Se
sia possibile una cittadinanza globale
di Giovanni Bianchi
Perché?
Perché
il vero problema non è il rapporto con l'Islam, ma se sia possibile una
cittadinanza globale e democratica. L'Islam infatti non è una faccenda che
competa solo ai musulmani e agli arabi, dal momento che è ancora una volta la
realtà di questa globalizzazione a imbarazzarci. Insieme al lavoro culturale
(Freud) e politico che essa richiede. Un lavoro che viaggia lungo i confini
delle etnie e delle identità, tutte chiamate a un inevitabile meticciato dalle
continue migrazioni imposte dal capitale finanziario e dal bisogno di una
cittadinanza più piena e più libera nelle masse. Per cui l'unica analisi e
l'unico pensiero in grado di non divagare sono quelli che si candidano ad
aprire una nuova prospettiva, confrontandosi coraggiosamente con lo spirito del
tempo e altrettanto coraggiosamente criticandolo. Quel che importa è dunque la
costruzione di una nuova soggettività globale, che non è uniformità, ma come
unità e convivenza delle identità, dal momento che dovrebbe essere chiaro che
la soggettività non può essere confusa con il soggettivismo. "Interpretare
infatti è l'atto stesso attraverso cui il soggetto si costituisce.
Indipendentemente dal contesto in cui mette in gioco una tale operazione".
Eppure
Eppure,
come già nel dodicesimo e tredicesimo secolo, una grande contaminazione
riguarda le culture. C'è sempre un Averroè che si occupa di commentare Aristotele.
E una qualche Cordoba si trova in Europa. Quel medesimo capitalismo che ha
armato i talebani in Afganistan, suggerendo una via bellica e poi terroristica
agli allievi delle Scuole Coraniche, è il medesimo che ha tentato di insinuarsi
nelle loro psicologie con gli agi del consumismo. I giovani che partono dalle
periferie di Parigi per un indottrinamento che non è certo emulo degli Esercizi
Spirituali ignaziani, non sono evidentemente destinati a passare il resto della
vita nei campi di addestramento militare e non sono prevedibilmente tutti
intenzionati al martirio. È questo il possibile destino di una minoranza davvero
esigua tra gli islamici. La nuova globalizzazione -così com’è- seduce la
quotidianità. Ben più di un miliardo di islamici in tutto il mondo pensano
verosimilmente di continuare a vivere pacificamente la propria religione senza
evitare i contatti con le cose buone e i comportamenti progressivi
dell’Occidente. Tra gli immigrati solo una parte frequenta la moschea. Ma c'è
di più: qualche pronipote di Averroè ha incominciato a riflettere e a scrivere.
Il riferimento non è l'aristotelismo, ma l'illuminismo francese. Non ha fin qui
infatti registrato soverchia attenzione né pubblicità la Dichiarazione di non sottomissione (a uso dei musulmani e di coloro
che non lo sono) di Fethi Benslama, il cui riferimento più esplicito non è il
filosofo di Stagira, ma Lacan.
La dichiarazione si presenta infatti come un invito pressante al
pensiero, alla parola, alla ricerca, in un'epoca di passioni prevalentemente
tristi. In un'epoca tuttavia nella quale il problema del soggetto continua ad
essere centrale nel nostro essere e voler essere umani. Nella quotidianità
individuale e collettiva, personale e generazionale: che non può darsi senza la
presenza -auspicata o esorcizzata- della politica e di una politica
responsabile (cioè in grado di decidere) perché consapevole della situazione. Un
appello a rimanere svegli (Sentinella,
quanto resta della notte?) contro le suggestioni che continuamente ci
sviano perché ciò non accada. È davvero quello che abbiamo di fronte il
peggiore dei mondi a venire? Dopo la strage di Parigi e dopo la grande
manifestazione in difesa della libertà d'espressione, è ancora possibile e in
che modo immaginare una convivenza fra culture e religioni diverse? Come
concepire il valore della laicità e come
ripensare il ruolo delle religioni nello spazio privato e nello spazio
pubblico? Una cittadinanza democratica e globale è il sogno patetico delle
anime belle residue?
Le posizioni in campo
Osserva Massimo Cacciari in “Avvenire” di
domenica 18 gennaio 2015 che "nelle culture europee la parola
"libertà" rinvia immediatamente all'idea di incondizionatezza, alla
quale ogni nostra azione viene commisurata. Dentro di noi possiamo essere
consapevoli dell'impossibilità di realizzare pienamente quest'idea, eppure non
rinunciamo a vivere come se la nostra libertà fosse già, per l’appunto,
incondizionata".
Per
il sociologo di origine algerina Khaled Fouad Allam sarebbe invece in atto uno
scontro fra due tipi di sacralità: uno tradizionale, di cui i terroristi si
dicono paladini, e un altro laico e profano. Troppi buchi neri separano
ancora Islam e Occidente.
E infatti per Allam "la
libertà occidentale presuppone un universalismo illuminista, di matrice
settecentesca, che è stato ormai soppiantato da un universalismo di tutt'altro tipo,
che definirei "post-occidentale".Non sto dicendo che l’Occidente è
finito, sia chiaro, ma che il contesto è
più ampio, più complesso. Non ci si può accontentare di invocare un Islam più
laico e, quindi, più libero. Il vero problema è, ancora una volta, quello della
secolarizzazione, che per l’Europa non si limita alla rivendicazione del
principio di uguaglianza, ma comporta un divorzio profondo fra l’io e la
dimensione religiosa, in un percorso di soggettivizzazione per cui la religione,
per quanto importante, non è comunque più importante di altri valori. Gli
attentati di Parigi, come sappiamo, hanno preso di mira proprio questo sistema
di idee e, nel contempo, hanno reso evidente il dramma dell'Islam di
oggi".
A questo punto le posizioni
possono divaricare proprio intorno al tema epocale della secolarizzazione. Chi
la pensa in piena salute e chi al tramonto. Chi, come Paolo Sorbi, usando una
celebre distinzione martiniana, fa osservare che un conto è la
secolarizzazione, un altro è la secolarità, che comporta il confronto con il
principio di realtà. Con l'osservazione generale che la secolarizzazione è un
fenomeno globale, dal quale però per il momento l'Islam è rimasto escluso.
Per l'islamista Paolo Branca vale
la convinzione che l'Islam sia un organismo in sé sano, ma che ha al suo
interno un tumore da estirpare. E aggiunge: " Mi riferisco al cancro del
terrorismo, si capisce, e mentre dico questo so benissimo che a far galoppare
le metastasi sono stati i milioni e milioni di petrodollari erogati dai governi
dell'area mediorientale".
E’ nel groviglio così descritto
che le frontiere simboliche si trasformano in frontiere etniche – nella ex Jugoslavia come in Ruanda – e come
sta accadendo in tante parti del mondo.
La semplice e pur intensa
trasmissione di nozioni, informazioni e cognizioni tecniche risulta
drammaticamente insufficiente, perché nessuno arriverà mai a comprendere
l'altro se non all'interno di una dimensione relazionale calda e solidale. Qui
si gioca, nelle società liquide come nella crisi degli Stati Nazione, il
destino dell'attuale globalizzazione. Qui dobbiamo riproporci l'interrogativo
su che cosa sia una cittadinanza globale, che implica convivenza di identità
diverse, e non soltanto una omologazione consumistica. Gli stili di vita letti
soltanto in questo modo e a questo livello non danno conto delle profonde
trasformazioni antropologiche in atto, e neppure di quelle che già si sono
prodotte. Non basta girare il mondo e appartenere alla generazione Erasmus.
La contiguità del consumo non è
amicizia e non costituisce di per sé cittadinanza. Così pure non basta la
retorica delle affermazioni che giudicano le differenze una ricchezza. È vero,
ma non è sufficiente. Anche in questo caso è possibile morire d'eccesso analitico (papa Francesco).
Sperimentare percorsi d’amicizia e di solidarietà non è un problema teorico né
tantomeno un vezzo retorico.
Il testo di Benslama
Lo psicoanalista franco-tunisino
Fethi Benslama non ha paura osservare che l'Islam è “la posta in gioco centrale
della guerra che si svolge da ormai una trentina d'anni: una guerra il cui
scopo è di potere definire ciò che "Islam" significa, onde poter
parlare in suo nome. Perché parlare “nel nome di” conferisce un potere
sovrano”.
L’origine del libro? Anche in
questo caso Benslama non è reticente: "Il testo che segue è stato redatto
su richiesta di un gruppo di lavoro composto dai firmatari del “Manifesto delle
libertà”, nel quale delle donne e degli uomini chiamavano tutti quelli che si
riconoscevano sia nei valori della laicità che nel riferimento all'Islam come
cultura a uscire dal loro isolamento e a opporsi all'ideologia
dell'islamismo". Il testo della dichiarazione inizia infatti definendo
minacciosa un'invocazione che corre il mondo: "nel nome dell'Islam".
E sembrerebbe perfino muoversi in una piattaforma che non ignora la visione
“armata” di Huntington che aveva per tempo messo in guardia dallo scontro di
civiltà. Mentre, nota ancora Benslama in apertura, "siamo stati testimoni
del processo di brutale azzeramento prodotto dalle devastazioni economiche,
sociali, culturali e spirituali nella maggior parte delle società
islamiche". Una lunga scia si estende "in maniera pressoché
ininterrotta dal Marocco all'Indonesia: massacri e assassini, torture e
reclusioni, spartizioni e banditidismi, arcaiche vendette e umiliazioni, anzi,
in certi casi, crimini di guerra e genocidi". E di tutto ciò l’origine non
è ignota, almeno all’Autore: "Uscite da una setta che predica un
puritanesimo intransigente(il wahhabismo), capace di ripudiare anche gli
sprazzi di gioia, le petro-famiglie hanno diffuso, attraverso i movimenti che
loro stesse hanno generato, una concezione letterale della religione,
l'ossessione d’un dio oscuro che esige
sacrificio e purificazione in ogni ambito dell'esistenza umana, ritenuta
fondamentalmente impura. Essi hanno innalzato la vitrea cloaca dietro la quale
una parte dei giovani non ha più ormai che degli occhi irritati per guardare il
mondo da quaggiù; loro hanno invertito il senso della promessa progressista: la
speranza non è più rivolta verso il futuro, ma verso un passato ingiustamente
passato, al quale occorre ritornare. Questi puritani d'Arabia hanno divorato
l’avvenire".
Non a caso già in Algeria (molti
ricordano lo splendido film sui monaci scomparsi) appare chiaro come non si
trattasse soltanto del massacro di intere popolazioni civili, ma, "molto
peggio, dei supplizi che testimoniavano un desiderio di distruggere degli
esseri in quanto tali, dove crudeltà e sessualità si mischiavano indistricabilmente
tra loro". E infatti ci sono i racconti dei sopravvissuti, nei quali i
pretesi resistenti islamici hanno inflitto sofferenze insostenibili a bambini,
donne, uomini, per poter godere d'un potere illimitato su di loro, fino a
ridurli a brandelli di carne da macelleria, come se avessero voluto far regnare
la notte d’un dio del nulla e ricondurre allo stato di cose le creature umane.
"Il supplizio dei monaci di
Tibérine mostra che per loro non ha nessuna importanza la funzione e la parola,
ogni gola è da sgozzare, ogni carne è buona per essere fatta a pezzi. Occorre
chiedersi in questo caso, così come in altri, come una civiltà possa alimentare
simili demoni sterminatori. La barbarie non può essere un fatto
accidentale".
Tenendo in conto la circostanza
che l'offerta d'una completa realizzazione anticipata grazie al tramite delle
nozze con la morte può trovare orecchie attente e numerosi acquirenti.
A questo punto Benslama introduce
la nozione di "modernismo incolto". Si tratta della
"trasformazione tecnica ed economica di uno spazio di vita, senza i mezzi
per rendere intellegibile il reale di
questa trasformazione, tale per cui gli umani che lo abitano diventano
analfabeti del loro stesso mondo e lo subiscono come un vortice
d'assurdità".
Resta ancora da osservare che
attraverso il disprezzo di sé e della propria vita l'oppresso disperato si
colloca sul medesimo terreno del suo oppressore. E così "si distrugge per
distruggere, distrugge perché lo si distrugga".
Questo ingranaggio non è tuttavia
l'esito di una fatalità, ma di una macchinazione compiuta dai governanti degli
Stati detti "musulmani". Nel luogo dello Stato essi hanno insediato
una macchina per produrre terrore e piacere. Il diritto e la democrazia restano
ad uso "meramente endogamico". E il tutto si concentra nella
"dissoluzione del politico nello spirito di corpo".
È in questo quadro -dove l'Islam
non è solo il nome di una religione ma anche quello di una civiltà costituita
da una molteplicità di culture e da una diversità umana irriducibile- che la
richiesta che sia resa giustizia all’eguaglianza di tutti gli uomini,
l'esigenza del diritto di avere dei diritti, l'appello a una democrazia a
venire "non possono essere dissociati dall'immenso lavoro sulla loro
cultura che i musulmani sono chiamati a mettere in atto. Ecco perché, come
l'Europa non è solo una questione degli europei, così l'Islam non è una cosa
esclusiva dei musulmani".
L’Islam infatti non è soltanto il
nome di una religione, ma anche quello di una civiltà costituita in un mondo
globale che è insieme il mondo reale e la sua rappresentazione.
Ma esso si evidenzia e fa
problema anche per alcuni vistosi ritardi rispetto alla modernità: l'esclusione
legalizzata, l'istituzione dell'ineguaglianza, “l'avvilimento legittimato delle
donne dalla legge teologica”. Un ruolo non secondario gioca da questo punto di
vista il velo, che per Benslama è "per la donna, l’antisegno da ostentare
in quanto percepita come “male necessario”." Un giudizio davvero durissimo
dall'interno del mondo islamico.
Che ne è dello Stato islamico?
Non meno drastico il giudizio
sulle forme del politico e statuali. "Il mondo musulmano si è liberato
dalle forze esterne del colonialismo per precipitare poi sotto il giogo della
tirannia politica dell'unità e della sua stessa realtà interna". Fino alla
tragica impasse dell'Egitto, dove l'inettitudine di Morsi ha riaperto il varco
alla dittatura militare. Perché i conti non fatti con l'illuminismo pesano
nella vita pubblica come in quella familiare. Così come quei conti non fatti
pesano anche nel cattolicesimo.
Dove ad essere messo in gioco non
è tanto l'Islam come religione quanto come cultura, dal momento che "la
libertà di ciascuno non è possibile che assieme a quella degli altri".
Fa riflettere l'osservazione di
Benslama: "Il fatto che nella civiltà musulmana non sia mai apparso
l'equivalente, o qualcosa di simile, del concetto di cittadino, e degli effetti
che ne derivano nella storia, è l’indice di una faglia sistemica che resta a
tutt’oggi da analizzare, al di fuori di ogni schematismo e anacronismo".
Anche se la possibilità dell'impossibile è l'orizzonte weberiano di qualsiasi
politica, quelle islamiche incluse. In esse vanno precisati gli obiettivi di
una laicità, che ovviamente non si propone la distruzione dell'autorità
religiosa. Vanno altresì precisati gli obiettivi della libertà, come pure della
fraternità: la terza e più negletta parola di un Ottantanove che -non va
dimenticato- ha visto la ghigliottina al lavoro nei confronti dei preti
vandeani, i cui lontani antenati avevano usato i roghi degli inquisitori contro
eretici e infedeli. Ma è pur vero che le diverse religioni e le diverse civiltà
imparano l'una dall'altra dai rispettivi errori e perfino dalle tragedie.