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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea

1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
sabato 21 giugno 2025
APOGEO E DECLINO DEL
SISTEMA DEI PARTITI
di Franco Astengo
1975 - 1976 - 1978
Nel momento in
cui l’esito referendario dello scorso 8-9 giugno ha riaperto la discussione
sulla partecipazione elettorale intesa quale elemento non secondario della
periclante qualità della democrazia mi permetto un ricordo, a 49 anni di
distanza dal 20 giugno 1976 quando il “bipartitismo
imperfetto” raggiunse il suo culmine (DC e PCI assommarono all’incirca
il 73% dei voti validi) e si avviò il declino di quella che Pietro Scoppola
definì “Repubblica dei Partiti”.
In diverse occasioni per il sistema politico italiano il mese di
giugno ha rappresentato momenti di appuntamento elettorale dall'esito
"critico" , come nel caso del 7 giugno 1953 quando fu respinto il
progetto democristiano di legge elettorale con premio di maggioranza o il 10
giugno 1979 allorquando si votò per la prima volta per i rappresentanti
dell'Italia al Parlamento Europeo facendo registrare una evidente incrinatura
nella partecipazione al voto (già segnalata nei referendum del giugno 1978) che
fino ad allora aveva registrato in ogni pur diverso frangente elettorale lo
stesso intensissimo dato di presenza alle urne. È
stato nell'arco di dodici mesi tra il giugno 1975 e il giugno 1976 che si
consumò il momento storico della massima espansione del sistema dei partiti
nella versione egemone del "partito a integrazione di massa" e
dell'inizio dell'irreversibile declino dello stesso modello: declino che poi,
concomitanti diverse cause, avrebbe portato nel giro di un quindicennio ad un
drastico mutamento nella struttura politica del nostro paese: mutamento poi
suffragato dalla trasformazione della formula elettorale sia al riguardo delle
elezioni amministrative (con l'elezione diretta del Sindaco) sia rispetto le
elezioni politiche con l'adozione di un sistema misto a liste bloccate (per il
75% fondato su collegi uninominali e per il 25% in quota proporzionale).
15 giugno 1975 - 20
giugno 1976: due date da segnare con un circolo rosso nella
nostra memoria.
15 giugno 1975: si svolgono le elezioni nelle 15 regioni a statuto ordinario,
nelle province e nella gran parte dei comuni (allora le "sfasature"
nelle date di scadenza dei diversi Consigli erano molto rare).
Elettrici ed elettori
erano chiamati per la seconda volta alle urne per le elezioni regionali (la
prima occasione era stata quella del 7 giugno 1970).
Si trattò di un vero
e proprio terremoto: non a caso l'Unità titolò (e a ragione) "L'Italia è cambiata davvero".
Il PCI fece
registrare un'avanzata impetuosa: con una partecipazione al voto superiore al
90% i comunisti conquistarono la maggioranza in Piemonte (33,91%), Liguria
(38.70%), Emilia Romagna (48,39%), Toscana (46.47%), Umbria (46.13%), Marche
(36,88%), Lazio (33,52%), oltre a risultati eclatanti in tutte le principali
città sia del centro - nord sia al Sud (mancavano all'appello Genova e Roma dove
le elezioni comunali si sarebbero svolte nel 1976). Vale la pena ricordare, almeno sommariamente, il quadro
dell'epoca: il PCI aveva avanzato, tramite l'elaborazione del suo segretario
Enrico Berlinguer, la proposta di "compromesso storico" che partiva
dalla constatazione che, nel quadro della rigida divisione in blocchi attorno
alle due superpotenze, le sinistre non potessero governare con il 51% ma
servisse una base di consenso molto più ampia realizzabile appunto soltanto
attraverso un'operazione di compromesso realizzata dalle grandi forze di natura
popolare. La DC, principale interlocutrice
della proposta, aveva risposto nella vaghezza morotea della "terza
fase" mentre, proprio all'indomani del voto del 15 giugno 1975, la borghesia
italiana ne aveva invece riaffermato in maniera molto pesante, da destra, la
funzione "pivotale".
In quel 15 giugno il
PCI aveva raccolto i frutti non tanto della proposta di compromesso storico ma
soprattutto di un lungo processo di modernizzazione della società italiana, avviato
con il "boom economico" e la formazione dei governi di centro -
sinistra: processo di modernizzazione che aveva suscitato pesanti reazioni
esplicitatesi con l'affermazione del terrorismo stragista e golpista di matrice
fascista e alimentato dai servizi segreti e contrastato, da sinistra, da
impazienze rivoluzionarie che avevano anche dato origine a fenomeni di lotta
armata coinvolgenti anche settori legati a una visione pauperistica
dell'impegno sociale cattolico. Quel processo di
avanzamento politico e sociale delle grandi masse aveva trovato due punti di
saldatura: quello dell'esponenziale crescita del peso sindacale confederale
all'interno di una struttura economica ancora imperniata sulle grandi
concentrazioni industriali in particolare a Partecipazione Statale e nel
settore manifatturiero di beni di consumo (con l'egemonia dell'auto) con un
grande peso della speculazione edilizia e quello della nuova stagione dei
diritti sociali che aveva trovato un vero e proprio "momento magico"
il 13 maggio 1974 con l'esito del referendum che approvava la legge sul
divorzio, passata qualche anno prima in Parlamento. L'esito elettorale del 13
maggio 1974 era stato ottenuto principalmente per il distacco di parte delle
masse cattoliche affrancate dalle indicazioni della Chiesa e, di conseguenza,
della DC.
L'esito del 15 giugno
1975 fornì però un'altra indicazione che risultò in allora considerata
secondaria: nelle grandi città, allo scopo di arrivare a formare giunte di
sinistra per le quali il PSI (che alle elezioni regionali e comunali aveva
conservato una quota rilevante di voti) manteneva un'opzione privilegiata
superando il cosiddetto "preambolo Forlani", si verificarono
spostamenti verso sinistra da parte di settori dell'area socialdemocratica e perfino
liberale: accadde a Torino e a Milano oltre in altri comuni di grande
importanza e sarebbe poi accaduto a Genova l'anno successivo. Anche a Napoli si
formò, per la prima volta, una giunta di sinistra.
Questi due elementi:
lo smottamento dell'area cattolica con la crescita di un forte movimento di
dissenso e i fermenti nell'area laica non causarono alcuna flessione
dall'impostazione egemonica portata da avanti dal PCI con il compromesso
storico e dalla DC sulla base dell'unità politica dei cattolici e della diga
anticomunista (anzi, dal punto di vista della diga anticomunista, ampi settori
del padronato e della rendita rafforzarono, come vedremo, la loro convinzione
di sostegno al partito democristiano). L'esito,
inevitabile, del risultato elettorale del 15 giugno 1975 fu rappresentato dalle
elezioni legislative generali anticipate: "il casus belli" fu dovuto
ad un articolo del segretario socialista De Martino pubblicato sull'Avanti il
31 dicembre 1975, con il quale si dichiarava il rifiuto dei socialisti a partecipare,
in futuro, ad un governo che non comprendesse il PCI (in quel momento era in
carica il governo Moro - La Malfa imperniato sull'alleanza tra DC e PRI poi
sostituito a febbraio 1976 da un altro governo Moro ma composto da un
monocolore democristiano in una fase di vuoto del centro - sinistra organico).
L'articolo di De
Martino aveva però rappresentato soltanto una sorta di "escamotage":
in realtà era evidente come fosse dominante il tema del deficit di
rappresentanza del Parlamento rispetto al Paese ben evidenziato, appunto,
dall'esito delle elezioni regionali amministrative.
Si arrivò così al
voto anticipato, fissato al 20 giugno 1976 senza che nessuna delle principali
forze politiche delineasse un'alternativa al quadro fissato, da un lato dal
"compromesso storico" e dall'altro delle necessità di far fronte
attorno alla DC come "diga anticomunista" (una posizione questa
emblematizzata dalla frase di un intellettuale inorganico come Indro Montanelli
che, dalle colonne del "Giornale" proclamò: "Turatevi il naso e
votate DC").
Il risultato di
quella tornata elettorale rappresentò il massimo dell'estensione del sistema
dei partiti nella storia repubblicana e l'esaltazione dello schema del
"bipolarismo imperfetto" coniato a suo tempo da Giorgio Galli.
Rileggere i dati, a
distanza di tanti anni e nella situazione attuale, fa ancora impressione: la
partecipazione al voto raggiunse il 93,39%, su di un totale di 36.707.578 voti
validi la DC ne totalizzò 14.209.519 e il PCI 12.614.650 per un totale di
26.824.159 (con una percentuale del 66,35% sul totale degli aventi diritto che
assommava a 40.426.658 unità e del 73,07% sul totale dei voti validi). Il PSI si fermò a 3.540. 309 mentre i partiti laici
risultarono prosciugati dall'appello montanelliano (2.700.000 voti circa tra
PSDI, PRI, PLI con quest'ultimo ridotto ai limiti del quorum). Unico segnale in
controtendenza rispetto al blocco della situazione il superamento della soglia
minima per la presenza in Parlamento del cartello di Democrazia Proletaria
(comprendente i principali gruppi residui della ventata sessantottesca e del
dissenso comunista: Pdup, AO, MLS, Lotta Continua) e del Partito Radicale
arrivato per un soffio alla meta dei 4 seggi. Nelle
settimane successive il dibattito risultò soffocato dalla prospettiva
dell'incontro tra DC e PCI. A differenza del 1975 non si raccolsero segnali
d'alternativa, anzi dall'area laico - socialista partì in allora un movimento
verso quel terzaforzismo che alla fine sarebbe sfociato nel pentapartito: fu
allora che il sistema dei partiti a integrazione di massa cominciò ad
incrinarsi mentre l'idea del "governo della sinistra" presentata (con
forti differenziazioni interne) dal Pdup all'interno del cartello di DP risultò
elaborata in misura del tutto insufficiente. L'esito di quella stagione fu un
monocolore democristiano guidato da Andreotti con alle spalle l'ombra pesante
della massoneria segreta e con l'astensione di tutti gli altri partiti, tranne
il MSI (che aveva mantenuto una quota superiore ai 2 milioni di voti e che
sarebbe stato poi sottoposto a una duplice pressione: golpista e stragista da
destra e andreottiana per un ingresso nell'area di governo che avrebbe poi
provocato l'effimera scissione di Democrazia Nazionale), DP e PR.
Ben prima del
rapimento e dell'uccisione di Moro il "compromesso storico" era stato
così declinato in una forma spuria di "solidarietà nazionale" al di
là della quale non si intravedeva alcuna ipotesi alternativa: si inaugurò la
politica economica dei "due tempi" adottata dal sindacato con la
cosiddetta "Linea dell'EUR" e anche verso il fermento portato avanti
dagli Enti Locali il governo rispose con un decreto di austerità firmato dal
ministro Stammati (iscritto alla P2). Sicuramente
furono realizzati alcuni importanti punti di riforma: equo canone, servizio
sanitario nazionale, legge 285 sulla disoccupazione, la legge 194 sull'aborto
che registrò il formarsi di una maggioranza di sinistra e laica convergendo
PSI, PLI, PSDI, PCI, PRI, PR e Pdup ma si trattò di un episodio isolato, pur
molto importante senza che si prefigurasse una possibile ipotesi di governo
alternativo. È nota a tutti la situazione che
si verificò al momento del rapimento Moro, avvenuto in un momento di
particolare irrigidimento della situazione internazionale: il PCI e il PSI si
apprestavano a entrare nella maggioranza che sosteneva il monocolore Andreotti
superando il quadro delle "astensioni" ma la DC aveva già replicato
conservando intatto il quadro dei ministri in carica senza fornire alcun
segnale di apertura; al momento della strage di via Fani il PCI stava per
dichiarare il proprio distacco dalla maggioranza ma il precipitare della
situazione costrinse i dirigenti comunisti e quelli socialisti a votare la
fiducia.
Il sistema imperniato
sui grandi partiti di massa si era però già incrinato al di là dell'esito
drammatico dei 55 giorni che seguirono, nel corso dei quali si determinò una
"faglia" politica di grande importanza per gli anni a venire: quella
tra "fermezza" e "trattativa" attraverso la quale il nuovo
segretario del PSI Craxi introdusse una dinamica sistemica affatto diversa da
quella precedente. A ricostruire un
disegno di equilibrio non servì neppure l'elezione di Pertini, principale
riferimento morale del "partito della fermezza", a Presidente della
Repubblica. Concludo con alcune cifre che
dimostrarono subito che quella crisi verticale era iniziata e procedeva
spedita.
L'11 giugno 1978 si
svolsero due referendum abrogativi, promossi dal PR, riguardanti le leggi speciali
di ordine pubblico varate a suo tempo dal ministro repubblicano della giustizia
Oronzo Reale e la legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvata nel
1974 per fronteggiare lo scandalo dei petroli scoperto dai "pretori
d'assalto" di Genova (Sansa, Almerighi, Brusco) e voluta soprattutto dal
segretario repubblicano La Malfa.
Per entrambi i
quesiti la stragrande maggioranza delle forze politiche aveva chiesto a
elettrici ed elettori di votare No allo scopo di mantenere inalterato il quadro
legislativo esistente. Prima di tutto si
registrò un forte calo nell'afflusso alle urne: andarono al voto poco meno di
33.500.000 unità, con una flessione di circa 7.000.000 di elettrici ed elettori
rispetto al 20 giugno 1976 con una percentuale complessiva dell'81,19%. Si
tenga conto che nell'occasione del referendum sul divorzio del 1974 la
percentuale dei votanti era stata dell'87,72%. In
secondo luogo si registrò una fortissima disaffezione rispetto all'indicazione
del voto data dai maggiori partiti. Nel computo
dei voti riguardanti il referendum sulle leggi di ordine pubblico ben 7.400.619
votanti si pronunciarono per l'abrogazione della legge mentre soltanto il
cartello di DP e il PR si erano pronunciati in quella direzione (cioè più o
meno 1.000.000 di voti raccolti il 20 giugno 1976). Ancor più netto il presentarsi di una vasta area contraria
al finanziamento pubblico per il quale era favorevole l'intera area della
maggioranza salvo il PLI: la legge si salvò a stento perché ben 13,691.900
elettrici ed elettori si pronunciarono per la sua abolizione.
Segnali di crisi del
sistema si erano già avuti nel corso di alcune tornate amministrative svolte
tra il 1977 e il 1978 (celebre quella di Castellamare di Stabia: l'esito di
quelle elezioni amministrative determinò il coniarsi del termine giornalistico
"sindrome di Castellamare" per indicare, con preciso riferimento al
PCI, l'espandersi nel partito di una quasi rassegnata convinzione negativa
circa l'esito elettorale della fase di solidarietà nazionale: nel caso, infatti,
sembrava essersi davvero esaurita una "spinta propulsiva").
Si era avviata così
la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in
"antipolitica" nel corso della cui fase di espansione si svilupparono
via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della
volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della
crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in "partiti
pigliatutto" poi in partiti "azienda" o "personali"
fino all'approdo alla democrazia recitativa all'interno delle cui coordinate ci
stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza
politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento
(inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all'esecutivo e
al condizionamento del peso delle lobbies mentre si è radicalmente modificato
il fenomeno della cessione di sovranità dello "Stato - Nazione". Al frantumarsi della società in isole corporative e
nell'egemonia assunta dal fenomeno dell'individualismo competitivo i nuovi
partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno
risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose
per la democrazia come quelle rappresentate dalla riforma costituzionale per
fortuna bocciata dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016 e quelle delle vere e
proprie "avventure dell'effimero" rappresentate dalla meteore M5S e
Lega nella versione Salvini . Il fenomeno del
populismo senza principi ha attraversato e sta ancora attraversando l'intero
arco istituzionale causando danni all'apparenza irreversibili. Naturalmente al formarsi di questo stato di cose hanno
concorso una molteplicità di fattori che in questa sede l'economia del discorso
non ci consente di analizzare in profondità e che, comunque, sono stati e sono
oggetto di studi approfonditi espressi in una quantità di pubblicazioni cui si
può utilmente rimandare.
Lo scopo di questa
nota era soltanto quella di ricordare la ricorrenza ciclica di quei mesi di
giugno: quello del 1975, del 1976 e anche quello del 1978.
Un arco di tempo in
cui si consumò la storia dell'egemonia dei grandi partiti di massa che in
Italia aveva avviato il suo percorso con la fase post-resistenziale (durante la
quale era stata stritolata, con la sconfitta del Partito d'Azione, l'idea di
una forma politica "d'opinione" che avrebbe potuto essere espressa da
quella che poi sarebbe stata definita "borghesia riflessiva" e che in
quel momento fu risucchiata a destra dalla retorica anticomunista) e l'esito
delle elezioni per l'Assemblea costituente del 2 giugno 1946, quando i tre
grandi partiti (DC, PSIUP, PCI) avevano raggiunto oltre il 70% dei voti validi,
mentre la partecipazione aveva sfiorato il 90% (89,08%) dimostrando un fortissimo
radicamento sociale che poi il PCI avrebbe condotto a suo vantaggio nel
riequilibrio tra i due partiti PCI e PSI
verificatosi con la formazione del Fronte Popolare sconfitto dalla DC il 18
aprile 1948.
A CAPODISTRIA
Il 24 Giugno contro il riarmo e la guerra.
Il 24 giugno, in
Slovenia, è stata lanciata una giornata di mobilitazione nazionale contro il riarmo e la guerra
imperialista, che riguardano tutti i
paesi europei, a causa delle politiche belliciste di Nato e Ue. Facciamo appello agli antimilitaristi e
alle antimilitariste triestine a
partecipare alla manifestazione convocata alle 18.00 a Capodistria in Piazza Tito, per dare sostegno ad una
mobilitazione che condividiamo assolutamente,
visto anche l'ulteriore precipitare della situazione
globale con l'aggressione sionista all'Iran. Ci troveremo alle 17.00 in Piazza Oberdan, a Trieste, per
raggiungere assieme Capodistria. Chi
vuole unirsi a noi può scriverci all'indirizzo mail: nogreenpasstrieste@riseup.net
CASA CRESCENZAGO BENE COMUNE
Il Palazzo ex Comune di
Crescenzago ritorna proprietà pubblica in quanto bene storico-artistico e per
la sua funzione sociale culturale e civile (Delibera della Giunta del Comune di
Milano, n. 703/12 Giugno 2025).
Risultato positivo, raggiunto dopo 17 anni di
lotta e di resistenza delle Associazioni ANPI, Corpo Musicale, Legambiente e
Casa Crescenzago, col sostegno della cittadinanza attiva, in difesa dei Beni
Pubblici e Comuni e degli spazi di democrazia partecipativa.
Domenica 22 Giugno 2025, h. 10.30 si festeggia con un concerto
della Banda musicale di Crescenzago in Piazza Costantino con aperitivo e
sorpresa artistico-musicale. “Odissea” è sempre stata a fianco di questa
doverosa e importante battaglia.
venerdì 20 giugno 2025
GUTTA CAVAT
LAPIDEM
di Romano Rinaldi
“Odissea”
formula al prof. Rinaldi gli auguri più affettuosi per una totale e rapida
guarigione per averlo con noi più vitale e battagliero di prima.
Da
due settimane questo è il panorama che vedo al risveglio ogni mattina. Mentre
osservo la terapia sgocciolare lentamente nelle mie vene mi si riaffaccia
questo motto, sepolto dal tempo del Liceo, dai molti significati per la mia
presente condizione e non solo. Come
primo pensiero c’è l’auspicio che quell’insistente sgocciolio riesca a
penetrate la metaforica parete di pietra che al momento mi separa dalla
condizione di salute e relativo benessere di cui godevo solo pochi giorni fa.
Il secondo significato, meno ottimistico, fa parte dell’eterna e onnipresente
dualità bene/male (giorno/notte, luce/buio, bianco/nero, paradiso/inferno,
Yin/Yang - Tao, ecc.) e la possibilità che la condizione, lasciata a sé stessa,
possa far avanzare la perfida natura del male che a poco a poco può prevalere
sul bene. Qui sta in effetti il significato della Medicina nel suo complesso,
con la ricerca di un equilibrio tra le due tendenze e il flusso ondivago che le
anima ben evidente tutto intorno a me, in questo luogo di sofferenza e di cura. Un terzo significato è del tutto personale
ed inerente la mia professione di esperto di minerali e rocce, di cui ho
studiato l’intima composizione chimica e le proprietà fisiche fino nei più
reconditi dettagli della struttura atomica che li caratterizza. Ecco che, a
quel livello, è ben evidente la forza messa in atto dall’apparentemente
insignificante goccia d’acqua, tuttavia dotata dell’enorme potere solvente
conferitole dalla polarità della sua molecola, unito alla forza di gravità che
imprime alla goccia un potere di penetrazione altrettanto efficace, pur se nell’arco
di un congruo intervallo temporale. A
proposito del male, inteso nel senso di dolore fisico, un recente episodio di
mancamento causato dal dolore fisico, mi ha offerto l’opportunità di ottenerne
un’esperienza quasi mistica con bellissime sensazioni di pace e beatitudine,
durante il seppur brevissimo intervallo di “incoscienza”; allorché tutto il
sistema va in protezione e il cervello non percepisce né impartisce più i
segnali da e per la periferia. A parte le logiche considerazioni sulla
meraviglia della fisiologia umana, quella breve ma intensa esperienza onirica è
stata indimenticabile, oltre che dal punto di vista personale, per i risvolti
storico-culturali, escatologici, di costume e del pensiero religioso.
In
sostanza, la sensazione di estremo benessere dovuta alla totale assenza di
stimoli in entrata e in uscita mi ha offerto un seppur brevissimo affaccio su
ciò che a seconda dell’ambito culturale, può essere considerato estasi mistica,
nirvana o comunque si voglia chiamare una condizione di beatitudine terrena.
Qualcosa di simile a una piccola finestra su ciò che la nostra mente neuronale
può percepire come l’aldilà, dove la presenza dell’individuo è sentita con
estremo piacere e sollevazione da tutto quanto può esistere di negativo in noi
e intorno a noi. Volendo
riportare quanto detto finora all’attualità che sta là fuori, lascio la miriade
di considerazioni all’immaginazione dell’attento lettore.
Per
parte mia vorrei proporne una soltanto, sullo stato evolutivo del nostro
cervello e in generale della specie umana. L’attuale stato di belligeranza che
va diffondendosi sul nostro bellissimo e unico pianeta di cui possiamo
disporre, imporrebbe a tutta l’umanità un uso conforme alla sofisticata e
complessa natura del cervello umano come è venuto ad evolversi almeno nell’arco
dell’ultima decina di migliaia di anni. Viceversa, l’affermazione di movimenti
di massa animati dall’egoismo di posizioni individualiste a livello personale e
sovraniste a livello nazionale, porta allo scontro armato e alla logica della
sopraffazione del più debole con la pretesa della salvaguardia dei propri
diritti. Tutta roba da tribù ultra primitive. Alla faccia dei diritti
fondamentali dell’Uomo, del diritto internazionale e del sacrosanto diritto all’autodeterminazione
dei popoli.
SCENARI DI GUERRA
di Maurizio Vezzosi
Israele contro Iran. O Stati Uniti contro Iran?
La cronaca
d’Oltreoceano e del Vicino Oriente fa apparire almeno possibile il
coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella guerra contro l’Iran: un
coinvolgimento che costituirebbe il contrario di quanto affermato per anni da
Donald Trump riguardo il ruolo di Washington nella regione. Mentre tutto il
personale militare statunitense di stanza nell’area del golfo si trova in stato
di massima allerta, il blocco di potere trumpiano sta facendo i conti condefezioni
illustri, ma soprattutto con quella che sembra la mancanza di una vera visione
politica degli Stati Uniti e del loro ruolo globale. È improbabile che Benjamin
Netanyahu abbia imboccato la strada della guerra aperta contro Teheran senza
essere certo di un rapido intervento degli Stati Uniti. Ogni giorno che passa i
margini dell’autonomia israeliana si riducono, erodendo soprattutto la sua
capacità difensiva. I calcoli di Benjamin Netanyahu potrebbero quindi anche
rivelarsi errati. Scommettendo sulla sollevazione dei curdi iraniani, dei
nazionalisti del Balocistan, di una parte della popolazione e sull’opposizione
in esilio. Israele sta compiendo ogni sforzo per distruggere l’Iran:
distruggerlo come entità statuale, non semplicemente riducendo la sua capacità
nucleare o forzando un ipotetico cambio di regime. Tutti gli attori in campo
sanno che Israele non potrebbe resistere a lungo ad una tale pressione senza il
sostegno di Washington, Benjamin Netanyahu in primis. Israele non è riuscito a
sconfiggere la resistenza palestinese a Gaza ed in Cisgiordania, nonostante
oltre un anno e mezzo di guerra di annientamento, né quella yemenita, Pur
infliggendo duri colpi all’Iran, Israele ha confermato di non poter sostenere
uno scontro aperto qualora questo dovesse dilatarsi nel tempo. Sei giorni di
attacchi missilistici, sono stati sufficienti a palesarlo. Il Pakistan,
peraltro, ha già dichiarato la propria disponibilità a fornire armi nucleari
all’Iran qualora fosse necessario.
La proposta russa, messa sul tavolo da
Vladimir Putin al forum economico di San Pietroburgo, costituisce per il
momento l’unica possibile soluzione politica allo scontro tra Tel Aviv e
Teheran: in questa ipotesi, l’eventuale ruolo di Mosca garantirebbe la
sicurezza nucleare di entrambi i paesi. L’atteggiamento russo potrebbe
radicalmente cambiare qualora una possibile mediazione tra le parti non dovesse
funzionare. Un attacco all’Iran può essere interpretato come un attacco al
ruolo russo e cinese nel Vicino oriente e nell’Asia Centrale. L’Iran è tra i
principali fornitori energetici di Pechino, insieme al confinante Turkmenistan.
È improbabile, dunque, che Mosca e Pechino accettino passivamente un eventuale
crollo di Teheran. Al netto di alcune difficoltà, sia Mosca che Pechino
potrebbero approfittare di un eventuale attacco statunitense per aumentare la
propria pressione militare in Ucraina e su Taiwan. Ma le conseguenze negative
per gli Stati Uniti e per i paesi europei potrebbero essere molto più ampie. L’Iran
potrebbe reagire attaccando direttamente le basi e le portaerei statunitensi nell’area
del Golfo, oltre a tentare di un blocco sullo stretto di Hormuz e sul quello di
Bab el-Mandeb. Uno scontro diretto tra Stati Uniti ed Iran avrebbe conseguenze
potenzialmente devastanti per l’economia globale. Oltre ai rischi di carattere
militare, il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i suoi massimi storici. A
questo proposito, vale la pena ricordare come la rivoluzione iraniana del 1979
abbia innescato la seconda crisi petrolifera più grave dopo quella del 1973.
Una nuova fase, ancora più pericolosa, della guerra mondiale combattuta a
pezzi.
MEDITARE E DISCUTERE
di Alfonso Gianni
Come
impedire che l’astensione distrugga i referendum.
Il netto insuccesso della prova
referendaria di giugno su tematiche della massima importanza come il lavoro e
la cittadinanza ci costringe - ed è indispensabile che ciò avvenga - a
considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società
civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Questa risulta
particolarmente sottolineata constatando la distanza considerevole che ha
separato i Sì al primo dei quattro quesiti sul lavoro (quello relativo alla
reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo anche per
chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015) da quello sulla cittadinanza. I
numeri parlano chiaro: il primo quesito, il più votato tra quelli sul lavoro, ha
raggiunto 13.310.443 voti (comprendendo anche quelli provenienti dall’estero),
mentre quello sulla cittadinanza (sempre con i voti esteri) si è fermato a 9.748.806.
Nella provincia di Bolzano, ove si è votato di meno che nel resto d’Italia, il
No al dimezzamento degli anni d’attesa per conseguire la cittadinanza ha addirittura
superato i Sì con il 52% dei voti. Vi è
chi attribuisce la differenza di quasi tre milioni e mezzo di voti interamente
ai 5stelle lasciati liberi da indicazioni di voto, ma probabilmente le ragioni
di una simile diversità sono più complesse e profonde. Gli studi offerti da
vari centri sondaggistici (mi pare interessante quello fatto sulla città di
Torino) aiutano certamente alla comprensione dell’esito del voto, ma dovrebbero
e potrebbero essere accompagnati - ecco un’occasione da non perdere - da un
lavoro d’inchiesta, che permetterebbe, venendo a contato diretto con la
popolazione, di registrarne finalmente l’effettivo punto di vista, anziché
dedurlo da presunte corrispondenze meccanicistiche tra voto referendario e
scelta politica.
Naturalmente è giusto sottolineare anche alcuni aspetti
specifici che hanno influito negativamente sull’andamento del voto. Tra questi
va considerata senza dubbio la arbitraria cancellazione del referendum
sull’autonomia differenziata operata dalla Consulta sulla base di motivazioni
che sfidano prima ancora la logica più che il diritto. La richiesta di
abrogazione totale della legge Calderoli avrebbe costituito un traino ideale
per portare alle urne i cittadini, favorendo così, anche se certamente di per
sé non garantendo, il voto sugli altri quesiti referendari. Certo la
controprova non c’è, ma gli indizi a nostra disposizione ci portano a credere
che la presenza del quesito contro la legge Calderoli avrebbe potuto
raggiungere e superare il quorum per la sua dimostrata capacità di penetrazione
anche in ambiti elettorali legati alle destre specialmente nel Mezzogiorno. In ogni caso questa vicenda dimostra la
necessità, modificando la legge 352/1970 che la verifica di costituzionalità
dei quesiti avvenga prima e non dopo la raccolta delle firme evitando almeno di
mortificare la volontà espressa, in questo caso, da quasi un milione e 300mila
cittadine e cittadini.
È giusto anche sottoporre a critica il modo con cui
soprattutto le forze politiche sostenitrici del Sì hanno condotto la campagna
elettorale. L’avere messo a un certo punto in primo piano le possibili
conseguenze politiche del voto referendario (tutte peraltro da dimostrare), addirittura
evocando lo sfratto al governo Meloni, ha più che altro nuociuto all’esito della
prova favorendo la chiamata all’astensione. Peraltro questa non è neppure stata
contrastata a dovere, visto che è stata evocata da figure istituzionali le cui
funzioni andrebbero adempiute “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.). Non
solo ma la legislazione ancora vigente, derivante dal Testo unico sulle leggi
elettorali del 1948, la cui validità sul punto specifico è stata ribadita anche
per le campagne referendarie dalla legge 352/1970, ribadisce che atti e parole
che inducono all’astensione, a differenza del comune cittadino, sono
perseguibili con previsione delle pene comminabili.
La Cgil, per bocca del suo segretario generale, ha giustamente
ribadito di essersi mantenuta ben lontana da questo scivolamento dell’asse
tematico e finalistico che di per sé è da considerarsi estraneo alla stessa ratio del confronto referendario. Ma
anche il maggiore sindacato italiano ha delle domande da porsi e delle
riflessioni da fare. La novità, giustamente sottolineata, del ricorso
all’istituto referendario da parte del sindacato in prima persona, è risultata
insufficiente per la rivitalizzazione dell’organizzazione e la sua
trasformazione in un sindacato di strada, un obiettivo per il cui
raggiungimento è ineludibile l’essere sindacato nel senso più pieno e forte
della parola, facendo i conti con le modificazioni intervenute nelle condizioni
e nei rapporti di lavoro. Ma la sconfitta va persino al di là di questi ambiti,
e ci induce a riflettere su l’istituto stesso del referendum abrogativo, cioè
dell’unica forma nella quale si esprime pienamente la democrazia diretta come
previsto dalla Costituzione. Data la direzione che le classi dirigenti hanno
preso - non solo nel nostro paese - di sancire la rottura del rapporto fra
capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è
decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un
No producano un effettivo ed immediato cambiamento. È dal 2011, dai referendum
vincenti sull’acqua e sul nucleare (i cui esiti sono stati a lungo boicottati e
che ora le destre cercano di capovolgere) che il quorum non viene raggiunto.
Per di più entro un quadro di astensionismo crescente anche nelle consultazioni
politiche: nelle ultime europee ha votato la minoranza degli aventi diritto.
Il
referendum di giugno ha cozzato contro un muro di silenzio elevato
in nome dell’astensione che è stata contrabbandata come un diritto al pari di
quello del voto. Non lo è. Perché il secondo è un dovere civico. Non vi è da
stupirsi visto che la scelta dell’astensione è stata fatta in passato anche
dalle forze del centrosinistra, e suoi esponenti autorevoli posti in
collocazioni apicali delle istituzioni, come Giorgio Napolitano, avevano
concesso all’astensione l’imprimatur della legittimità. Quindi la recente prova
ribadisce che il principale nemico del referendum abrogativo è l’astensione.
Ovvero il referendum è costretto a una gara impari in partenza, anche perché
alla crescente astensione - che molti definiscono cronica - si aggiunge quella
scelta e organizzata nelle specifiche prove.
Lo riconosceva anche un
organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione di Venezia, fin dal
2006, quando scriveva che il rifugiarsi nell’astensione «non è sensato per la
democrazia». Se si vuole salvare il referendum e non assistere immobili al suo
boicottaggio, serve una riforma - necessariamente costituzionale trattandosi di
modificare il 4° comma dell’art. 75 Cost. - dell’istituto referendario che non
può che prendere di mira il ricorso all’astensione. Non penso sia opportuna la
cancellazione totale di ogni quorum, che indebolirebbe proprio la forza di
espressione della sovranità popolare, che è l’anima del referendum e che si
esprime anche attraverso la partecipazione di una consistente massa critica di
cittadini. Né bisogna inventarsi parziali quanto opinabili riduzioni dell’attuale
quorum. Non trovo convincente il cosiddetto “quorum mobile” per cui gli aventi
diritto al voto coinciderebbero con i votanti nelle ultime elezioni politiche,
perché stabilirebbe un nesso assai poco virtuoso fra voto sulla rappresentanza
politica e quello su specifiche questioni dotate di una potenziale
trasversalità, oltre a dare per strutturale l’aumento dell’astensione nelle
votazioni politiche.
Si può invece capovolgere il criterio su cui viene calcolato
il quorum, ricorrendo semplicemente ad una soglia di voti positivi a favore
della proposta referendaria. Il meccanismo è semplice, basta partire
dall’attuale situazione. Secondo l’art.5 Cost “la proposta soggetta a
referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli
aventi diritto al voto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente
espressi.” Bene. Partiamo dal caso limite. Se nella votazione ha partecipato il
50% più uno degli aventi diritto, la soglia di sicurezza per la vittoria del
Sì, cioè della proposta referendaria, è costituita dal superamento della metà
di quel voto, cioè il raggiungimento del 25% più uno degli aventi diritto. Se
si toglie, come propongo, il quorum rappresentato dalla maggioranza della
partecipazione al voto degli aventi diritto, resterebbe quest’ultima soglia,
quella del 25% più uno l’unica da raggiungere e meglio ancora superare, per
dichiarare valida la consultazione e approvata la proposta referendaria. A
questo punto il ricorso all’astensione diventerebbe un puro suicidio perché
anche se raggiungesse il 75% meno uno perderebbe comunque. Quindi il Sì e il No
si troverebbero a fronteggiarsi in aperta e democratica contesa. In questo modo
si tornerebbe a dare valore al referendum abrogativo che i padri costituenti,
dopo non semplice discussione, gli avevano dato: quello della possibilità dei
cittadini di correggere o cancellare direttamente una decisione sbagliata o
ingiusta assunta dal Parlamento, attraverso il voto su una richiesta referendaria,
filtrata attraverso il parere della Corte di cassazione e, preventivamente alla
raccolta delle firme come sarebbe più logico, della Consulta. Si salverebbe
così l’unico strumento di democrazia diretta previsto in Costituzione dallo
strangolamento operato dall’astensione voluta da quelle stesse forze che, in
base ad una maggioranza parlamentare che è tale solo per una legge elettorale
truffaldina, hanno votato quelle leggi.
giovedì 19 giugno 2025
ESCALATION: VA SEMPRE PEGGIO
Il cancelliere Merz, il più idiota dei super-idioti europei, ha almeno il merito di
dire quello che pensa: noi stiamo con Israele non solo per mettere la parola
fine al programma nucleare iraniano, ma per bloccare l’esportazione del
terrorismo da parte di Teheran. Il discorso viene completato e ripulito degli
evidenti equivoci dalla neonazi Kallas che prima si nasconde dietro alla de-escalation
- una parola che serve per confondere le acque e le responsabilità,
ossia per non criticare Israele; la legge internazionale, vedi il
post di El Baradei, già direttore dell’IAEA, va richiamata solo quando serve -
poi, in risposta a una domanda, chiarisce cosa si intende per terrorismo: il
sostegno alla Russia in Ucraina. L’appoggio a Israele contro l’Iran fa dunque
parte della guerra europea alla Russia - indebolendo l’uno si indebolisce
l’altra. Ai super-idioti va almeno riconosciuto di avere delle priorità, e
di perseguirle - detto per inciso, tra queste priorità non ci sono i
palestinesi. Fonte Bloomberg, Merz, lunedì, aveva anche previsto - previsione da
super-idiota - che entro la mezzanotte di ieri Trump avrebbe deciso l’attacco
all’Iran. Un’altra notizia di Bloomberg - una vera bomba - è l’affermazione
dello stesso Trump che le sanzioni danneggiano l’America! Sulla decisione
del presidente americano probabilmente grava ancora l’incertezza, però
possiamo essere certi che al suo posto una Kamala Harris, tanto per
fare un nome, avrebbe già dato il via alle ostilità. In attesa della
conclusione del processo decisionale, vanno notate le prime incertezze
del mainstream. France 24 si chiede: ma qual è il vero
obiettivo di Israele? Il “regime change” a Teheran è realistico? È però il WP a
mettere il dito nella piaga: le difese antiaeree israeliane sono inadeguate,
costose e sufficienti solo per una guerra che non duri più di due settimane.
Sulla stessa linea è Bhadrakumar che cita fonti russe. [Franco Continolo]
Il
Cancelliere Friedrich Merz afferma di aver parlato con il governo degli Stati
Uniti di un possibile intervento militare nella guerra tra Israele e Iran. Ha
anche elogiato i successi dell’esercito israeliano. Secondo il Cancelliere
Friedrich Merz (CDU), il governo degli Stati Uniti sta valutando un intervento
militare nella guerra tra Israele e Iran. “Ne abbiamo discusso, ma ovviamente
non c’è ancora una decisione da parte del governo degli Stati Uniti”, ha
dichiarato Merz a margine del vertice del G7 in Canada, in uno speciale di WELT
Talk con Jan Philipp Burgard, caporedattore del WELT Group. “Ora dipende molto
da quando il regime dei mullah sarà disposto a tornare al tavolo delle trattative.
In caso contrario, potrebbero esserci ulteriori sviluppi. Ma dovremo aspettare
e vedere. Le decisioni saranno probabilmente prese nel prossimo futuro”. Merz
ha anche sottolineato i successi dell’esercito israeliano. Israele ha distrutto
“con grande successo” le strutture del programma nucleare iraniano. Oggi, si
potrebbe probabilmente dire: non ci sono armi nucleari in Iran. Ci sarà ancora “lo
stesso livello di finanziamento e sostegno al terrorismo globale da parte di
questo Paese”. Il regime dei mullah è “molto indebolito” e probabilmente non
tornerà alla sua precedente forza, ha affermato Merz. “Non tornerà a essere com’era
fino a giovedì scorso”. L’esercito israeliano ha dimostrato le sue capacità
negli ultimi giorni. Il futuro dell’Iran è incerto. “Noi europei ci siamo
offerti di fornire tutta l’assistenza diplomatica. Se, ad esempio, ci fosse una
ripresa dei colloqui diplomatici, saremmo pronti a partecipare”, ha affermato
Merz. Nell’intervista, il Cancelliere ha anche contraddetto il Presidente degli
Stati Uniti, che all’inizio del vertice aveva definito un grave errore l’esclusione
del Presidente russo Vladimir Putin dal formato. “Continuo a credere che l’esclusione
di Putin dal formato G8, come si chiamava all’epoca, dopo l’annessione della
Crimea, sia stata corretta”, ha sottolineato Merz. “Non siamo qui seduti in
questo formato con signori della guerra o criminali di guerra. Ed è per questo
che rimane il fatto che Putin non ha posto a questo tavolo”.
(Trad. di Google)
GUERRA E MODERNITÀ
di
Franco Astengo
La
guerra sembra riaffacciarsi sullo scenario geopolitico come una prospettiva
“globale”.
I conflitti in corso in particolare quelli in
Ucraina, Iraq e Siria e lo spostamento d’asse nei principali equilibri
internazionali hanno fatto riprendere consistenza all’ipotesi di un conflitto
generalizzato di dimensioni planetarie che veda di fronte gli Stati Uniti e la
coalizione occidentale (comprensiva del Giappone che, com’è noto
geograficamente, si colloca nell’Estremo Oriente) e la Russia alla quale si sta
accostando la Cina. Si tratterebbe di una deflagrazione a intensità altissima,
quasi insopportabile per l’intera umanità: un rischio da scongiurare
assolutamente ma che appare verosimile perché hanno ormai perso di forza e di
autorevolezza quegli organismi internazionali che durante l’epoca del
bipolarismo” atomico” Usa/Urss (1948-1991) avevano bene o male garantito la
mediazione necessaria e l’insorgere, conclusa anche la fase della sola
superpotenza, di una molteplicità apparente di conflitti dalle diverse
motivazioni (compresa quella dello “scontro di civiltà, tra Occidente e Islam
fondamentalista) della possibilità di una risoluzione del “contenzioso” (in
particolare dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici) attraverso
una guerra di tipo generale. Soprattutto però è cambiato il concetto di
“guerra” dal punto di vista della concezione della “modernità” e della
possibilità di giustificare storicamente, e anche dal punto di vista
filosofico, l’evento bellico.
La fase
che stiamo attraversando appare proprio quella del superamento del ruolo degli
USA a disporre da soli dello “ius ad bellum”: in questo periodo la guerra è
rientrata in circolazione come moneta sonante del pagamento dell’azione
politica anche nell’area europea, sia a livelli sub-statuali (quella definita
come “terrorismo”) intrecciati a livelli sovra-statuali (appunto il già citato
“scontro di civiltà”). In questo quadro, contraddistinto proprio dall’unicità
di presenza di una sola superpotenza, quella statunitense e a fronte della già
ricordata palese obsolescenza del sistema di legalità internazionale fondato
sull’ONU, si era ricorsi ad un uso “normalizzante” della guerra: quella
“asimmetrica” contro il cosiddetto terrorismo, quella “umanitaria” che
oltrepassava il principio di non ingerenza; quella “preventiva” che andava
oltre il divieto della guerra d’aggressione, fino alla guerra “per la
democrazia” che si fondava sull’ipotesi che vi fossero nessi cogenti fra la
qualità interna di un ordine politico e la sua propensione alla guerra, e che
in un mondo democratizzato” all’occidentale” le guerre sarebbero state
impossibili. Dal cappello dell’apprendista stregone di questi concetti sono
sorti, non tanto improvvisi, mostri dalle diverse teste: i Talebani in
Afghanistan, il Califfato del Levante e quello della Nigeria, tanto per fare
degli esempi concreti oltre alle nuove dittature islamiche e/o militari in
Egitto, Tunisia, Algeria e il dissolvimento d’intere unità statuali, dall’Iraq
alla Libia dalla Somalia all’Eritrea al Sud Sudan. Sono ormai saltati quei
principi che la teoria e la filosofia politica avevano ricercato per creare le
condizioni e le modalità di una possibile “guerra giusta” (un ideale inseguito
fin dalla prima filosofia cristiana in Agostino e poi nella Scolastica da
Tommaso): limiti dell’ingerenza in difesa dei diritti umani; proporzione degli
atti di guerra rispetto alle offese da riparare; problema della liceità delle
armi di distruzione di massa.
La
scienza politica aveva affrontato, da parte sua, il problema attraverso i
metodi e le categorie dell’idealismo e del realismo, attraverso le nozioni di
equilibrio e di egemonia. Oggi tutta questa impalcatura teorica e ideologica
sembra saltata e siamo alla guerra globale dove è saltata la distinzione fra
guerra e terrorismo, tra civili e militari, fra Stati e gruppi armati
“privati”.
La scena
internazionale appare così percorsa da innumerevoli conflitti di vario livello
e diversa intensità, con base su sfondi apparenti anche diversi da quelli di
tipo economico come quelli religiosi o identitari. Quale migliore occasione
allora per “ripristinare l’ordine” per via bellica da parte di chi intende
affermare un nuovo multipolarismo concepito in modo tale da usarne i meccanismi
per puntare al recupero del bipolarismo presentandosi come il propugnatore di
un diverso equilibrio rispetto a quello imperniato su di una sola superpotenza?
Potrebbe
esser questo il tema all’ordine del giorno nei prossimi mesi, attorno al quale
riflettere soprattutto da parte di chi sa benissimo che non è proprio il caso
di cadere nella trappola dello “scontro di civiltà” e che la logica dominante
rimane quella dello sfruttamento dell’uomo e del pianeta e che in gioco c’è
proprio la libertà di poter disporre a proprio piacimento della facoltà di
sfruttare al massimo dell’intensità senza tener conto della necessità di un
equilibrio riguardante la presenza (ormai a rischio) del genere umano sul
pianeta.
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