I CORTILI DI BISCEGLIE
di
Zaccaria Gallo
Zaccaria Gallo
Qualche volta, tutto può nascere
dalle nuvole, quelle belle, gonfie, che sembrano inseguirsi nei cieli lavati
dal primo vento d’autunno o di primavera. Magari, sono loro, sì le nuvole, che
inducono a guardare, con occhi diversi, quello che ogni giorno incontriamo e
guardiamo senza vedere, gli occhi distratti; angoli dimenticati, che fanno
parte della storia di una città. Diventa allora una sorpresa accorgersi,
improvvisamente, di un posto, accanto al quale siamo passati tante volte,
diventare diverso, solo perché certe condizioni atmosferiche hanno reso l’anima
particolarmente ricettiva. Via Fondo Noce, guardandola dal lato del sottovia
ferroviario, per esempio, è leggermente in salita, cinta da muri bianco-grigi,
con diverse porte che immettono in vecchie costruzioni. Un poco più in là, la
stessa strada fa una leggera curva verso il fondo e va a chiudersi, come in una
quinta, contro un muro alto che la sbarra. Un vero e proprio vicolo-cortile, di
cui ci sono tanti esempi a Bisceglie.
Zaccaria Gallo |
La sorpresa maggiore arriva quando ti accorgi che, sul lato destro della strada, al numero 27, c’è un arco, passato il quale, si entra in un cortile abitato: ci sono panni su di una corda tesa, un ombrellone aperto su una piccola veranda al primo piano, gerani rossi in fiore, raccolti in un grosso otre di creta. Certo è che di vicoli, cortili e atri, Bisceglie ne ha in abbondanza, ed alcuni meritevoli di ricordo e riflessione. Guardandoli dall’alto, si è tentati di vederli sistemati a blocchi, una ideale scacchiera verso Molfetta, lungo quella che una volta era la strada consolare e sono i vicoli e cortili Lancelotti, Morgigno, o quelli per la via per Ruvo, cortile Silvano, Caporalgiovanni e Scaziota. E ancora, sulla strada che porta ad Andria, quello che rimane del Cortile Tupputi, per non dimenticare quelli sulla via che noi chiamiamo lo Stradone, la Lama dei Cappuccini e di Pozzo Marrone. Sono luoghi che parlano delle loro origini, della loro etimologia, con termini che sembrano rincorrersi nella lingua italiana: cortile da corte con suffisso di ovile, porcile, anche se poi, con l’andare del tempo, questo termine non ha indicato più solo un luogo intimo, dedicato alla cura e al ricovero degli animali, ma uno spazio con connotati anche di vera opera di architettura. Corte da curtis e poi da co-hors, co-hortis, uno spazio che comprende anche un orto.
Ma ci può essere anche qualche derivazione celtica: kwer, recipiente, tenda o anche gher o ghor di derivazione balcanica, da cui poi ghord, gard e garten e giardino. Orto, recinto, giardino, tenda, recipiente, corte e cortile: immaginiamoli come spazi scoperti nel perimetro di un fabbricato, per consentire all'aria, alla luce di entrare negli ambienti che vi si affacciano o quegli spazi citati dalle case coloniche o come nel caso di una città, Bisceglie, che se ha un mare da bandiera blu, è sempre stata ed è terragna, contadina, rurale, piena di spazi rustici, organizzati, dai quali si accede alle abitazioni, alle stalle, ai sottani, alle botteghe. Spesso gli ingressi erano ricavati all’angolo di un vicolo o, come in Via Pisacane, era facile trovare due cortiletti affiancati.
Colpisce questa dislocazione, nel territorio di Bisceglie, di un complesso di cortili e vicoli collegati e come questo mi pare rispondesse a una logica economica e sociale abbastanza precisa; resta poi facile associarli alla presenza in diversi punti della città e del suo suburbio alle ville e ai palazzi patrizi vicini. Penso a Villa Frisari, Bufis, Abbascià, a Guarini e così via. Certo, molto di loro si è perduto e moltissimo se abbandonati a se stessi, sporchi, immersi nella incuria di cui bisognerebbe vergognarsi. Eppure, sarebbe stato bello che fosse viva ancora la vita in quel cortile nominato Caporale Giovanni, con quelle entrate, quelle cinque scale con ringhiere e ballatoi, dove ancora oggi ci sono i numeri civici su tutte le porte, sia quelle del piano terra che del piano rialzato e del primo e addirittura sulle porte del secondo piano. O il cortile Antonino di Via Ariosto che colpisce per il rigore formale quasi geometrico dei suoi spazi. Mi piace pensare che corte, cortile, si può associare a cor e a cuore, come per identificare, in loro, il cuore di un complesso nel quale circolava la vita.
Luoghi, al cui interno, il tempo era scandito dal mutare delle stagioni, dei rintocchi delle campane delle chiese vicine, dall’andare e tornare dal lavoro nei campi, dal succedersi di eventi piccoli e grandi, condivisi in uno spazio ristretto. Eterno assente era il padrone, o il governo, identificato con le tasse e il distretto che si portava via i figli più forti. Luoghi dove la minestra si doveva fare con l’acqua del mare (il sale dei poveri) e tutte le sere, quando il tempo lo permetteva, si stava seduti sulle panche di pietra o le siepi di paglia a strisce colorate verdi e gialle, a commentare gli accadimenti, fra il fumo delle pipe o del sigaro toscano.
Il contadino, uomo attaccato alla sua terra per necessità, per un amore ancestrale, non aveva colpe: soffriva solo di non poter tirar su di più da tutte quelle migliaia di ettari, quasi sempre sotto il sole e, spesso, senza una goccia d’acqua. Ma sapeva attendere quell’uomo: attendeva che sopraggiungesse l’autunno, che passasse l’inverno, aspettava la fine della grandine, odorava il vento e guardava i rami della mimosa quando, timidamente fiorendo, annunciava l’arrivo della primavera. Osservava la luna quell’uomo, e da lei apprendeva quando si poteva innestare e potare e seminare e al momento giusto, riempire il cortile dell’acre odore della svinatura, dello stallatico, dell'olio nuovo. Cortili che erano il regno dei bambini e degli animali: vederli, alcuni di quei bambini più fortunati, nelle mattinate d’inverno, andare a scuola, come neri uccellini con i fiocchi rossi o azzurri sul colletto dei grembiulini, i geloni alle mani, le calze pesanti, le cartelle di cartone marrone. Così mi figuro il cortile: le porte sempre aperte, le finestre fiorite e la vita, fianco a fianco, con quella cultura del vicinato che era piena di calore umano per tutti e per ogni cosa, immersa nella luce purissima del Mediterraneo.
Oggi in molti cortili regna il silenzio, interrotto solo dal garrire delle rondini d’estate, quando a velocità impressionante, senza mai sbagliare il bersaglio, s’infilano nelle fessure delle case; un silenzio che mi pare non venga solo dall’incedere del tempo, ma è un silenzio che è diventato simile a quello dei chiostri di un convento. Eppure se si pone attenzione, questo silenzio, nella nostra memoria, s’interrompe se facciamo risuonare l’eco di tante voci che, in passato, si rincorrevano in questi luoghi. Ne è testimone vivente, ancora oggi, Angelina che abita al pianterreno di una delle case di Cortile Lancellotti. È lei a raccontarmi che “ind o chertigghie”, dove oggi regna l’assenza di suoni, è trascorsa per secoli una vita di grida, di canti, di imprecazioni, di sospiri. E c’erano Mauro e Finuccia, mast’Andrea, Seriudde e Filomena, che s’alzavano all’alba, con ancora vivide in cielo le stelle, e c’erano i carri che lasciavano il cortile diretti in campagna con il cane che per primo aveva ripreso possesso del suo posto tra le ruote. Chiocciavano le galline nelle improvvisate gabbie sui ballatoi e sui balconi, mescolandosi ai primi saluti delle donne, dopo l’arrivo du carrote e il richiamo dei venditori ambulanti. Il suono della fatica si fermava solo a sera per riprendere implacabile il mattino successivo.
“La fatica, figlio mio” mi dice Angelina, quello che si stampa sulla pelle del viso e delle mani, che piega le schiene e intride di sudore il pane. Angelina, secca di corpo, e secca nelle parole e nei ricordi, ha il viso che si può vedere nelle fotografie che si trovano sul canterano. Quelle dei genitori, figli, parenti, nipoti, che hanno popolato quel cortile, che è stato dunque non solo luogo di lavoro, ma di tanti piccoli e grandi avvenimenti che si sono succeduti con l’andare e venire delle stagioni e dei mesi. Lì si nasceva e si moriva, si andava anche via, per fatigare in America, in Argentina, in Australia.
Nei pomeriggi, di controra, i ragazzi giocavano o’ curve e le ragazze al girotondo, ed era difficile schiacciare un
pisolino per le loro grida gioiose. Grida se ne sentivano diverse, richiami
spesso ansiosi, quando appariva la concitazione che precedeva i momenti di un
parto e si correva a chiamare la mammana e poi si attendeva con animo sospeso
il primo vagito del neonato. Sul filo del vento, si propagavano altre voci: una
porta che sbatteva, il lampeggiare delle lenzuola stese ad asciugare, il
battere ritmico dello sgusciare all’aperto le mandorle, la voce di Caruso alla
radio, le canzonette degli anni 40-50, il perdersi lontano dalla melodia di una
pianola portafortuna, il lamento della checchevosce (della civetta) e, con la pioggia, il picchiettare delle gocce sulle chianche e sulle basole.
Poi, mentre piano scendevano le ombre della sera, si accendevano le lucerne;
Angelina lasciava i ferri, con cui, durante tutto il pomeriggio, aveva fatto le
calze di lana per i figli e si univa
alle altre donne, dopo l’Ave Maria, per recitare il rosario. A notte, nel
cortile restava un solo suono, l’ultimo suono prima del silenzio, che era
silenzio di vita non di morte: si ascoltava venire dalla finestra aperta del primo
piano ed era quello di una culla di legno che dondolava su e giù per
addormentare un bambino. La vita continuava in questo grande e straordinario
infinito cortile, che poi, tutto sommato, assomiglia tanto alla vita di
ciascuno di noi.
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