UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

sabato 21 giugno 2025

A SOMANO CON I POETI
Fondazione Sormani Prota Giurleo ETS




I PARTITI DELLA GUERRA


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VE LA RICORDATE QUANDO DICEVA QUESTO?


Falsa e bugiarda


APOGEO E DECLINO DEL SISTEMA DEI PARTITI
di Franco Astengo



1975 - 1976 - 1978
 
Nel momento in cui l’esito referendario dello scorso 8-9 giugno ha riaperto la discussione sulla partecipazione elettorale intesa quale elemento non secondario della periclante qualità della democrazia mi permetto un ricordo, a 49 anni di distanza dal 20 giugno 1976 quando il bipartitismo imperfetto raggiunse il suo culmine (DC e PCI assommarono all’incirca il 73% dei voti validi) e si avviò il declino di quella che Pietro Scoppola definì Repubblica dei Partiti”.
 
In diverse occasioni per il sistema politico italiano il mese di giugno ha rappresentato momenti di appuntamento elettorale dall'esito "critico" , come nel caso del 7 giugno 1953 quando fu respinto il progetto democristiano di legge elettorale con premio di maggioranza o il 10 giugno 1979 allorquando si votò per la prima volta per i rappresentanti dell'Italia al Parlamento Europeo facendo registrare una evidente incrinatura nella partecipazione al voto (già segnalata nei referendum del giugno 1978) che fino ad allora aveva registrato in ogni pur diverso frangente elettorale lo stesso intensissimo dato di presenza alle urne. È stato nell'arco di dodici mesi tra il giugno 1975 e il giugno 1976 che si consumò il momento storico della massima espansione del sistema dei partiti nella versione egemone del "partito a integrazione di massa" e dell'inizio dell'irreversibile declino dello stesso modello: declino che poi, concomitanti diverse cause, avrebbe portato nel giro di un quindicennio ad un drastico mutamento nella struttura politica del nostro paese: mutamento poi suffragato dalla trasformazione della formula elettorale sia al riguardo delle elezioni amministrative (con l'elezione diretta del Sindaco) sia rispetto le elezioni politiche con l'adozione di un sistema misto a liste bloccate (per il 75% fondato su collegi uninominali e per il 25% in quota proporzionale).
15 giugno 1975 - 20 giugno 1976: due date da segnare con un circolo rosso nella nostra memoria.
15 giugno 1975: si svolgono le elezioni nelle 15 regioni a statuto ordinario, nelle province e nella gran parte dei comuni (allora le "sfasature" nelle date di scadenza dei diversi Consigli erano molto rare).
Elettrici ed elettori erano chiamati per la seconda volta alle urne per le elezioni regionali (la prima occasione era stata quella del 7 giugno 1970).
Si trattò di un vero e proprio terremoto: non a caso l'Unità titolò (e a ragione) "L'Italia è cambiata davvero".
 

 
Il PCI fece registrare un'avanzata impetuosa: con una partecipazione al voto superiore al 90% i comunisti conquistarono la maggioranza in Piemonte (33,91%), Liguria (38.70%), Emilia Romagna (48,39%), Toscana (46.47%), Umbria (46.13%), Marche (36,88%), Lazio (33,52%), oltre a risultati eclatanti in tutte le principali città sia del centro - nord sia al Sud (mancavano all'appello Genova e Roma dove le elezioni comunali si sarebbero svolte nel 1976). Vale la pena ricordare, almeno sommariamente, il quadro dell'epoca: il PCI aveva avanzato, tramite l'elaborazione del suo segretario Enrico Berlinguer, la proposta di "compromesso storico" che partiva dalla constatazione che, nel quadro della rigida divisione in blocchi attorno alle due superpotenze, le sinistre non potessero governare con il 51% ma servisse una base di consenso molto più ampia realizzabile appunto soltanto attraverso un'operazione di compromesso realizzata dalle grandi forze di natura popolare. La DC, principale interlocutrice della proposta, aveva risposto nella vaghezza morotea della "terza fase" mentre, proprio all'indomani del voto del 15 giugno 1975, la borghesia italiana ne aveva invece riaffermato in maniera molto pesante, da destra, la funzione "pivotale".


 
In quel 15 giugno il PCI aveva raccolto i frutti non tanto della proposta di compromesso storico ma soprattutto di un lungo processo di modernizzazione della società italiana, avviato con il "boom economico" e la formazione dei governi di centro - sinistra: processo di modernizzazione che aveva suscitato pesanti reazioni esplicitatesi con l'affermazione del terrorismo stragista e golpista di matrice fascista e alimentato dai servizi segreti e contrastato, da sinistra, da impazienze rivoluzionarie che avevano anche dato origine a fenomeni di lotta armata coinvolgenti anche settori legati a una visione pauperistica dell'impegno sociale cattolico. Quel processo di avanzamento politico e sociale delle grandi masse aveva trovato due punti di saldatura: quello dell'esponenziale crescita del peso sindacale confederale all'interno di una struttura economica ancora imperniata sulle grandi concentrazioni industriali in particolare a Partecipazione Statale e nel settore manifatturiero di beni di consumo (con l'egemonia dell'auto) con un grande peso della speculazione edilizia e quello della nuova stagione dei diritti sociali che aveva trovato un vero e proprio "momento magico" il 13 maggio 1974 con l'esito del referendum che approvava la legge sul divorzio, passata qualche anno prima in Parlamento. L'esito elettorale del 13 maggio 1974 era stato ottenuto principalmente per il distacco di parte delle masse cattoliche affrancate dalle indicazioni della Chiesa e, di conseguenza, della DC.
L'esito del 15 giugno 1975 fornì però un'altra indicazione che risultò in allora considerata secondaria: nelle grandi città, allo scopo di arrivare a formare giunte di sinistra per le quali il PSI (che alle elezioni regionali e comunali aveva conservato una quota rilevante di voti) manteneva un'opzione privilegiata superando il cosiddetto "preambolo Forlani", si verificarono spostamenti verso sinistra da parte di settori dell'area socialdemocratica e perfino liberale: accadde a Torino e a Milano oltre in altri comuni di grande importanza e sarebbe poi accaduto a Genova l'anno successivo. Anche a Napoli si formò, per la prima volta, una giunta di sinistra.
 


Questi due elementi: lo smottamento dell'area cattolica con la crescita di un forte movimento di dissenso e i fermenti nell'area laica non causarono alcuna flessione dall'impostazione egemonica portata da avanti dal PCI con il compromesso storico e dalla DC sulla base dell'unità politica dei cattolici e della diga anticomunista (anzi, dal punto di vista della diga anticomunista, ampi settori del padronato e della rendita rafforzarono, come vedremo, la loro convinzione di sostegno al partito democristiano). L'esito, inevitabile, del risultato elettorale del 15 giugno 1975 fu rappresentato dalle elezioni legislative generali anticipate: "il casus belli" fu dovuto ad un articolo del segretario socialista De Martino pubblicato sull'Avanti il 31 dicembre 1975, con il quale si dichiarava il rifiuto dei socialisti a partecipare, in futuro, ad un governo che non comprendesse il PCI (in quel momento era in carica il governo Moro - La Malfa imperniato sull'alleanza tra DC e PRI poi sostituito a febbraio 1976 da un altro governo Moro ma composto da un monocolore democristiano in una fase di vuoto del centro - sinistra organico).
L'articolo di De Martino aveva però rappresentato soltanto una sorta di "escamotage": in realtà era evidente come fosse dominante il tema del deficit di rappresentanza del Parlamento rispetto al Paese ben evidenziato, appunto, dall'esito delle elezioni regionali amministrative.
Si arrivò così al voto anticipato, fissato al 20 giugno 1976 senza che nessuna delle principali forze politiche delineasse un'alternativa al quadro fissato, da un lato dal "compromesso storico" e dall'altro delle necessità di far fronte attorno alla DC come "diga anticomunista" (una posizione questa emblematizzata dalla frase di un intellettuale inorganico come Indro Montanelli che, dalle colonne del "Giornale" proclamò: "Turatevi il naso e votate DC").


 
Il risultato di quella tornata elettorale rappresentò il massimo dell'estensione del sistema dei partiti nella storia repubblicana e l'esaltazione dello schema del "bipolarismo imperfetto" coniato a suo tempo da Giorgio Galli.
Rileggere i dati, a distanza di tanti anni e nella situazione attuale, fa ancora impressione: la partecipazione al voto raggiunse il 93,39%, su di un totale di 36.707.578 voti validi la DC ne totalizzò 14.209.519 e il PCI 12.614.650 per un totale di 26.824.159 (con una percentuale del 66,35% sul totale degli aventi diritto che assommava a 40.426.658 unità e del 73,07% sul totale dei voti validi). Il PSI si fermò a 3.540. 309 mentre i partiti laici risultarono prosciugati dall'appello montanelliano (2.700.000 voti circa tra PSDI, PRI, PLI con quest'ultimo ridotto ai limiti del quorum). Unico segnale in controtendenza rispetto al blocco della situazione il superamento della soglia minima per la presenza in Parlamento del cartello di Democrazia Proletaria (comprendente i principali gruppi residui della ventata sessantottesca e del dissenso comunista: Pdup, AO, MLS, Lotta Continua) e del Partito Radicale arrivato per un soffio alla meta dei 4 seggi. Nelle settimane successive il dibattito risultò soffocato dalla prospettiva dell'incontro tra DC e PCI. A differenza del 1975 non si raccolsero segnali d'alternativa, anzi dall'area laico - socialista partì in allora un movimento verso quel terzaforzismo che alla fine sarebbe sfociato nel pentapartito: fu allora che il sistema dei partiti a integrazione di massa cominciò ad incrinarsi mentre l'idea del "governo della sinistra" presentata (con forti differenziazioni interne) dal Pdup all'interno del cartello di DP risultò elaborata in misura del tutto insufficiente. L'esito di quella stagione fu un monocolore democristiano guidato da Andreotti con alle spalle l'ombra pesante della massoneria segreta e con l'astensione di tutti gli altri partiti, tranne il MSI (che aveva mantenuto una quota superiore ai 2 milioni di voti e che sarebbe stato poi sottoposto a una duplice pressione: golpista e stragista da destra e andreottiana per un ingresso nell'area di governo che avrebbe poi provocato l'effimera scissione di Democrazia Nazionale), DP e PR.


 
 
Ben prima del rapimento e dell'uccisione di Moro il "compromesso storico" era stato così declinato in una forma spuria di "solidarietà nazionale" al di là della quale non si intravedeva alcuna ipotesi alternativa: si inaugurò la politica economica dei "due tempi" adottata dal sindacato con la cosiddetta "Linea dell'EUR" e anche verso il fermento portato avanti dagli Enti Locali il governo rispose con un decreto di austerità firmato dal ministro Stammati (iscritto alla P2). Sicuramente furono realizzati alcuni importanti punti di riforma: equo canone, servizio sanitario nazionale, legge 285 sulla disoccupazione, la legge 194 sull'aborto che registrò il formarsi di una maggioranza di sinistra e laica convergendo PSI, PLI, PSDI, PCI, PRI, PR e Pdup ma si trattò di un episodio isolato, pur molto importante senza che si prefigurasse una possibile ipotesi di governo alternativo. È nota a tutti la situazione che si verificò al momento del rapimento Moro, avvenuto in un momento di particolare irrigidimento della situazione internazionale: il PCI e il PSI si apprestavano a entrare nella maggioranza che sosteneva il monocolore Andreotti superando il quadro delle "astensioni" ma la DC aveva già replicato conservando intatto il quadro dei ministri in carica senza fornire alcun segnale di apertura; al momento della strage di via Fani il PCI stava per dichiarare il proprio distacco dalla maggioranza ma il precipitare della situazione costrinse i dirigenti comunisti e quelli socialisti a votare la fiducia.
Il sistema imperniato sui grandi partiti di massa si era però già incrinato al di là dell'esito drammatico dei 55 giorni che seguirono, nel corso dei quali si determinò una "faglia" politica di grande importanza per gli anni a venire: quella tra "fermezza" e "trattativa" attraverso la quale il nuovo segretario del PSI Craxi introdusse una dinamica sistemica affatto diversa da quella precedente. A ricostruire un disegno di equilibrio non servì neppure l'elezione di Pertini, principale riferimento morale del "partito della fermezza", a Presidente della Repubblica. Concludo con alcune cifre che dimostrarono subito che quella crisi verticale era iniziata e procedeva spedita.

 
 
L'11 giugno 1978 si svolsero due referendum abrogativi, promossi dal PR, riguardanti le leggi speciali di ordine pubblico varate a suo tempo dal ministro repubblicano della giustizia Oronzo Reale e la legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvata nel 1974 per fronteggiare lo scandalo dei petroli scoperto dai "pretori d'assalto" di Genova (Sansa, Almerighi, Brusco) e voluta soprattutto dal segretario repubblicano La Malfa.
Per entrambi i quesiti la stragrande maggioranza delle forze politiche aveva chiesto a elettrici ed elettori di votare No allo scopo di mantenere inalterato il quadro legislativo esistente. Prima di tutto si registrò un forte calo nell'afflusso alle urne: andarono al voto poco meno di 33.500.000 unità, con una flessione di circa 7.000.000 di elettrici ed elettori rispetto al 20 giugno 1976 con una percentuale complessiva dell'81,19%. Si tenga conto che nell'occasione del referendum sul divorzio del 1974 la percentuale dei votanti era stata dell'87,72%. In secondo luogo si registrò una fortissima disaffezione rispetto all'indicazione del voto data dai maggiori partiti. Nel computo dei voti riguardanti il referendum sulle leggi di ordine pubblico ben 7.400.619 votanti si pronunciarono per l'abrogazione della legge mentre soltanto il cartello di DP e il PR si erano pronunciati in quella direzione (cioè più o meno 1.000.000 di voti raccolti il 20 giugno 1976). Ancor più netto il presentarsi di una vasta area contraria al finanziamento pubblico per il quale era favorevole l'intera area della maggioranza salvo il PLI: la legge si salvò a stento perché ben 13,691.900 elettrici ed elettori si pronunciarono per la sua abolizione.
Segnali di crisi del sistema si erano già avuti nel corso di alcune tornate amministrative svolte tra il 1977 e il 1978 (celebre quella di Castellamare di Stabia: l'esito di quelle elezioni amministrative determinò il coniarsi del termine giornalistico "sindrome di Castellamare" per indicare, con preciso riferimento al PCI, l'espandersi nel partito di una quasi rassegnata convinzione negativa circa l'esito elettorale della fase di solidarietà nazionale: nel caso, infatti, sembrava essersi davvero esaurita una "spinta propulsiva").
 

Si era avviata così la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in "antipolitica" nel corso della cui fase di espansione si svilupparono via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in "partiti pigliatutto" poi in partiti "azienda" o "personali" fino all'approdo alla democrazia recitativa all'interno delle cui coordinate ci stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento (inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all'esecutivo e al condizionamento del peso delle lobbies mentre si è radicalmente modificato il fenomeno della cessione di sovranità dello "Stato - Nazione". Al frantumarsi della società in isole corporative e nell'egemonia assunta dal fenomeno dell'individualismo competitivo i nuovi partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose per la democrazia come quelle rappresentate dalla riforma costituzionale per fortuna bocciata dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016 e quelle delle vere e proprie "avventure dell'effimero" rappresentate dalla meteore M5S e Lega nella versione Salvini . Il fenomeno del populismo senza principi ha attraversato e sta ancora attraversando l'intero arco istituzionale causando danni all'apparenza irreversibili. Naturalmente al formarsi di questo stato di cose hanno concorso una molteplicità di fattori che in questa sede l'economia del discorso non ci consente di analizzare in profondità e che, comunque, sono stati e sono oggetto di studi approfonditi espressi in una quantità di pubblicazioni cui si può utilmente rimandare.



Lo scopo di questa nota era soltanto quella di ricordare la ricorrenza ciclica di quei mesi di giugno: quello del 1975, del 1976 e anche quello del 1978.
Un arco di tempo in cui si consumò la storia dell'egemonia dei grandi partiti di massa che in Italia aveva avviato il suo percorso con la fase post-resistenziale (durante la quale era stata stritolata, con la sconfitta del Partito d'Azione, l'idea di una forma politica "d'opinione" che avrebbe potuto essere espressa da quella che poi sarebbe stata definita "borghesia riflessiva" e che in quel momento fu risucchiata a destra dalla retorica anticomunista) e l'esito delle elezioni per l'Assemblea costituente del 2 giugno 1946, quando i tre grandi partiti (DC, PSIUP, PCI) avevano raggiunto oltre il 70% dei voti validi, mentre la partecipazione aveva sfiorato il 90% (89,08%) dimostrando un fortissimo radicamento sociale che poi il PCI avrebbe condotto a suo vantaggio nel riequilibrio tra i due partiti  PCI e PSI verificatosi con la formazione del Fronte Popolare sconfitto dalla DC il 18 aprile 1948.
 



A CAPODISTRIA
Il 24 Giugno contro il riarmo e la guerra.



 

Il 24 giugno, in Slovenia, è stata lanciata una giornata di mobilitazione nazionale contro il riarmo e la guerra imperialista, che riguardano tutti i paesi europei, a causa delle politiche belliciste di Nato e Ue. Facciamo appello agli antimilitaristi e alle antimilitariste triestine a partecipare alla manifestazione convocata alle 18.00 a Capodistria in Piazza Tito, per dare sostegno ad una mobilitazione che condividiamo assolutamente, visto anche l'ulteriore precipitare della situazione globale con l'aggressione sionista all'Iran. Ci troveremo alle 17.00 in Piazza Oberdan, a Trieste, per raggiungere assieme Capodistria. Chi vuole unirsi a noi può scriverci all'indirizzo mail: nogreenpasstrieste@riseup.net





CASA CRESCENZAGO BENE COMUNE


 


I
l Palazzo ex Comune di Crescenzago ritorna proprietà pubblica in quanto bene storico-artistico e per la sua funzione sociale culturale e civile (Delibera della Giunta del Comune di Milano, n. 703/12 Giugno 2025).




Risultato positivo, raggiunto dopo 17 anni di lotta e di resistenza delle Associazioni ANPI, Corpo Musicale, Legambiente e Casa Crescenzago, col sostegno della cittadinanza attiva, in difesa dei Beni Pubblici e Comuni e degli spazi di democrazia partecipativa.






Domenica 22 Giugno 2025, h. 10.30 si festeggia con un concerto della Banda musicale di Crescenzago in Piazza Costantino con aperitivo e sorpresa artistico-musicale. “Odissea” è sempre stata a fianco di questa doverosa e importante battaglia.




venerdì 20 giugno 2025

GUTTA CAVAT LAPIDEM 
di Romano Rinaldi 



 
Odissea formula al prof. Rinaldi gli auguri più affettuosi per una totale e rapida guarigione per averlo con noi più vitale e battagliero di prima.
 
Da due settimane questo è il panorama che vedo al risveglio ogni mattina. Mentre osservo la terapia sgocciolare lentamente nelle mie vene mi si riaffaccia questo motto, sepolto dal tempo del Liceo, dai molti significati per la mia presente condizione e non solo. Come primo pensiero c’è l’auspicio che quell’insistente sgocciolio riesca a penetrate la metaforica parete di pietra che al momento mi separa dalla condizione di salute e relativo benessere di cui godevo solo pochi giorni fa. Il secondo significato, meno ottimistico, fa parte dell’eterna e onnipresente dualità bene/male (giorno/notte, luce/buio, bianco/nero, paradiso/inferno, Yin/Yang - Tao, ecc.) e la possibilità che la condizione, lasciata a sé stessa, possa far avanzare la perfida natura del male che a poco a poco può prevalere sul bene. Qui sta in effetti il significato della Medicina nel suo complesso, con la ricerca di un equilibrio tra le due tendenze e il flusso ondivago che le anima ben evidente tutto intorno a me, in questo luogo di sofferenza e di cura. Un terzo significato è del tutto personale ed inerente la mia professione di esperto di minerali e rocce, di cui ho studiato l’intima composizione chimica e le proprietà fisiche fino nei più reconditi dettagli della struttura atomica che li caratterizza. Ecco che, a quel livello, è ben evidente la forza messa in atto dall’apparentemente insignificante goccia d’acqua, tuttavia dotata dell’enorme potere solvente conferitole dalla polarità della sua molecola, unito alla forza di gravità che imprime alla goccia un potere di penetrazione altrettanto efficace, pur se nell’arco di un congruo intervallo temporale. A proposito del male, inteso nel senso di dolore fisico, un recente episodio di mancamento causato dal dolore fisico, mi ha offerto l’opportunità di ottenerne un’esperienza quasi mistica con bellissime sensazioni di pace e beatitudine, durante il seppur brevissimo intervallo di “incoscienza”; allorché tutto il sistema va in protezione e il cervello non percepisce né impartisce più i segnali da e per la periferia. A parte le logiche considerazioni sulla meraviglia della fisiologia umana, quella breve ma intensa esperienza onirica è stata indimenticabile, oltre che dal punto di vista personale, per i risvolti storico-culturali, escatologici, di costume e del pensiero religioso.
In sostanza, la sensazione di estremo benessere dovuta alla totale assenza di stimoli in entrata e in uscita mi ha offerto un seppur brevissimo affaccio su ciò che a seconda dell’ambito culturale, può essere considerato estasi mistica, nirvana o comunque si voglia chiamare una condizione di beatitudine terrena. Qualcosa di simile a una piccola finestra su ciò che la nostra mente neuronale può percepire come l’aldilà, dove la presenza dell’individuo è sentita con estremo piacere e sollevazione da tutto quanto può esistere di negativo in noi e intorno a noi. Volendo riportare quanto detto finora all’attualità che sta là fuori, lascio la miriade di considerazioni all’immaginazione dell’attento lettore. 
Per parte mia vorrei proporne una soltanto, sullo stato evolutivo del nostro cervello e in generale della specie umana. L’attuale stato di belligeranza che va diffondendosi sul nostro bellissimo e unico pianeta di cui possiamo disporre, imporrebbe a tutta l’umanità un uso conforme alla sofisticata e complessa natura del cervello umano come è venuto ad evolversi almeno nell’arco dell’ultima decina di migliaia di anni. Viceversa, l’affermazione di movimenti di massa animati dall’egoismo di posizioni individualiste a livello personale e sovraniste a livello nazionale, porta allo scontro armato e alla logica della sopraffazione del più debole con la pretesa della salvaguardia dei propri diritti. Tutta roba da tribù ultra primitive. Alla faccia dei diritti fondamentali dell’Uomo, del diritto internazionale e del sacrosanto diritto all’autodeterminazione dei popoli.

SCENARI DI GUERRA
di Maurizio Vezzosi




Israele contro Iran. O Stati Uniti contro Iran?


L
a cronaca d’Oltreoceano e del Vicino Oriente fa apparire almeno possibile il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella guerra contro l’Iran: un coinvolgimento che costituirebbe il contrario di quanto affermato per anni da Donald Trump riguardo il ruolo di Washington nella regione. Mentre tutto il personale militare statunitense di stanza nell’area del golfo si trova in stato di massima allerta, il blocco di potere trumpiano sta facendo i conti condefezioni illustri, ma soprattutto con quella che sembra la mancanza di una vera visione politica degli Stati Uniti e del loro ruolo globale. È improbabile che Benjamin Netanyahu abbia imboccato la strada della guerra aperta contro Teheran senza essere certo di un rapido intervento degli Stati Uniti. Ogni giorno che passa i margini dell’autonomia israeliana si riducono, erodendo soprattutto la sua capacità difensiva. I calcoli di Benjamin Netanyahu potrebbero quindi anche rivelarsi errati. Scommettendo sulla sollevazione dei curdi iraniani, dei nazionalisti del Balocistan, di una parte della popolazione e sull’opposizione in esilio. Israele sta compiendo ogni sforzo per distruggere l’Iran: distruggerlo come entità statuale, non semplicemente riducendo la sua capacità nucleare o forzando un ipotetico cambio di regime. Tutti gli attori in campo sanno che Israele non potrebbe resistere a lungo ad una tale pressione senza il sostegno di Washington, Benjamin Netanyahu in primis. Israele non è riuscito a sconfiggere la resistenza palestinese a Gaza ed in Cisgiordania, nonostante oltre un anno e mezzo di guerra di annientamento, né quella yemenita, Pur infliggendo duri colpi all’Iran, Israele ha confermato di non poter sostenere uno scontro aperto qualora questo dovesse dilatarsi nel tempo. Sei giorni di attacchi missilistici, sono stati sufficienti a palesarlo. Il Pakistan, peraltro, ha già dichiarato la propria disponibilità a fornire armi nucleari all’Iran qualora fosse necessario. 



La proposta russa, messa sul tavolo da Vladimir Putin al forum economico di San Pietroburgo, costituisce per il momento l’unica possibile soluzione politica allo scontro tra Tel Aviv e Teheran: in questa ipotesi, l’eventuale ruolo di Mosca garantirebbe la sicurezza nucleare di entrambi i paesi. L’atteggiamento russo potrebbe radicalmente cambiare qualora una possibile mediazione tra le parti non dovesse funzionare. Un attacco all’Iran può essere interpretato come un attacco al ruolo russo e cinese nel Vicino oriente e nell’Asia Centrale. L’Iran è tra i principali fornitori energetici di Pechino, insieme al confinante Turkmenistan. È improbabile, dunque, che Mosca e Pechino accettino passivamente un eventuale crollo di Teheran. Al netto di alcune difficoltà, sia Mosca che Pechino potrebbero approfittare di un eventuale attacco statunitense per aumentare la propria pressione militare in Ucraina e su Taiwan. Ma le conseguenze negative per gli Stati Uniti e per i paesi europei potrebbero essere molto più ampie. L’Iran potrebbe reagire attaccando direttamente le basi e le portaerei statunitensi nell’area del Golfo, oltre a tentare di un blocco sullo stretto di Hormuz e sul quello di Bab el-Mandeb. Uno scontro diretto tra Stati Uniti ed Iran avrebbe conseguenze potenzialmente devastanti per l’economia globale. Oltre ai rischi di carattere militare, il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i suoi massimi storici. A questo proposito, vale la pena ricordare come la rivoluzione iraniana del 1979 abbia innescato la seconda crisi petrolifera più grave dopo quella del 1973. Una nuova fase, ancora più pericolosa, della guerra mondiale combattuta a pezzi.

MEDITARE E DISCUTERE
di Alfonso Gianni
 


Come impedire che l’astensione distrugga i referendum.
 
Il netto insuccesso della prova referendaria di giugno su tematiche della massima importanza come il lavoro e la cittadinanza ci costringe - ed è indispensabile che ciò avvenga - a considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Questa risulta particolarmente sottolineata constatando la distanza considerevole che ha separato i Sì al primo dei quattro quesiti sul lavoro (quello relativo alla reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo anche per chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015) da quello sulla cittadinanza. I numeri parlano chiaro: il primo quesito, il più votato tra quelli sul lavoro, ha raggiunto 13.310.443 voti (comprendendo anche quelli provenienti dall’estero), mentre quello sulla cittadinanza (sempre con i voti esteri) si è fermato a 9.748.806. Nella provincia di Bolzano, ove si è votato di meno che nel resto d’Italia, il No al dimezzamento degli anni d’attesa per conseguire la cittadinanza ha addirittura superato i Sì con il 52% dei voti. Vi è chi attribuisce la differenza di quasi tre milioni e mezzo di voti interamente ai 5stelle lasciati liberi da indicazioni di voto, ma probabilmente le ragioni di una simile diversità sono più complesse e profonde. Gli studi offerti da vari centri sondaggistici (mi pare interessante quello fatto sulla città di Torino) aiutano certamente alla comprensione dell’esito del voto, ma dovrebbero e potrebbero essere accompagnati - ecco un’occasione da non perdere - da un lavoro d’inchiesta, che permetterebbe, venendo a contato diretto con la popolazione, di registrarne finalmente l’effettivo punto di vista, anziché dedurlo da presunte corrispondenze meccanicistiche tra voto referendario e scelta politica.



Naturalmente è giusto sottolineare anche alcuni aspetti specifici che hanno influito negativamente sull’andamento del voto. Tra questi va considerata senza dubbio la arbitraria cancellazione del referendum sull’autonomia differenziata operata dalla Consulta sulla base di motivazioni che sfidano prima ancora la logica più che il diritto. La richiesta di abrogazione totale della legge Calderoli avrebbe costituito un traino ideale per portare alle urne i cittadini, favorendo così, anche se certamente di per sé non garantendo, il voto sugli altri quesiti referendari. Certo la controprova non c’è, ma gli indizi a nostra disposizione ci portano a credere che la presenza del quesito contro la legge Calderoli avrebbe potuto raggiungere e superare il quorum per la sua dimostrata capacità di penetrazione anche in ambiti elettorali legati alle destre specialmente nel Mezzogiorno.  In ogni caso questa vicenda dimostra la necessità, modificando la legge 352/1970 che la verifica di costituzionalità dei quesiti avvenga prima e non dopo la raccolta delle firme evitando almeno di mortificare la volontà espressa, in questo caso, da quasi un milione e 300mila cittadine e cittadini.



È giusto anche sottoporre a critica il modo con cui soprattutto le forze politiche sostenitrici del Sì hanno condotto la campagna elettorale. L’avere messo a un certo punto in primo piano le possibili conseguenze politiche del voto referendario (tutte peraltro da dimostrare), addirittura evocando lo sfratto al governo Meloni, ha più che altro nuociuto all’esito della prova favorendo la chiamata all’astensione. Peraltro questa non è neppure stata contrastata a dovere, visto che è stata evocata da figure istituzionali le cui funzioni andrebbero adempiute “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.). Non solo ma la legislazione ancora vigente, derivante dal Testo unico sulle leggi elettorali del 1948, la cui validità sul punto specifico è stata ribadita anche per le campagne referendarie dalla legge 352/1970, ribadisce che atti e parole che inducono all’astensione, a differenza del comune cittadino, sono perseguibili con previsione delle pene comminabili.  



La Cgil, per bocca del suo segretario generale, ha giustamente ribadito di essersi mantenuta ben lontana da questo scivolamento dell’asse tematico e finalistico che di per sé è da considerarsi estraneo alla stessa ratio del confronto referendario. Ma anche il maggiore sindacato italiano ha delle domande da porsi e delle riflessioni da fare. La novità, giustamente sottolineata, del ricorso all’istituto referendario da parte del sindacato in prima persona, è risultata insufficiente per la rivitalizzazione dell’organizzazione e la sua trasformazione in un sindacato di strada, un obiettivo per il cui raggiungimento è ineludibile l’essere sindacato nel senso più pieno e forte della parola, facendo i conti con le modificazioni intervenute nelle condizioni e nei rapporti di lavoro. Ma la sconfitta va persino al di là di questi ambiti, e ci induce a riflettere su l’istituto stesso del referendum abrogativo, cioè dell’unica forma nella quale si esprime pienamente la democrazia diretta come previsto dalla Costituzione. Data la direzione che le classi dirigenti hanno preso - non solo nel nostro paese - di sancire la rottura del rapporto fra capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un No producano un effettivo ed immediato cambiamento. È dal 2011, dai referendum vincenti sull’acqua e sul nucleare (i cui esiti sono stati a lungo boicottati e che ora le destre cercano di capovolgere) che il quorum non viene raggiunto. Per di più entro un quadro di astensionismo crescente anche nelle consultazioni politiche: nelle ultime europee ha votato la minoranza degli aventi diritto.



Il referendum di giugno ha cozzato contro un muro di silenzio elevato in nome dell’astensione che è stata contrabbandata come un diritto al pari di quello del voto. Non lo è. Perché il secondo è un dovere civico. Non vi è da stupirsi visto che la scelta dell’astensione è stata fatta in passato anche dalle forze del centrosinistra, e suoi esponenti autorevoli posti in collocazioni apicali delle istituzioni, come Giorgio Napolitano, avevano concesso all’astensione l’imprimatur della legittimità. Quindi la recente prova ribadisce che il principale nemico del referendum abrogativo è l’astensione. Ovvero il referendum è costretto a una gara impari in partenza, anche perché alla crescente astensione - che molti definiscono cronica - si aggiunge quella scelta e organizzata nelle specifiche prove.



Lo riconosceva anche un organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione di Venezia, fin dal 2006, quando scriveva che il rifugiarsi nell’astensione «non è sensato per la democrazia». Se si vuole salvare il referendum e non assistere immobili al suo boicottaggio, serve una riforma - necessariamente costituzionale trattandosi di modificare il 4° comma dell’art. 75 Cost. - dell’istituto referendario che non può che prendere di mira il ricorso all’astensione. Non penso sia opportuna la cancellazione totale di ogni quorum, che indebolirebbe proprio la forza di espressione della sovranità popolare, che è l’anima del referendum e che si esprime anche attraverso la partecipazione di una consistente massa critica di cittadini. Né bisogna inventarsi parziali quanto opinabili riduzioni dell’attuale quorum. Non trovo convincente il cosiddetto “quorum mobile” per cui gli aventi diritto al voto coinciderebbero con i votanti nelle ultime elezioni politiche, perché stabilirebbe un nesso assai poco virtuoso fra voto sulla rappresentanza politica e quello su specifiche questioni dotate di una potenziale trasversalità, oltre a dare per strutturale l’aumento dell’astensione nelle votazioni politiche.



Si può invece capovolgere il criterio su cui viene calcolato il quorum, ricorrendo semplicemente ad una soglia di voti positivi a favore della proposta referendaria. Il meccanismo è semplice, basta partire dall’attuale situazione. Secondo l’art.5 Cost “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.” Bene. Partiamo dal caso limite. Se nella votazione ha partecipato il 50% più uno degli aventi diritto, la soglia di sicurezza per la vittoria del Sì, cioè della proposta referendaria, è costituita dal superamento della metà di quel voto, cioè il raggiungimento del 25% più uno degli aventi diritto. Se si toglie, come propongo, il quorum rappresentato dalla maggioranza della partecipazione al voto degli aventi diritto, resterebbe quest’ultima soglia, quella del 25% più uno l’unica da raggiungere e meglio ancora superare, per dichiarare valida la consultazione e approvata la proposta referendaria. A questo punto il ricorso all’astensione diventerebbe un puro suicidio perché anche se raggiungesse il 75% meno uno perderebbe comunque. Quindi il Sì e il No si troverebbero a fronteggiarsi in aperta e democratica contesa. In questo modo si tornerebbe a dare valore al referendum abrogativo che i padri costituenti, dopo non semplice discussione, gli avevano dato: quello della possibilità dei cittadini di correggere o cancellare direttamente una decisione sbagliata o ingiusta assunta dal Parlamento, attraverso il voto su una richiesta referendaria, filtrata attraverso il parere della Corte di cassazione e, preventivamente alla raccolta delle firme come sarebbe più logico, della Consulta. Si salverebbe così l’unico strumento di democrazia diretta previsto in Costituzione dallo strangolamento operato dall’astensione voluta da quelle stesse forze che, in base ad una maggioranza parlamentare che è tale solo per una legge elettorale truffaldina, hanno votato quelle leggi.

 

IN PIAZZA DEI MERCANTI




giovedì 19 giugno 2025

ESCALATION: VA SEMPRE PEGGIO


 
Il cancelliere Merz, il più idiota dei super-idioti europei, ha almeno il merito di dire quello che pensa: noi stiamo con Israele non solo per mettere la parola fine al programma nucleare iraniano, ma per bloccare l’esportazione del terrorismo da parte di Teheran. Il discorso viene completato e ripulito degli evidenti equivoci dalla neonazi Kallas che prima si nasconde dietro alla de-escalation - una parola che serve per confondere le acque e le responsabilità, ossia per non criticare Israele; la legge internazionale, vedi il post di El Baradei, già direttore dell’IAEA, va ri
chiamata solo quando serve - poi, in risposta a una domanda, chiarisce cosa si intende per terrorismo: il sostegno alla Russia in Ucraina. L’appoggio a Israele contro l’Iran fa dunque parte della guerra europea alla Russia - indebolendo l’uno si indebolisce l’altra. Ai super-idioti va almeno riconosciuto di avere delle priorità, e di perseguirle - detto per inciso, tra queste priorità non ci sono i palestinesi. Fonte Bloomberg, Merz, lunedì, aveva anche previsto - previsione da super-idiota - che entro la mezzanotte di ieri Trump avrebbe deciso l’attacco all’Iran. Un’altra notizia di Bloomberg - una vera bomba - è l’affermazione dello stesso Trump che le sanzioni danneggiano l’America! Sulla decisione del presidente americano probabilmente grava ancora l’incertezza, però possiamo essere certi che al suo posto una Kamala Harris, tanto per fare un nome, avrebbe già dato il via alle ostilità. In attesa della conclusione del processo decisionale, vanno notate le prime incertezze del mainstream. France 24 si chiede: ma qual è il vero obiettivo di Israele? Il “regime change” a Teheran è realistico? È però il WP a mettere il dito nella piaga: le difese antiaeree israeliane sono inadeguate, costose e sufficienti solo per una guerra che non duri più di due settimane. Sulla stessa linea è Bhadrakumar che cita fonti russe. [Franco Continolo]

 

 
Il Cancelliere Friedrich Merz afferma di aver parlato con il governo degli Stati Uniti di un possibile intervento militare nella guerra tra Israele e Iran. Ha anche elogiato i successi dell’esercito israeliano. Secondo il Cancelliere Friedrich Merz (CDU), il governo degli Stati Uniti sta valutando un intervento militare nella guerra tra Israele e Iran. “Ne abbiamo discusso, ma ovviamente non c’è ancora una decisione da parte del governo degli Stati Uniti”, ha dichiarato Merz a margine del vertice del G7 in Canada, in uno speciale di WELT Talk con Jan Philipp Burgard, caporedattore del WELT Group. “Ora dipende molto da quando il regime dei mullah sarà disposto a tornare al tavolo delle trattative. In caso contrario, potrebbero esserci ulteriori sviluppi. Ma dovremo aspettare e vedere. Le decisioni saranno probabilmente prese nel prossimo futuro”. Merz ha anche sottolineato i successi dell’esercito israeliano. Israele ha distrutto “con grande successo” le strutture del programma nucleare iraniano. Oggi, si potrebbe probabilmente dire: non ci sono armi nucleari in Iran. Ci sarà ancora “lo stesso livello di finanziamento e sostegno al terrorismo globale da parte di questo Paese”. Il regime dei mullah è “molto indebolito” e probabilmente non tornerà alla sua precedente forza, ha affermato Merz. “Non tornerà a essere com’era fino a giovedì scorso”. L’esercito israeliano ha dimostrato le sue capacità negli ultimi giorni. Il futuro dell’Iran è incerto. “Noi europei ci siamo offerti di fornire tutta l’assistenza diplomatica. Se, ad esempio, ci fosse una ripresa dei colloqui diplomatici, saremmo pronti a partecipare”, ha affermato Merz. Nell’intervista, il Cancelliere ha anche contraddetto il Presidente degli Stati Uniti, che all’inizio del vertice aveva definito un grave errore l’esclusione del Presidente russo Vladimir Putin dal formato. “Continuo a credere che l’esclusione di Putin dal formato G8, come si chiamava all’epoca, dopo l’annessione della Crimea, sia stata corretta”, ha sottolineato Merz. “Non siamo qui seduti in questo formato con signori della guerra o criminali di guerra. Ed è per questo che rimane il fatto che Putin non ha posto a questo tavolo”.
 
(Trad. di Google)

GUERRA E MODERNITÀ
di Franco Astengo
 

La guerra sembra riaffacciarsi sullo scenario geopolitico come una prospettiva “globale”.
 
I conflitti in corso in particolare quelli in Ucraina, Iraq e Siria e lo spostamento d’asse nei principali equilibri internazionali hanno fatto riprendere consistenza all’ipotesi di un conflitto generalizzato di dimensioni planetarie che veda di fronte gli Stati Uniti e la coalizione occidentale (comprensiva del Giappone che, com’è noto geograficamente, si colloca nell’Estremo Oriente) e la Russia alla quale si sta accostando la Cina. Si tratterebbe di una deflagrazione a intensità altissima, quasi insopportabile per l’intera umanità: un rischio da scongiurare assolutamente ma che appare verosimile perché hanno ormai perso di forza e di autorevolezza quegli organismi internazionali che durante l’epoca del bipolarismo” atomico” Usa/Urss (1948-1991) avevano bene o male garantito la mediazione necessaria e l’insorgere, conclusa anche la fase della sola superpotenza, di una molteplicità apparente di conflitti dalle diverse motivazioni (compresa quella dello “scontro di civiltà, tra Occidente e Islam fondamentalista) della possibilità di una risoluzione del “contenzioso” (in particolare dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici) attraverso una guerra di tipo generale. Soprattutto però è cambiato il concetto di “guerra” dal punto di vista della concezione della “modernità” e della possibilità di giustificare storicamente, e anche dal punto di vista filosofico, l’evento bellico.
La fase che stiamo attraversando appare proprio quella del superamento del ruolo degli USA a disporre da soli dello “ius ad bellum”: in questo periodo la guerra è rientrata in circolazione come moneta sonante del pagamento dell’azione politica anche nell’area europea, sia a livelli sub-statuali (quella definita come “terrorismo”) intrecciati a livelli sovra-statuali (appunto il già citato “scontro di civiltà”). In questo quadro, contraddistinto proprio dall’unicità di presenza di una sola superpotenza, quella statunitense e a fronte della già ricordata palese obsolescenza del sistema di legalità internazionale fondato sull’ONU, si era ricorsi ad un uso “normalizzante” della guerra: quella “asimmetrica” contro il cosiddetto terrorismo, quella “umanitaria” che oltrepassava il principio di non ingerenza; quella “preventiva” che andava oltre il divieto della guerra d’aggressione, fino alla guerra “per la democrazia” che si fondava sull’ipotesi che vi fossero nessi cogenti fra la qualità interna di un ordine politico e la sua propensione alla guerra, e che in un mondo democratizzato” all’occidentale” le guerre sarebbero state impossibili. Dal cappello dell’apprendista stregone di questi concetti sono sorti, non tanto improvvisi, mostri dalle diverse teste: i Talebani in Afghanistan, il Califfato del Levante e quello della Nigeria, tanto per fare degli esempi concreti oltre alle nuove dittature islamiche e/o militari in Egitto, Tunisia, Algeria e il dissolvimento d’intere unità statuali, dall’Iraq alla Libia dalla Somalia all’Eritrea al Sud Sudan. Sono ormai saltati quei principi che la teoria e la filosofia politica avevano ricercato per creare le condizioni e le modalità di una possibile “guerra giusta” (un ideale inseguito fin dalla prima filosofia cristiana in Agostino e poi nella Scolastica da Tommaso): limiti dell’ingerenza in difesa dei diritti umani; proporzione degli atti di guerra rispetto alle offese da riparare; problema della liceità delle armi di distruzione di massa.



La scienza politica aveva affrontato, da parte sua, il problema attraverso i metodi e le categorie dell’idealismo e del realismo, attraverso le nozioni di equilibrio e di egemonia. Oggi tutta questa impalcatura teorica e ideologica sembra saltata e siamo alla guerra globale dove è saltata la distinzione fra guerra e terrorismo, tra civili e militari, fra Stati e gruppi armati “privati”.
La scena internazionale appare così percorsa da innumerevoli conflitti di vario livello e diversa intensità, con base su sfondi apparenti anche diversi da quelli di tipo economico come quelli religiosi o identitari. Quale migliore occasione allora per “ripristinare l’ordine” per via bellica da parte di chi intende affermare un nuovo multipolarismo concepito in modo tale da usarne i meccanismi per puntare al recupero del bipolarismo presentandosi come il propugnatore di un diverso equilibrio rispetto a quello imperniato su di una sola superpotenza?
Potrebbe esser questo il tema all’ordine del giorno nei prossimi mesi, attorno al quale riflettere soprattutto da parte di chi sa benissimo che non è proprio il caso di cadere nella trappola dello “scontro di civiltà” e che la logica dominante rimane quella dello sfruttamento dell’uomo e del pianeta e che in gioco c’è proprio la libertà di poter disporre a proprio piacimento della facoltà di sfruttare al massimo dell’intensità senza tener conto della necessità di un equilibrio riguardante la presenza (ormai a rischio) del genere umano sul pianeta.


 

 

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