TACCUINI
di Angelo Gaccione
Piazza
Sant’Alessandro
È
impressionante la quantità di chiese concentrate in un perimetro così ristretto
a partire da Piazza Missori fino al Duomo. Milano non è Roma, ma quanto a
edifici religiosi non si scherza neanche qui. E quanti gli ordini religiosi! Se
persino i Carmelitani della chiesa di San Giovanni in Conca se ne lamentavano,
tanto da opporsi alla costruzione di Sant’Alessandro, vuol dire che erano
davvero troppe. La protesta un esito lo ottenne: riuscì ad impedire che la
facciata della chiesa seicentesca guardasse sull’attuale Piazza Missori dove
c’era quella dei Carmelitani. L’imponenza dell’edificio in effetti contrasta
con la piccola e stretta Piazza Sant’Alessandro e ha poco respiro.
Il portale di Palazzo Trivulzio
Il bel
palazzo del marchese Giorgio Trivulzio gli toglie spazio, e per poterlo
cogliere nel suo insieme bisogna arretrare di un bel po’. È stretta la via
Zebedia, è stretta la piazza e sono strette le vie Lupetta e Della Palla. Ma il
palazzo Trivulzio non è venuto dopo, c’era di già, era dei Corio-Figliodoni-Visconti dicono le cronache, sono stati i Trivulzio ad
arrivare dopo. Più tardi ancora (nel 1808), vi nascerà la celebre contessina
Cristina che tanto si adoperò per la causa rivoluzionaria con i patrioti delle
Cinque Giornate. Ma il palazzo può vantare di essere stata la prima sede della
Biblioteca Trivulziana; qui, infatti, le diede vita Alessandro Teodoro
Trivulzio. Se fosse interamente pedonalizzata, la piazza acquisterebbe un
fascino in più e la chiesa di Sant’Alessandro sarebbe al riparo completo dal
rumore del traffico che su via Torino da un lato, e sulle quattro diramazioni
della piazza Missori dall’altro, è sempre molto sostenuto. Una piazzuola
silenziosa è stata creata nella rientranza di via Lupetta, subito dopo la
facciata barocca di quella che un tempo era la sede delle scuole dei Barnabiti
e ora ospita una sede dell’Università degli Studi. Sul fronte opposto, quello
che si affaccia su piazza Missori, l’edificio religioso ha mantenuto il
carattere sobrio proprio della concezione controriformistica. Mattoni rossi a
facciavista, rustica e priva di qualsiasi decorazione.
Murale con i volti dei sindaci
Ho sostato in questo slargo, attratto dai giganteschi e colorati ritratti che
vi sono stati dipinti. Si tratta dei volti di cinque sindaci di Milano del
dopoguerra ricordati con questa scritta: “La coscienza ribelle di ognuno di
loro ha saputo dire di no alla brutalità, agli orrori della guerra con tutte le
sue conseguenze tragiche, nefaste”. Un’altra scritta li definisce “patrioti
della storia di Milano e della sua rinascita (…) tra antifascismo Resistenza e
avvento della democrazia municipale repubblicana”. In effetti antifascisti lo
sono stati, e alcuni di loro hanno partecipato alla Resistenza, come il
“sindaco della Liberazione” Antonio Greppi, sindaco dal 1945 al 1951 e a cui la
milizia fascista aveva ammazzato il figlio Mario il 23 agosto 1944, in via San Michele del Carso. Virginio
Ferrari, il “dottore dei poveri”, titolo che si era guadagnato per la sua umanità, sindaco dal 1951 al 1961,
aveva subìto arresti e confino. Gino Cassinis, “sindaco Rettore”, partigiano
anch’egli e notevole studioso e scienziato; era stato Rettore del Politecnico e
sindaco lo fu dal 1961 al 1964. Pietro Bucalossi, sindaco dal 1964 al 1967, era
stato Membro del Partito d’Azione e durante la Resistenza aveva fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e del Corpo Volontari della libertà (CVL). Il 26 luglio 1943 aveva firmato con Antonio Banfi, Federico Brambilla e altri il manifesto che
chiedeva l’immediata abolizione delle leggi razziali. Da giovane, brillante
medico, era stato costretto per motivi politici a
lasciare la il posto di assistente di clinica Chirurgica all’Università di
Firenze. Aldo Aniasi, sindaco dal 1967 al 1976, comandante partigiano con il
nome di battaglia di “Iso”, è stato l’ultimo dei grandi sindaci della città. Di
quanti sindaci posteriori a questi si può dire, come è stato detto di Virginio
Ferrari: “sindaco galantuomo”? Il murale riporta una frase dello
scrittore cileno Luis Sepúlveda che è un omaggio a coloro che resistono: “Ammiro
chi resiste, chi ha fatto del verbo resistere carne, sudore, sangue, e ha
dimostrato senza grandi gesti, che è possibile vivere, e vivere in piedi, anche
nei momenti peggiori”.
Murale con i volti dei sindaci |