranei (oscurità), venne scissa /_..._/ più o meno come è avvenuto per la
dea indiana Kali” (p. 48). I coloni spagnoli completarono l’opera:
trasformarono la dea nella casta vergine Maria a partire dall’apparizione del 9
dicembre 1531 a un povero indio, Juan Diego, e “si spinsero anche oltre;
fecero di tutte le divinità e di tutte le pratiche religiose indigene l’opera
del demonio” (p. 48). Se per alcuni in lingua nahua Coatl significa
“serpente” e lopeuh “colei che ha il dominio sui serpenti”, per altri
l’etimologia risale a xopeuh (“schiacciato con disprezzo”), quindi
“colei che schiacciò il serpente”, dove il serpente è simbolo della religione precolombiana,
da reprimere. “Poiché Coatlalopeuh era omofono allo spagnolo Guadalupe,
gli spagnoli la identificarono con la vergine nera, Guadalupe, patrona
della Spagna centro-occidentale” (p. 50), con un’assimilazione definitiva
tra la dea india e la vergine Maria sancita dalla Chiesa Cattolica Romana nel
1660: si consolida così l’icona più identificativa del mondo chicano-mexicano
a livello culturale, religioso e politico (la vergine di Guadalupe diventerà il
simbolo dei contadini in sciopero; Emilio Zapata e Miguel Hidalgo portarono la
sua immagine come vessillo di libertà del pueblo mexicano). “La religione cattolica, come altre religioni
istituzionalizzate, impoverisce la vita, la bellezza, il piacere. Le religioni
cattolica e protestante incoraggiano la scissione tra il corpo e lo spirito e
ignorano del tutto l’anima; ci incoraggiano a uccidere parti di noi stessi. Ci
viene insegnato che il corpo è un animale ignorante; l’intelligenza risiede
solo nella testa. Ma il corpo è intelligente. Non distingue tra stimoli esterni
e stimoli provenienti dall’immaginazione. Reagisce in maniera ugualmente
viscerale agli eventi immaginari e a quelli «reali». Così sono cresciuta
nell’interfaccia tra questi due mondi /_..._/. La faculdad è la capacità di
vedere nei fenomeni superficiali il senso di realtà più profonde /_..._/. Coloro che sono allontanati
dalla tribù in quanto diversi è probabile che diventino più sensitivi /_..._/.
Coloro
che più subiscono attacchi la possiedono in forma più acuta – le donne, gli
omosessuali di tutte le razze, le persone dalla pelle scura, i rinnegati, i
perseguitati, gli emarginati, gli stranieri” (pp. 60-61).
Ecco, allora, lo sconfinamento nell’immaginazione, la capacità
di visione, come quella dei Nahua attraverso i loro specchi di ossidiana
(quello che Gloria chiama lo stato Coatlicue), il recupero dell’unità
perduta oltre le logiche binarie e i dualismi in conflitto. Quella di Gloria
Anzaldúa è una poesia della liminalità, in un crogiuolo di suggestioni in cui
convivono più generi sessuali (maschile, femminile, queer), più generi
letterari (prosa e verso, poesia epica e lirica, saggio, memoire,
biografia), più lingue, più culture, nelle variegate e multiple simbologie
della new mestiza (nuova meticcia) o nepantlera (nepantla
è una parola nahuatl che significa in mezzo) e della lesbica (o patlache,
nell’antica lingua dei Nahua), sorella e amante di ogni donna di qualsiasi
razza, incarnazione perfetta dello hieros gamos, due in un corpo solo.
“E qualcuno dentro di me prende la situazione
nelle nostre mani /_..._/. Mie.
Nostre. Non dell’uomo bianco eterosessuale o dell’uomo di colore o dello Stato o
della cultura o della religione o dei genitori – solo nostro, mio. E
improvvisamente sento che tutto corre verso un centro, un nucleo. Tutti i pezzi
perduti di me arrivano volando dai deserti e dalle montagne e dalle valli,
magnetizzati verso questo centro. Completa. Qualcosa pulsa nel
mio corpo, una cosa sottile e luminosa che cresce ogni giorno. La sua presenza
non mi lascia mai. Non sono mai sola. Quel che resta: la mia vigilanza, i miei
mille occhi di serpe che non si addormentano mai, lampeggiano nella notte, per
sempre aperti. E non ho paura” (p. 75).
Essere mestiza significa non solo essere una miscela di
popoli, un mix di cromosomi e culture in continua interpolazione, capace di
scardinare porte e abbattere muri, ma significa anche e soprattutto essere
mezza e mezza, né puta né virgen, una creatura che non è né
aquila né serpente e nel contempo attinge sia al maschile sia al femminile,
recuperando un’unità originaria proprio nel suo essere queer.Questo non è più il tempo di odiare la cultura suprematista
bianca. Se queste genti sono ormai sopravvissute a faide anglo-messicane,
linciaggi, incendi e stupri, le parti bianche, le parti nere, le parti indie,
le parti sane e quelle patologiche, le parti queer e quelle omofobe sono ormai
troppo intrecciate e incrociate e invitano a nuove resistenze de-coloniali e ad
alleanze ancora tutte da sperimentare.
Note
Gloria
Anzaldúa, Terre di confine. La frontera, a cura di Paola Zaccaria,
Palomar 2000.Gloria Anzaldúa, Terre di confine. La frontera.
La nuova mestiza, trad. e postfazione di Paola Zaccaria, Black Coffee 2022.https://www.edizioniblackcoffee.it/libri/terre-di-confine-la-frontera/Diversi
saggi di Paola Zaccaria sono consultabili all’indirizzo:https://uniba-it.academia.edu/PaolaZaccaria
Sul confine in Messico