UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 3 febbraio 2025

IL PARTITO DELLA NAZIONE
di Franco Astengo



Arianna Meloni: “Siamo il partito della nazione”.
 
Al di là delle ragioni motivazionali rivolte alla propria squadra che possono risultare anche comprensibili questa frase merita un approfondimento senza il quale si lascia intatta tutta la sua - pericolosa - valenza enfatica. Prima di tutto l’idea di autoproclamarsi “partito della nazione” si scontra contro una crisi costante del sistema dei partiti e di trasformazione di natura stessa del partito politico che appare assolutamente evidente. Verifichiamo prima di tutto il piano del consenso elettorale: gli ultimi dati complessivi in nostro possesso riguardano le elezioni europee 2024 (elezioni europee che rappresentano storicamente il punto di più basso di raccolta del consenso da parte dell'insieme del sistema politico).
Il 9 giugno 2024 su 51.214.348 aventi diritto i voti validi espressi furono 23. 415. 587. Fratelli d’Italia ha conseguito la maggioranza relativa con 6.733.906 voti e le tre forze che formano il governo hanno ottenuto complessivamente 9.079.242: nell’analoga votazione svolta nel 2019 la maggioranza relativa spettò alla Lega con 9.175.208 voti (all’incirca 2.500.000 in più rispetto a FdI 2024: fu quando Salvini chiese i “pieni poteri”) mentre l’insieme del centro destra raccolse 13.252. 990 voti (oltre 4 milioni di voti in più rispetto al 2024) in un quadro generale di partecipazione al voto che aveva visto l’espressione di 26. 783.732 suffragi su 50.974.994 aventi diritto.
Per quel che può valere il dato elettorale appare evidente il calo di consenso complessivo: nel tempo Fratelli d’Italia ha tolto voti agli alleati (in particolare alla Lega) in un quadro di calo complessivo nella raccolta di consenso sia del centro-destra sia del sistema nel suo insieme (un dato questo che dovrebbe preoccupare tutti e nell'occasione tralasciamo le cifre - paurose - del calo accusato dal M5S soggetto trainante dell’anti-politica e assoluto primo fornitore della crescita della disaffezione e della crisi complessiva del sistema). L’altro elemento da prendere in considerazione in uno sviluppo d’analisi è quello della funzione di governo che Fratelli d’Italia esercita in una dimensione fortemente accentrata nella figura della presidente del Consiglio.



Esaminiamo allora alcuni aspetti di questa politica di governo:
1) Sul piano della politica economica la legge di bilancio si situa tranquillamente nell’alveo dell’austerity imposto da Bruxelles e interpretata, attraverso modeste torsioni sul piano fiscale, a favore dei ceti più abbienti e a scapito di “ultimi” e “penultimi” (copyright questo dei “penultimi” del convegno di Orvieto dell’area liberaldemocratica);
2) Sul piano della politica estera le vicende più recenti segnalano una sorta di delega al “nuovo corso” USA cui la presidente del consiglio si è prontamente allineata nel tentativo di interpretare una variazione sostanziale soprattutto nel riguardo dell’UE di cui l'Italia intenderebbe farsi ambasciatrice in un quadro di ripresa nazionalistica (verificheremo cosa ci dirà l’esito delle elezioni tedesche);
3) sul piano degli obiettivi di riforma a livello nazionale, finora si sono mossi gli obiettivi degli altri partner (Lega: autonomia differenziata; Forza Italia: magistratura) che urtano con la tradizione storica del partito di discendenza ideologica di FdI (il MSI) nazionalista e giustizialista (addirittura pro-pena di morte, del resto esercitata con larghezza nel corso della Repubblica Sociale 1943-45). Si è perso per strada l’improbabile premierato, bandiera di partenza della formazione di maggioranza relativa mentre del tutto fallimentare si è dimostrata la politica fin qui perseguita nei confronti del delicato tema dei migranti. Insomma: una politica di governo che parafrasando il motto di un film americano: “tutta chiacchiere e distintivo”. Quanto uscito fuori dalla riunione della Direzione Nazionale di Fdi non può restare senza risposta, una risposta però che - sui contenuti - dovrebbe far riflettere anche le forze di opposizione: infatti ci sono punti che li riguardano direttamente.

 

SALERNO
di Luigi Mazzella 


Luigi Mazzella
 
Sono nato a Salerno e sono stato sempre felice di sentirmi un figlio della Magna Grecia della cui cultura sono molto orgoglioso. Ad essa ho sempre ispirato la mia vita pubblica e privata. Ho sempre pensato che se gli immigrati dal Medio Oriente, ebrei, cristiani e mussulmani, con il loro fantasioso dualismo (un mondo di qua, reale e  concreto, e uno di là, solo immaginato) non avessero contaminato la filosofia monistica, empiristica, sperimentale e razionale dei filosofi sofisti e presocratici dell’era greco-romana e che se il supponente e autoritario Platone non avesse fornito la base per l’ideazione delle due utopie politiche più nefaste e funeste mai sognate ad occhi aperti (il fascismo e il comunismo), oggi la cultura Occidentale non sarebbe caratterizzata dall’assolutismo, dall’intolleranza e dall’autoritarismo camuffato della cosiddetta “democrazia” (termine usurpato). 



Ho sempre avuto una forte antipatia per Platone (nato nella Grecia, “parva” e troppo poco distante da popoli barbari per non conoscerne usi e costumi) creatore supponente e dispotico di una “schola” (l’Accademia) che, imponendo agli allievi di giurare unicamente in verba magistri, ha impedito per secoli ogni progresso e mutamento del pensiero. Di Platone e dei suoi succubi seguaci non mi ha mai convinto un bel nulla: né il mito della caverna né la sua immaginazione dell’“al di là” iperuranico che, a mio giudizio, faceva acqua come una nuvola piena di pioggia.



Il mio ceppo paterno era originario di Procida. Quei miei antenati, trasferitisi in “Continente” si erano assestati a Vitulano nel Beneventano e poi a Eboli, Campagna, altri centri della piana del Sele e Salerno. Mio nonno, Camillo, mi parlava spesso di un cugino, suo omonimo rimasto nel Patriziato di Vitulano e divenuto il primo cardinale gesuita nella storia del Papato. Di questo parente la libreria di nonno Camillo racchiudeva libri voluminosi (oggi in mio possesso) scritti in latino. La famiglia di mia madre era, invece, salernitana tout court e vantava l’esercizio della professione forense a livelli molto alti da diverse generazioni. Grazie al mio amico Vincenzo De Luca, di cui non ho mai condiviso la militanza politica a causa della mia idiosincrasia per ogni assolutismo (religioso o politico, senza alcuna differenza) ma di cui sono stato (e sono) grande estimatore come Sindaco (per diversi mandati) della mia città, ritorno sempre volentieri a Salerno che ha ricevuto una trasformazione urbana che ne ha mutato radicalmente il volto. 



Credo che nessuna città italiana come Salerno possa vantare l’apporto internazionale dei maggiori architetti contemporanei. Il barcellonese Oriol Bohigas ha ridisegnato soprattutto il suo splendido “lungomare”; Ricardo Bofill, anch’egli spagnolo di Barcellona e di madre veneziana, ha firmato il Crescent di piazza della Libertà, costruzione poderosa di grande impatto scenografico che ricalca le linee curve (come quelle della gobba a ponente della “luna crescente”, e prende lo stesso nome dell’edificio esistente a Bath, in Inghilterra; David Chipperfield, inglese, ha progettato la “cittadella giudiziaria” che a dispetto del nome ha un’estensione immensa; a Zaha Hadid si deve la progettazione della Stazione marittima; a Santiago Calatrava quella della Marina d’Arechi (probabilmente, il porto turistico più bello del Mediterraneo. 



Infine, al mio amico fraterno, Paolo Portoghesi, primo di ogni altro suo collega in ordine di tempo, è dovuta la realizzazione della Chiesa della Sacra Famiglia, vero capolavoro dell’architettura contemporanea post-moderna. Naturalmente, vi sono monumenti insigni anche di epoche antecedenti, riportati nei libri di storia dell’arte italiana. I due più famosi sono la Cattedrale dell’XI secolo edificata per volere di Roberto il Guiscardo e del vescovo Alfano I° con un famoso campanile in stile arabo-normanno di notevole altezza e l’Acquedotto medievale eretto, su originalissime (per quei tempi) arcate ogivali, dai Longobardi nel IX secolo. Da non credente ho sempre apprezzato l’equidistanza e l’ironia dei miei antichi concittadini che hanno sempre ammirato, nel Duomo, l’opera di Dio e nell’acquedotto quella di Satana (l’acquedotto è stato battezzato popolarmente “Ponte del Diavolo” perché considerato costruito “con l’aiuto di demoni”).



Salerno, al di là del suo interesse architettonico e della sua bellezza  paesaggistica, è una città considerata, da molti suoi visitatori, civile e ordinata, molto diversa dalla vicina Napoli di cui condivide, con la costiera amalfitana e quella sorrentina, il dialetto ma non la capacità di comporre canzoni di sonora e soave bellezza melodica. È, in altre parole, un centro di vita caratterizzato più dalla razionalità delle scelte dei suoi abitanti che non della loro fantasia creativa. E ciò, forse, perché le influenze subìte dalle due città sono state, nei secoli, diverse. Gli Etruschi aggirarono Napoli e il suo territorio circostante e arrivarono alla piana del Sele e dell’Irno (donde: Salerno). 



In seguito Salerno vide alternarsi sul suo territorio popoli in prevalenza nordici (Normanni, Svevi, Longobardi) dai nomi strani: Arechi, Gisolfo, Ermengarda, Sichelgaita in luogo dei Ciro, Gennaro, Carmela, Concetta del capoluogo napoletano, dominato prevalentemente da Francesi e Spagnoli (il motto “Franza o Spagna purché se magna” sarebbe nato nei vicoli di Forcella). Salerno, come colonia romana, era frequentata da villeggianti amanti del mare, come Orazio.



La mia città vanta primati più in sede scientifica che artistica. Nel Medio Evo divenne nota per la Scuola Medica, di fama europea, particolarmente esperta nella conoscenza e nella cura dei veleni e per i giardini della Minerva. In letteratura, Salerno è citata in tre novelle del Boccaccio, nel Cunto de li Cunti di Basile, nella tragedia Ricciarda di Ugo Foscolo e in un romanzo di Andersen L’improvvisatoreGli scrittori nativi divenuti celebri sono stati Masuccio salernitano che esalta i suoi concittadini e sbertuccia amalfitani e cavaiuoli (deformazione di: cavesi) e tra i contemporanei Alfonso Gatto che nel nome della citta coglie una “rima d’inverno (dolce) e di eterno”. A Salerno ho frequentato il Liceo classico “Torquato Tasso” ma per l’Università ho dovuto recarmi a Napoli negli imponenti edifici, siti sul Rettifilo, della famosa “Federico II”, nota soprattutto per la sua Facoltà di Giurisprudenza. La mia città, infatti, è divenuta sede universitaria solo dopo oltre un decennio dal mio trasferimento a Roma.



Un’ultima annotazione. Come avvocato dello Stato (fino al culmine della carriera con la carica di Avvocato Generale) e, poi, giudice della Corte Costituzionale, oltre che come Ministro per la Funzione Pubblica e capo di gabinetto in molti Ministeri sono vissuto nell’ambiente forense e della pubblica Amministrazione per circa sessanta anni. Orbene, a parte la Corte Costituzionale (costituita successivamente), Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Ministeri hanno avuto, sia pure per breve tempo, sede nella mia città e ho avuto modi di conoscerne esistenza e struttura prima del mio trasferimento a Roma. 



Dal febbraio all’agosto del 1944 Salerno è stata, infatti, la sede del governo italiano, ospitando due Esecutivi Badoglio ed uno Bonomi. Nei libri di Storia si parla pure di “svolta di Salerno”; ma data la sostanziale immobilità dell’Occidente da oltre duemila anni credo che il valore enfatico dell’espressione sia indubbio.

 

domenica 2 febbraio 2025

SCAFFALI
di Elisa Bertoni 


La copertina del libro
 
A noi non accadrà, libro a quattro mani di Mario Zeppolini e Romano Zipolini.
  
Non è facile approcciare un libro di memorie perché si rischia di volerlo inquadrare in modo rigoroso, facendone smarrire l’identità: è storia e se ne può attingere come fosse un documento o è romanzo in cui l’aspetto di una trasfigurazione soggettiva dell’elemento autenticamente biografico traligna dall'oggettività del reale? A rendere ancora più complessa la questione è la presenza, in questo caso specifico, di una coppia di autori, padre e figlio, come se il testo fosse stato scritto a quattro mani, nonostante la pubblicazione avvenga molti anni dopo la morte di uno degli autori, Mario. Inoltre, perché padre e figlio presentano un cognome simile ma diverso? Il libro incuriosisce dunque già in partenza aprendo la porta a svariati interrogativi.
Una chiave per avvicinarsi ad una comprensione più genuina dell’opera la troviamo nelle pagine che precedono la vera e propria narrazione. Si legge nella sezione Cartiglio: “Tutto è meglio della pura verità” (Pierre Sebor, 6.1.86). La dimensione soggettiva insita nella vita di ognuno è ciò che permette di vivere, nel momento in cui la pura verità, se si rivelasse limpida come un’idea platonica nell’iperuranio, nel momento in cui spazza via in modo cinico e brutale l’entusiasmo di un ideale vissuto con autentica passione, alimenterebbe solo rabbia, rinuncia se non disperazione e nichilismo. La memoria anche di fedi che hanno deluso e tradito si impone come esperienza utile per provare a rifocalizzarsi verso obiettivi di speranza e non di morte. Inoltre, vendere “pure verità” può essere la bandiera a cui si attaccano i potenziali dittatori perché il reale sfugge sempre al monopensiero delle tirannidi.
E sempre in Cartiglio, ad apertura: “Quel giorno erano in migliaia, con le loro grida nervose ed il batti mani ritmato, a sovrastare Jimi Hendrix. Invocavano sul palco i Monkees” (8 luglio 1967, Jacksonville-Florida). Perché questa citazione? Di fronte ad una epopea rivoluzionaria della musica come quella incarnata da Jimi Hendrix, il pubblico chiama a gran voce i Monkees, un gruppo che è stato creato per inscatolare commercialmente la canzone sulla scia del successo dei Beatles, tanto che il critico musicale Glen Baker li definì “la prima grande vergogna del rock”. La voce del popolo non è sempre vox dei, secondo il noto motto popolare; in epoca contemporanea la massa subisce costantemente un processo di strumentalizzazione sia nel campo dei consumi che in quello politico sociale ed il messaggio che arriva forte dalle pagine di questo diario è proprio l’occhio a non lasciarsi trascinare da effimere esaltazioni che invece di promuovere il talento/progresso inneggiano all’omologazione/regresso, all’ubbidienza cieca e acritica ad un potere che si proclama forte ed autoritario.



Il libro si può anche considerare una sorta di romanzo di formazione con un finale che tuttavia rimane aperto. L’approdo, dopo la tragica conclusione del conflitto e la dolente percezione dell'inutile spargimento di sangue di tanti civili inermi, si potrebbe sintetizzare in una coppia di versi di Montale: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Lo Stato fascista pur nell’esibita ostentazione della sua forza non è riuscito a proteggere la sua gente per una insufficiente preparazione allo sforzo bellico o, secondo la ribadita opinione di Mario, per il tradimento di comandanti e di reparti, e a quanti sono stati animati da un genuino amor di patria non rimane che un cocente senso di smarrimento e sbandamento. Il vitalismo di matrice dannunziana che aveva animato il giovane Mario incline a gustare la sua vita come fosse un vero e proprio romanzo tra gesti di insubordinazione e l’eroismo della solidarietà, tra atti di coraggio ed avventure amorose molteplici, vissute tutte con intensità, come chi voglia assaporarne ogni sfumatura nella diversità degli incontri, viene barbaramente umiliato dalla storia, frustrato dal disinganno che lascia il marinaio barghigiano incapace di ritrovare in modo non contraddittorio un’altra fede cui donare il cuore. Se si esclude il valore degli affetti e dell’amicizia, specie quella per Ottone suo compatriota e compagno d'armi, che alla fine diventa il fil rouge che dà unità alla storia. Si legga in chiusa al libro “(...) scrutando la realtà del cielo e del mare, dalla mia nave, che ho perduto, sono stato indotto a spingermi incontro alla vastità di tutto quanto non conoscevo, a costruire il sogno della mia vita, che non si è perso nell’orizzonte, perché era celato nel corpo e nell’anima delle persone amate, in cui mi sono specchiato, per provare ad essere diverso da come mi avevano costruito”.  Il sogno miseramente vessato dalla storia si cela nel cuore delle persone amate: questa frase ha il sapore di un testimone che consegna agli affetti, anche al figlio Romano, ed è un impegno a non spegnere la vita e l'entusiasmo per essa attraverso vie diverse e nuove al di là di quelle in cui il giovane Mario si era incamminato con baldanzosa audacia e genuina speranza.



Alla lettura si può percepire una netta cesura tra quello che avviene prima della guerra e della disfatta di Capo Matapan e il dopo: le pagine della prima parte più leggere e briose, tessute di reminiscenze musicali e della giovanile esuberanza dell'autore paiono invecchiare di colpo, si fanno più stanche, nude, crude, rispecchiando la frustrazione dei reduci. Nella scrittura del diario, rispetto ad un documentario cinematografico, le immagini affiorano con la forza dei sentimenti di chi descrive eventi che ha vissuto e visto, perciò permangono con più incisività anche nella memoria del lettore. Come non figurarsi il marinaio Mario, amante della lettura e delle donne, aperto al nuovo, dotato di squisita sensibilità lirica, che si avventura nei mari pur venendo dai monti di Barga? Come non sentire vicine le sofferenze ed i turbamenti di un uomo che affronta eventi eccezionali in tempi eccezionali destinati poi a precipitare miseramente nel disincanto di chi non può fidarsi più neppure dei propri generali? Gli siamo accanto quando si riflette nel motto “tenacemente” della nave ammiraglia Zara su cui è imbarcato, accanto nella notte atroce che trascorre naufrago tra tanti commilitoni a seguito dell'affondamento dello Zara, percependo il suo stesso “disgusto infinito, per tutti quei corpi dilaniati, per quei pesci immondi, per questo freddo, per chi ci ha condannato a morire senza combattere...”, e accanto nella sua prigionia greca, a nutrirsi di olive e di paleo bollito, come prevenzione allo scorbuto.
Il mare, nella sospensione di lunghe traversate, abitua alla riflessione: “il destino del marinaio è quello di sentirsi lontano da tutto e da tutti, nella grande immensità del mare, che rispecchia la vastità delle sensazioni dell'anima, con le quali si confronta”. Ci sono momenti in cui Mario, pur in un contesto storico come quello fascista, che relega la donna al ruolo asessuato di madre e moglie devota, precorre i tempi nel cammino verso l’uguaglianza di genere, quando afferma a proposito delle delusioni amorose: “o forse è difficile accettare che la donna, anche in questo, sia uguale all'uomo e che il desiderio di conquista, pure per lei, sia più forte di ogni fedeltà”. C’è in lui una forma di anarchia del pensiero che lo spinge a riconsiderare tutto alla luce delle proprie rimeditate esperienze.
È lui stesso a costruirsi vero e proprio personaggio letterario nel momento in cui si autobattezza Zeppolini dall’originario Zipolini, sulla scia della fama del dirigibile Zeppelin, capace di navigare i cieli così come il protagonista vola proteso sui suoi sogni; sogni che grazie al libro ci vengono riconsegnati intatti perché si stabilisca quella sana dialettica tra le epoche che dovrebbe far approdare al porto dell’evoluzione. Dallo scontro delle generazioni deve nascere l’incontro delle generazioni con le specifiche peculiarità, il foxtrot e le danze coreografiche di Tangolita amate da Mario si possono mettere accanto allo shake amato da Romano: chissà che non ne nasca un ballo nuovo che unisca tutti, il ballo dell'umanità. A noi non accadrà, in questo imperativo futuro che si pone volutamente più come certezza che come speranza proprio nell'incertezza dolente di un mondo in cui la guerra continua ad affacciarsi, sono affidate memorie che non si consumano in loro stesse ma che vogliono programmaticamente costruire dialoghi aperti, non settari, e per questo fortemente coraggiosi.

 

JOE WRIGHT E M. IL FIGLIO DEL SECOLO  
di Luigi Mazzella



Anni fa avevo visto con grande interesse e apprezzamento L’ora più buia di Joe Wright che seguiva le vicende di Winston Churchill all’inizio della seconda guerra mondiale. È con il medesimo interesse, quindi, che ho seguito in streaming il serial televisivo dello stesso regista M: il figlio del secolo sul primo Mussolini, interpretato da un Luca Marinelli, costantemente sopra le righe, più macchietta che personaggio. Ho tentato di capire i motivi della scelta di regia. Wright nasce nell’ambiente del Teatro di marionette di Islington e l’influenza su di lui esercitata dai genitori (fondatori appunto del Little Angel Theatre) in questa sua opera si coglie tutta. Sullo schermo si muovono burattini tra finte quinte teatrali e cupi, "sfuocati" e incerti scenari di sapore espressionista. Il tutto quanto si conviene a una rappresentazione che non vuole apparire realistica, nonostante il riferimento a una realtà che è stata invece molto vera e pesantemente tragica. Al di là degli aspetti spettacolari, certamente originali ma piuttosto discutibili, il serial riesce a dare una rappresentazione degli effetti cruenti di un violento fanatismo politico tendente all’instaurazione di una dittatura, secondo la previsione di Albert Camus de L’Homme révolté.
Nel caso specifico del serial si tratta dei fascisti” e libro e film sono stati probabilmente ispirati dagli ultimi eventi italiani, quando la bionda trasandatezza e l’inseguita (e mai raggiunta) eleganza di abbigliamento di una pulzella della periferia romana è giunta al potere in un Paese con la stessa minoranza di elettori che consentì al Duce di Predappio tutto ciò che ben dovrebbero ricordare gli Italiani non proprio a digiuno di notizie storiche.
Il focus del serial non può far dimenticare che i “pupari” dell’Occidente utilizzano, per i loro interessi, tutte le utopie inventate da maestri religiosi o filosofici; non solo quelle fasciste. Il clima di faziosità che riescono a introdurre nei Paesi detti “democratici” va a loro vantaggio, quando decidono “il cambio dei cavalli” per la loro “corriera”.



Perché faziosità? Fazioso è chi sostiene senza obiettività e con la mancanza di ogni senso critico il proprio partito politico o la propria tesi ideologica, l’interesse sciovinistico del proprio Paese animato, com’è, da forte spirito di parte. Usualmente, il fazioso attribuisce al partito o alla tesi avversa tutte le negatività che la critica più feroce ritiene di riscontrare nelle posizioni combattute; al partito o alla tesi di cui è “fan”, assegna, invece, tutte le qualità “meravigliose ed eccezionali” illustrate dalla “propaganda” che è, notoriamente, una falsa rappresentazione della realtà adottata da chiunque sappia di affermare fini che sono chiaramente di parte. Detto questo v’è da aggiungere che in un clima culturale contrassegnato dalla presenza massiccia e prevalente di concezioni assolutistiche (è questa la verità e non altre), di intolleranze religiose (Dio è uno ed è solo il mio e non quello di altri) o ideologiche (un popolo amato da Dio deve governare il mondo o l’eguaglianza dev’essere universale), di autoritarismi impliciti in ogni preteso possessore del Verbo la faziosità è la norma: la regola sovrana che impera in una collettività di fanatici che trascorrono la loro vita impegnandosi in grande parte, a scovare e rintracciare avversari per metterli alla berlina.
La faziosità, inoltre, colpisce ricchi e poveri, maschi e femmine, potenti e quidam de populo; si avvale di un linguaggio da caserma ma può anche avvalersi di una prosa elegante e forbita; coinvolge persone stupide ma anche colte (e intelligenti soltanto per ciò che riguarda la cognizione di saperi specifici). La faziosità, infine, è un male che se non è trasmesso dai cromosomi si acquisisce rapidamente con l’insegnamento di genitori, docenti, predicatori faziosi.
C’è di peggio: la faziosità non risparmia neppure le cosiddette Istituzioni, sacre e profane, che sono pur sempre espressioni di una collettività umana che se è faziosa non può darsi da sola equanimità, equidistanza e distacco dalle passionalità condivise. Naturalmente v’è chi si impone di non soggiacere a una visione faziosa delle cose, ma è difficile che ritenga tale (cioè fazioso) un punto di vista in cui è stato abituato a credere.



Ergo: in Occidente la faziosità è ineliminabile e fino a quando gli abitanti della parte ovest del pianeta continueranno a “credere” in ciò che si propina loro come atto di fede (religiosa o politica) anziché a “pensare” con la propria testa, facendo affidamento solo sulla ragione… lo spettacolo offerto al mondo sarà quello della rissa permanente, con scontri feroci (non sempre solo verbali), ingiurie violente  ed epiteti infamanti, carte bollate, iniziative pubbliche (amministrative o giudiziarie) e private, in un “crescendo” più che “rossiniano” parossistico e manicomiale. 
Domanda: si può ritenere “fazioso” anche il serial di Joe Wright, ritenendo che la messa in scena del libro di Scurati sarebbe stata meno burattinesca se il fascismo si fosse sviluppato in Inghilterra dove il “germe” era peraltro penetrato persino negli ambienti e negli alti ranghi della Corte? 

PELLIZZA DA VOLPEDO AL CINEMA
di Alberto Figliolia


 
Ogni età ha un’arte speciale. L’artista deve studiare la società in cui vive e capire l’arte che gli è data
. (Giuseppe Pellizza)
 
Giuseppe Pellizza da Volpedo, professione: genio, morto suicida a neanche 39 anni dopo essere caduto in un abisso di disperazione, un nero irreversibile baratro. Non più amore né gloria. Pellizza da Volpedo deve principalmente la sua grande fama all'olio su tela ‘Il Quarto Stato’, monumentale opera conservata alla GAM di Milano, spettacolare e commovente emblema di pittura sociale e quadro di rarissima perfezione formale e tecnica. Una rappresentazione che durò, nella composizione da parte del pittore, anni di studio, fatica, preparazione e prove. Un lavoro che gli avrebbe dato celebrità imperitura e che invece in vita non riuscì a vendere (per 50.000 lire nel 1921 acquistò infine l'opera il Comune di Milano, ma durante il ventennio fu sostanzialmente abbandonata, rimossa e non esposta). La gloria fu postuma per l'artista.



Ma Pellizza non è solo 'Il Quarto Stato', che pure è una tela di immane bellezza nonché giustamente icona mondiale dell'arte pittorica; il giovane talentuoso, iscrittosi quindicenne, all’Accademia di Brera ha lasciato innumerevoli opere, fra il verismo iniziale e la successiva scelta divisionista. Quanti e quali capolavori avrebbe saputo ancora realizzare e donare al mondo Giuseppe, che, salito su una scala a pioli, con un fil di ferro si sarebbe tolto la vita dopo le morti della moglie per un’infezione post partum e del figlio neonato? Correva l’anno 1907 - l’Italia stava assestandosi dopo i tumultuosi anni appena trascorsi (la turpe violenza di Bava Beccaris durante i moti milanesi è del 1898 e del 1900 il regicidio) e prima del venturo gran bagno di sangue -  e il Paese perdeva uno dei suoi figli migliori, più grandi, puro poeta di colori e sentimenti.



Pellizza da Volpedo rivive in quella che fu a ogni modo, nonostante la tragica conclusione, una splendida parabola nel docufilm Pellizza pittore da Volpedo di Francesco Fei, girato nei luoghi d’elezione del pittore, da cui mutuò il nome che l’avrebbe consacrato all’ammirazione dei contemporanei e, soprattutto, dei posteri. La voce narrante è quella, quieta eppur vibrante, calda, di Fabrizio Bentivoglio, che legge, “coscienza narrante, con sentitissimo trasporto e soave empito le lettere e gli scritti lasciatici da Pellizza: meravigliosi esempi di finezza critica e teorica, spaccati di una mente curiosa, di un’anima in cerca. Scriveva in maniera splendida Giuseppe, al pari delle sue esecuzioni artistiche.
“Il film si apre nello studio di Pellizza a Volpedo, rimasto identico a come l’ha lasciato l’artista. È qui che Bentivoglio accoglie lo spettatore leggendo le toccanti lettere del pittore che rivivono attraverso la sua voce, ma anche attraverso la fotografia, arte così preziosa per lo stesso Pellizza: Fei ha infatti privilegiato tonalità che rimandano alle opere dell’artista piemontese e tagli di inquadratura che appaiono quasi quadri viventi.”



Giuseppe era refrattario al caos metropolitano - nonostante gli studi milanesi e le incursioni a Roma e Firenze - e distante anche dalle relazioni eccellenti: Per lui Volpedo era più che un buen retiro; era un luogo dell’anima, incubatoio di idee e ispirazioni, privilegiato posto di osservazione delle dinamiche del mondo e dei moti interiori.
Quanti quadri nati percorrendo quelle sue amate contrade, la campagna, la Natura che tutto avvolge, e riempiendoli poi di persone e situazioni: Speranze deluse, Sul fienile (visibile sino al 6 aprile nella magnifica mostra organizzata da METS, e a cura di Elisabetta Chiodini, al Castello di Novara e intitolata Paesaggi. Realtà Impressione Simbolo. Da Migliara a Pellizza da Volpedo), Lo specchio della vita (E ciò che l'una fa e l'altre fanno), Il pennello del ponte sul Curone, La Processione, Il ponte, Nubi di sera sul Curone, Il girotondo (Idillio campestre nella pieve a Volpedo). E, ancora, L'amore nella vita, Membra stanche, Il sole, Ricordo di un dolore e i paesaggi, i ritratti...
La pellicola esplora di Pellizza il precoce talento - mai ostacolato dai genitori (il padre amministrava un fondo agricolo) - e la genesi, la formazione culturale, i primi, già notevolissimi, tentativi, le opere della maturità in un crescendo di sapienza tecnica sempre congiunta a forti ideali e a un pensiero profondo, l’attenzione volta al mondo degli umili, dei lavoratori (colti nella loro intrinseca bellezza), all’universo naturale e ai suoi cicli.



Un’interpretazione diretta e carica di simboli, che lo avvicinava artisticamente e umanamente all’altro gigante della nostra arte, il coevo Giovanni Segantini. I due si erano incontrati e si scrivevano. Si stimavano e si assomigliavano nell’intimo (anche, incredibilmente, dal punto di vista fisico), nonostante le apparenti differenze caratteriali.
Magnifica la fotografia del film, nella bucolicità non convenzionale, delle colline tortonesi, un pezzo di mondo che pare ancora in equilibrio in tutti i suoi elementi, al riparo dalle convulsioni del presente.
La pellicola si avvale del prezioso contributo di vari specialisti, storici, critici dell’arte, fra cui Aurora Scotti, la più importante critica e studiosa dell’arte di Pellizza, e responsabili di musei e collezioni. Interviene anche un pronipote dell’artista, che lasciò comunque due figlie ed è da citare pure l’Associazione Pellizza da Volpedo, “nata per la valorizzazione del patrimonio culturale legato alla figura e all’opera del pittore e custode della maggior parte dei documenti e delle immagini relative alla sua vita.”



Camminiamo anche noi per le vie del borgo con Pellizza, circondati da un’umanità feconda, e da campi e colli, lontani da rumori e frenesie, nel cuore delle cose, di cui Giuseppe sapeva o, meglio, con umiltà sperava di poter svelare (parzialmente) i segreti in una ricerca continua, empatica.
Un soffio mistico, sposato al concreto delle figurazioni, sembra pervadere i quadri di Pellizza, scavando dolcemente nel profondo, pizzicando le corde più intime, messaggio di pace e forza, armonia e bellezza.
Da Volpedo. Giuseppe Pellizza. Pellizza da Volpedo. Professione: genio. Un corpus di opere che lascia stupefatti, sempre... 39 (quasi) anni di vita fulgida, nel segno della kalokagathia. Il bello e l’utile dei suoi quadri ancora ci colmano gli occhi con la vastità dell’ideale e ci consolano di un presente talora infetto o insulso. Sei nel grano che ondeggia, Pellizza, nel tramonto che imporpora il cielo, nel vento che corre fra i ciottoli; sei fra coloro che, saldi, solidali e in sé fidenti, le mani parlanti, ci guardano negli occhi marciando verso un futuro di giustizia e amore. Pellizza pittore da Volpedo, prodotto da Apnea Film, in collaborazione con Sky Arte, con la partecipazione di METS Percorsi d’Arte e presentato in anteprima alla scorsa Festa del Cinema di Roma, inaugura la nuova Stagione della Grande Arte al Cinema di Nexo Studios e sarà proiettato in 200 sale cinematografiche il 4 e il 5 febbraio prossimi. L'emozione è garantita insieme con un totale appagamento estetico.

sabato 1 febbraio 2025

PALAZZINA LIBERTY: UN’INCOGNITA



Alcune testate hanno raccolto le nostre sollecitazioni in merito alle recenti notizie relative alla Palazzina Liberty, La Repubblica, Altreconomia, MilanoToday e Metroregione (Radio Popolare). Ci sono state diverse dichiarazioni da parte dell’assessore alla cultura Tommaso Sacchi, senza aggiungere nulla di nuovo, anzi, è rimasto in diversi casi sull’ambiguo, il confuso, il non detto. Permangono incertezze sui tempi: Sacchi dice che la Palazzina riaprirà entro l’estate; significa a giugno o a settembre? Parla genericamente di aperture di attività durante l’estate. Viste le continue dilazioni, un’indicazione chiara sarebbe necessaria. I costi restano ancora un’incognita, con oscillazioni sconcertanti e non motivate: Sacchi indica circa 1 milione di euro per il 2025, ma come si giustifica il fatto che nei preventivi iniziali si arrivava a un complesso di circa 5 milioni, ora ridotti a 4, di cui 1,8 e 1,1 nei prossimi due anni? I lavori riguardano il solo piano terra, come dichiarato a “MilanoToday”. Vero, ma è una mezza verità: si tace sulla riabilitazione, necessaria e gravosa, dei locali sotterranei, che il preventivo iniziale indicava come molto rilevanti. Oltretutto, nel sotterraneo sono presenti i servizi igienici, che evidentemente condizionano la piena funzionalità del pianoterra, la cui riattivazione è prevista appunto in tempi più brevi. Un guazzabuglio, insomma, senza capo né coda. Ma il buio più profondo e preoccupante continua a restare quello che grava sulla gestione: la Palazzina, nelle parole dell’assessore, resta “patrimonio legato esclusivamente alla città, quindi all’ente pubblico”, ma subito dopo chiarisce che “chiaramente potrà essere concessa agli operatori culturali della città, a seconda delle iniziative che vengono proposte”. Una resa completa alla discrezionalità delle proposte dei privati, insomma. La regia pubblica resta puramente formale, una scatola vuota. Mancano indicazioni progettuali e d’indirizzo sui settori preferenziali, sugli ambiti di fruizione (musica? teatro? che altro?), sull’approccio (produzione d’eccellenza? corsi popolari? che altro?). In assenza di questo, come si sostanzia e si giustifica una seria ed efficace gestione pubblica, garantita dal Comune? Non ci siamo, assessore Sacchi. Così non va. Proseguiremo la mobilitazione e la controinformazione, anche con interventi pubblici.
Comitato Palazzina Liberty bene comune

venerdì 31 gennaio 2025

TRUMP E I TROMBETTIERI
di Cataldo Russo
 

Cari Americani, Trump ve la regalerà la guerra, non disperate.


Mister Bretelle, da imbonitore qual è, potrà anche farci credere di conoscere l’America come i suoi calzini, potrà dirci che solo lui pronuncia correttamente il cognome dell’attuale presidente americano dai capelli di granturco, essendosi esercitato a lungo a pronunciare il “tru” di Trump alla siciliana e alla calabrese (trjamp); può anche farci credere di essere un tuttologo, ma non potrà continuare a spacciare le sue panzane e le sue strampalate idee per verità assolute. Ieri trombettista democratico e oggi strizza l’occhio ai repubblicani. In vista del salto della quaglia che si accinge a fare, il buon Rampini si spreme le meningi come meglio può per far emergere tutto il buono che c’è in Trump ora che è arrivato al potere per la seconda volta.
Rampini e tutta la pletora di giornalisti filoamericani potranno arrampicarsi sugli specchi per dimostrarci che l’America con Trump non corre alcun pericolo perché quello che farà altro non sarà che quello che hanno iniziato altri governi, anche democratici, prima di lui. E noi ci crediamo, perché siamo consci che in America in politica estera non c’è discontinuità fra quello che fanno i democratici e quello che fanno i repubblicani.


Rampini

Io non so quanto l’America e il mondo siano più in pericolo con Trump di quanto non lo siano stati con altri presidenti, ma so che è un paese in crisi, soprattutto economica, anche perché di valori lo è sempre stata, e questo mi preoccupa perché so che gli USA, quando si sentono in crisi economica, si comportano come quei drogati in crisi di astinenza che devono procurarsi la dose ad ogni costo, anche ricorrendo al furto e al crimine.
Nei confronti dell’America noi abbiamo assunto sempre l’atteggiamento di benevolenza e di comprensione che si ha verso quei bambini capricciosi e bisbetici che ne combinano una dopo l’altra.
Gli USA hanno buttato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki? Sì, no, oh Dio, ma eravamo in guerra! E se certe porcate non si fanno quando si è in guerra, quando si possono fare? È persino inutile ribattere che le bombe furono gettare il 6 e 9 agosto del 1945 a guerra finita, tanto i filoamericani a prescindere diranno che è stato solo un regalo.
Non c’è presidente americano dal 1945 ad oggi che non abbia coronato il suo sogno presidenziale scatenando una guerra con la motivazione di difendere gli interessi americani.
Harry Truman, presidente democratico dal 1945 al 1953, è stato il presidente della guerra alla Corea del Nord con la motivazione che bisognava difendere la libertà e l’autonomia dell’alleato Corea del Sud, minacciata dagli altri coreani, i comunisti del Nord.
Al Repubblicano Dwight D. Eisenhower, presidente dal 1953 al 1961, toccò l’onere o l’onore di siglare l’armistizio con la Corea del Nord, ma intensificò la cosiddetta Guerra Fredda contro il pericolo comunista rappresentato dalla Russia e dalla Cina.


Kennedy e la moglie

Il democratico John Fitzgerald Kennedy, salito al potere nel 1961 e i cui sogni di fare grande l’America si infransero a Dallas nel 1963 con il suo assassinio, portò in pochi mesi i consiglieri militari statunitensi in Vietnam da qualche centinaio a 16.000 e, di fatto, fu l'iniziatore del conflitto che avrebbe segnato l'America per generazioni. Fu anche il presidente della Baia dei Porci, cioè del tentativo, fallito, di invadere Cuba di Fidel Castro che era finita nell’orbita comunista.
Lyndon Johnson, democratico, succeduto a Kennedy, che fu presidente dal 1963 al 1969 intensificò l'escalation della Guerra del Vietnam. Come se non bastasse, nel 1965 Johnson ordinò anche l'invasione della Repubblica Domenicana per rovesciare il governo socialista di Juan Bosch Gavino.
Richard Nixon, repubblicano, presidente dal 1969 al 1974, chiuse la guerra in Vietnam dopo un'escalation di bombardamenti a tappeto sulle città e le campagne del Nord e, segretamente, in Cambogia e Laos.
A Gerald Ford, presidente repubblicano dal1974 al1977, rimase il cruccio di non aver potuto fare la sua bella guerra contro il Vietnam del Nord perché il Congresso non gli diede il permesso.
Il democratico Jimmy Carter, presidente dal 1977al 1981, mandò aiuti militari segreti ai mujaheddin afghani, attraverso i sauditi e i pachistani, quando l'unione sovietica invase l'Afghanistan.
Mary Shelley, autrice di Frankenstein, ci insegna che, quando si crea il mostro questi finisce con il distruggere il suo ideatore. E così fu, perché il passaggio dai mujaheddin alla jihad di Osama Bin Laden il passo fu breve. Carter è anche ricordato per aver fallito il blitz militare per liberare gli ostaggi dell'ambasciata americana a Teheran.
Ronald Reagan, l’attore repubblicano, è stato presidente dal 1981al1989. Lo statuario Reagan fu protagonista di due azioni militari: l'invasione di Grenada nel 1983, decisa perché un regime filomarxista non si affiancasse a quello cubano in quell'area; il bombardamento di Tripoli nel 1986 con l'obiettivo di colpire Gheddafi.


Obama e Bush

George H. W. Bush senior, presidente repubblicano dal1989 al 1993 combatté e vinse la prima guerra del Golfo, dopo l'invasione da parte di Saddam Hussein del Kuwait. Nel dicembre del 1989 invase Panama inviandovi 24.000 soldati allo scopo di abbattere il dittatore Manuel Noriega.
Il democratico Bill Clinton che fu presidente dal 1993 al 2000, ricordato fra le altre cose per i suoi tradimenti extraconiugali, inviò e poi ritirò le truppe americane dalla Somalia. Due anni dopo, ordinò i raid aerei contro i serbi di Bosnia per costringerli a trattare e, dopo gli accordi di Dayton, dispiegò una forza di pace nei Balcani. Nel 1998, in risposta agli attentati di Al Qaeda, per ritorsione fece bombardare obiettivi in Afghanistan e in Sudan. Un anno dopo, il teatro di guerra tornò ad essere i Balcani. Ancora una volta, gli Usa furono protagonisti della Guerra del Kosovo e della caduta di Milosevic.
Il repubblicano George W. Bush Junior è stato presidente dal 2001 al 2009. Bush è passato alla storia come il presidente delle due ultime guerre americane in grande stile: Afghanistan e Iraq come risposta all'attacco delle Torri Gemelle. Se la prima ebbe l'appoggio di quasi tutti gli americani, la seconda invece venne largamente contestata dall'opinione pubblica statunitense e mondiale. Tant’è che per trovare una giustificazione ai suoi propositi bellicisti dovette inventarsi la patacca della fiala all’antrace.
Barack Obama, presidente democratico dal 2009 al 2017, gioca la carta del ritiro delle truppe da Kabul. Mossa azzeccata che gli valse il premio Nobel per la Pace. Anche lui, però, non sa resistere alle tentazioni belliciste con i noti interventi in Siria, Libia, Iraq e Afghanistan. Ha inoltre fatto bombardare anche lo Yemen, la Somalia e il Pakistan. Secondo alcuni analisti è stato il presidente americano che ha tenuto in guerra gli Stati Uniti per più tempo. Alla faccia del Premio Nobel per la Pace!
Il lupo perde il pelo ma non il vizio, e così il repubblicano Trump, presidente dal 2017 al 2021, non manca l’occasione per la sua prova di forza, bombardando, nella notte del 6 e 7 aprile del 2017, la Siria.
Per il democratico Biden la rappresaglia israeliana contro i palestinesi e la guerra in Ucraina sono una vera manna dal cielo perché senza guerra non avrebbe saputo cosa fare e dire.  
 


Ginsberg

Allen Ginsberg, poeta ribelle della beat generation, nel su poema America, si chiede: “America quando finiremo la guerra umana”.
L’America ha due grandi ossessioni: il comunismo e la guerra. Hai voglia di dire che la Russia non è più un paese comunista, che è un paese capitalista in mano a una oligarchia di capitalisti della peggior specie e che il comunismo con Putin e la Russia attuale c’entra come i cavoli a merenda. Gli Usa hanno bisogno dello spettro del comunismo per alimentare la paura. A proposito dell’ossessione del comunismo Ginsberg scriveva ancora ironicamente nel poema: “La Russia vuole mangiarci vivi. La Russia è pazza di potere. Vuole portarci via le automobili dai garages. Vuole impadronirsi di Chicago. Ha bisogno di un Readers’ Digest Rosso. Vuole le nostre fabbriche di automobili in Siberia. Che la sua grossa burocrazia diriga le nostre stazioni di rifornimento”.


Trump e Netanyahu

L’altra fisima è la guerra. Ma perché l’America ha questa ossessione per la guerra? Il motivo a mio avviso è prevalentemente religioso. Gli stati Uniti sono per lo più calvinisti, cioè seguaci di Giovanni Calvino, nato a Noyon in Francia il 10 luglio 1509 e morto a Ginevra il 27/5/1564, che è stato il massimo riformatore del cristianesimo, insieme a Lutero. Secondo il pensiero del grande teologo francese, tutto ciò che accade sulla terra avviene per volontà di Dio, che è il sovrano di tutto e di tutti. Secondo la sua dottrina ci sono persone predestinate alla perdizione e altri, gli eletti, predestinati alla salvezza e alla felicità.
Pensare di mettere in discussione o semplicemente di criticare la sovranità divina è di per sé un atto blasfemo. Calvino proponeva un principio formale, rappresentato dalla predominanza della Bibbia, un principio materiale, incarnato dalla sovranità della divinità, un principio etico contenuto nella responsabilità di servire Dio e un “principio ultimo” che è la gloria di Dio. A questi principi tutti gli uomini devono contribuire perché c’è di mezzo la loro salvezza. Inoltre, il lavoro per i calvinisti diventa quasi una vocazione religiosa: è Dio che ci chiama a esso. Il successo che ne consegue perciò è la garanzia che «Dio è con noi» e che siamo gli eletti.
Il Calvinismo fu portato in America dai 102 padri pellegrini, un gruppo di cristiani protestanti, definiti puritani dagli altri cristiani per la rigorosa condotta morale della loro vita, che si videro costretti ad abbandonare l’Inghilterra, così l’11 Nov. 1620 sbarcarono sulle coste del Massachusetts. Se per un cattolico il passaporto per il Paradiso si conquista con le opere buone e una morigerata condotta di vita, per il calvinista la certezza della salvezza eterna e del Paradiso si ha attraverso la ricchezza. In America i poveri sono sfigati due volte. Una volta perché sono costretti a vivere negli stenti e nelle privazioni la loro parentesi sulla terra, una seconda volta perché le porte del Paradiso per loro rimangono serrate.



La guerra è stata sempre vista dagli americani come un’opportunità per produrre ricchezza e per dimostrare al mondo, con la vittoria finale, che l’America è la nazione eletta per antonomasia. La tentazione dei presidenti americani di fare la loro bella guerra per guadagnarsi i galloni per il Paradiso è forte, anzi fortissima.
Tutto ciò è meglio sintetizzato dal farneticante pensiero di Trump, secondo il quale, essendosela cavata con un leggero foro all’orecchio destro nell’attentato del 13 luglio 2024, mentre teneva un comizio elettorale in una fiera agricola a Meridian, in Pennsylvania, questo è un segno chiaro e inequivocabile  della sua predestinazione a fare ancora grande l’America, costi quel che costi. “I’ll make America great again” è lo slogan che l’ha accompagnato durante la sua campagna elettorale. Trump è certamente un invasato che pensa di ascendere in paradiso seminando il suo cammino di torturati, discriminati, perseguitati e morti, ma ce n’è un altro in questo momento che in quanto a pericolo non è secondo a nessuno: Benjamin Netanyahu, che ha un unico obiettivo annientare i palestinesi, cancellarli dalla faccia della terra e prendersi le loro terre. Tutta la solidarietà che il mondo ha dimostrato nei confronti dell’olocausto si infrange contro la protervia criminale di Netanyahu, sempre più convinto che il suo popolo è il popolo eletto e ha pieno diritto di sfrattare chiunque dalla Palestina.
La religione è stata troppo spesso all’origine delle guerre, ma mai come in questi tempi essa risulta essere l’elemento più divisivo dei popoli.

 

 

 

 

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