Il ritorno dei Piccaluga
di
Giovanni Bianchi
Il potlatch
I Piccaluga sono una famiglia di giostrai
che in prossimità delle festività religiose e civili piazzava il proprio
artigianale parco dei divertimenti e i carrozzoni per gli alloggi dietro il Re
de Sass a Monza o dalle parti del Restellone a Sesto San Giovanni. Mi ha quindi
sorpreso e quasi commosso rivederli con tutto il macchinario e l’apparato
ludico e scenico nella grande piazza Oldrini della ex città del lavoro,
ribattezzata da alcuni sestesi piazza Tienanmen.
Ci
affrettavamo, Silvia ed io, a ritornare a casa dopo aver fatto il pieno delle
medicine – non si sa mai – mentre la sera ricominciava a pungere con il freddo
dell’inverno e gruppi di ragazzi si affrettavano, carichi di zainetti, di sporte
e di bottiglie, verso ospitali case di amici dove celebrare l’immancabile
cenone di San Silvestro.
Finalmente
il potlatch, addomesticato e
tradotto, è giunto anche da noi, complici la crisi economica, e i prezzi non sempre
abbordabili dei ristoranti ed anche un qualche timore diffuso per il terrorismo
in vena di esercitarsi tragicamente in luoghi di pubblico ritrovo.
In
fondo una bella notizia questa del potlatch
all’italiana, nel quale mi ero imbattuto per la prima volta nel 1977 a San
Francisco durante un caucus delle
primarie del Partito Democratico. Addirittura struggente per la mia memoria
d’antico liceale dello Zucchi la ricomparsa dei Piccaluga: sempre sana azienda
familiare, con i vecchi arnesi restaurati e la pubblicità al passo dei tempi: “Piccaluga European Center”…
E
avanti con tutto il mio americanismo da spettacolo: “Show mast go on”… e Barbra Streisand e Madonna in sottofondo.
Ma
perché i Piccaluga? Evidente che l’inconscio stava lavorando.
I
Piccaluga come metafora di questa Italia profonda che resiste, non molla, si
rivernicia: lei, le sue feste, i suoi lavori, le abitudini, gli spettacoli, le
innovazioni, gli eventi, la politica… La vita quotidiana che precede, sollecita
e talvolta determina la politica e i suoi cambiamenti. I Piccaluga e le loro
giostre come metafora resistente e felliniana.
Tutto
sommato una bella notizia perché il rinnovamento e quantomeno il cambio di
passo dell’anglo-americano nel cartellone pubblicitario sono elemento della
vitalità e di un futuro nel quale proviamo a fare la nostra parte, qualche
volta patetici, non raramente furbi, e se il caso spintonando.
E
allora – perché no? – la giostra dei Piccaluga come metafora del governo Renzi:
quello di prima, quello in carica per interposto premier e quello che dovrebbe
venire.
È affiorato
d’un balzo alla mia memoria politica tutto l’armamentario analitico che mi sono
costruito in una vita non breve e tutto sommato attenta ai casi del mondo.
Prima
conferma. L’uomo, l’homo italicus, ha
bisogno di rappresentazione e di spettacoli: li chiamavamo circenses. Seconda conferma.
Lo spettacolo mantiene e rinnova i propri apparati e le proprie regole. Terza
conferma. Il successo dello spettacolo e il suo persistere dipendono
dall’osservanza di regole non scritte,
ma efficaci. Quarta conferma: quella fondamentale. La politica, che sempre più
si è fatta spettacolo, per vincere e per persistere deve osservare queste nuove
regole. Può
disturbare il mio riformismo sgangherato, ma Ronald Reagan, non sarà forse
stato il massimo degli attori di Hollywood (provare il confronto con Marlon
Brando), ma anche da presidente degli Stati Uniti ha recitato la sua parte – e
solo quella – con grande rigore e senza evidenti deragliamenti. Grazie
alla coerenza della recita, Ronald Reagan è passato alle cronache della
politica e alla storia come il presidente delle reaganomics, senza essersi laureato in economia e probabilmente
senza avere mai letto von Hayek, Polanyi e neppure Milton Friedman. Grazie alla
coerenza e al culto dell’immagine della leadership, Reagan è nell’olimpo della
destra globale e fa la sua bella figura in coppia con Lady Thatcher.
Si
pensi invece alla disavventura comunicativa e storica di papa Pio IX. Dopo
avere esordito come filopatriota agli occhi degli italiani, compì una brusca virata verso la reazione, lasciando
perplessi gli italiani religiosamente pii, e pieni di livore i patrioti devoti
…
La forza della rappresentazione
Indro Montanelli |
Rimetto
in fila sinteticamente tutto l’armamentario teorico in mio possesso. In
principio il passo del Manifesto del 1848: Tutto
ciò che è solido si dissolve nell’aria. Il prevalere della rappresentazione
sulla realtà (fino al dilagare dei nuovi miti che hanno malamente sostituito le
antiche ideologie) costringe le politiche a gestire anzitutto la
rappresentazione, lo storytelling,
sia dal proprio versante come da quello dei consumatori-spettatori.
Avendo
in ogni fase storica la politica regole proprie, ancorché mutuate da altri
contesti, ne discende in questa congiuntura che la politica assume le regole
della rappresentazione. Se le osserva ne è premiata, se devia, viene punita.
(C’è dunque una coerenza perfino nell’universo della cosiddetta postverità.)
In
particolare nel postmoderno la leadership, avendo prima interpretato e poi
subordinato gli apparati del politico – i partiti e i loro dintorni –, ne
consegue che le regole dello spettacolo legittimano il senso e il profilo di
una politica, ne garantiscono l’affidabilità, vuoi all’interno della propria
parte, vuoi rispetto alla platea
generale e nazionale (e globale) degli spettatori sempre-meno-cittadini.
Posso
mettere in campo o semplicemente citare il Walter Benjamin del Trauerspiel e il molto più abbordabile
Raffaele Simone di Il Mostro Mite.
Dalle
frequentazioni di testi e films resistenziali emerge addirittura un sorprendente
caso di studio dovuto all’intelligenza storica di Indro Montanelli, che anche
in questa circostanza si staglia come uno dei più grandi giornalisti del
secolo.
La
vicenda, intrisa di elementi autobiografici in quanto Montanelli fu realmente
imprigionato come partigiano nel carcere di San Vittore, è quella di Giovanni
Bertone, un piccolo truffatore che estorce soldi alle famiglie dei prigionieri
dei nazifascisti promettendogli di far ritornare a casa i loro cari pagando dei
soldati tedeschi per la loro liberazione.
“Alla fine – recita Google – da spia Bertone si trasforma in patriota,
fino al rifiuto di continuare a collaborare, finendo fucilato”.
In
questo caso la coerenza con l’immagine, la narrazione e il personaggio finisce
per fare premio addirittura sullo spirito di conservazione e spinge all’eroismo
patriottico chi era vissuto di truffe e di espedienti.
Lontana
da me la proposta di una sorta di martirio dell’immagine; mi limito ad
analizzare, per quanto mi riesce, le regole e le coerenze, comunque operanti,
all’interno delle vigenti narrazioni politiche. Per questo le mie critiche sono
tutte e dichiaratamente datate dopo l’esito referendario del 4 dicembre. Anzi,
dopo il discorso di addio in televisione del Premier.
E mi
convince ulteriormente dell’approccio il riferimento a regole dello spettacolo
assai meno paludate e addirittura oratoriane.
È
risaputo che, ai tempi del mondo cattolico ambrosiano trionfante, quasi ogni
parrocchia amava dotarsi di una propria filodrammatica. Versatile,
appassionata, applauditissima, sicuramente dilettantesca e dialettale. Era così
anche nella chiesa prepositurale di Santo Stefano in Sesto San Giovanni dove
papà calcava in qualche modo il palcoscenico. Tra i suoi racconti ricordo
quello relativo a una performance di Edo Calderini.
Era
l’Edo personaggio particolare e certamente fuori dal comune. Pittore – dava il
meglio di sé nei ritratti di Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi –, scultore,
architetto di “porte trionfali” per le processioni solenni, costruttore di
grotte di Lourdes per l’oratorio San Luigi e non pochi cortili di quella che
allora veniva denominata Stalingrado d’Italia. A tanta versatilità nelle arti
plastiche e figurative Edo Calderini accompagnava esibizioni filodrammatiche,
in un personaggio tutto suo e da lui inventato. Ruolo quindi da mattatore nelle
serate a far ridere; successo che gli impediva però l’accesso alle
rappresentazioni drammatiche.
Fu
così che una sera, escluso da non so quale tragedia, volle prendersi la
rivincita. E comparve travestito da cinese, proprio durante la scena madre del
dramma, e attraversò tutto il palco con un cesto colmo, ripetendo la cantilena
commerciale clavatte clavatte…
Grande canestro di lui!, commenterebbe Dan Peterson, e grande e
improvviso flop della rappresentazione
corale. Tutto per dire che le trasgressioni alle narrazioni, anche a quelle
politiche, è bene evitarle.
La fatal serata del 4 dicembre
Cleant Eastwood |
Torniamo
dunque alla fatal serata del 4 dicembre. Matteo Renzi dice da par suo che
lascerà il campo. Si commuove, e mi commuove. Annoto che, dopo la sconfitta
alle primarie con Bersani, è la seconda orazione autofunebre con la quale il
Nostro mi inchioda al video.
Un
lutto destinato comunque a durare poco perché, dopo un solo giorno passato in
Toscana in famiglia a giocare alla playstation con i figliuoli, il Matteo
resuscita direttamente a Palazzo Chigi, dove inaugura in fretta e furia una
sorta di consultazioni parallele a quelle del Quirinale. (Devo subito
confessare che mi è venuto in mente che uno così in Germania o nel Regno Unito
avrebbe chiuso con la politica.) Ma, la rapidità e lo scarso rispetto delle
prerogative altrui sono universalmente riconosciuti come connaturati al suo
innato dinamismo.
Renzi
comunque mette mano – probabilmente sgomitando con il compassatissimo (ma, ce
ne accorgeremo, correttissimo e coriaceo) “muto di Palermo”, eletto sul colle
più alto – al governo Renzi-bis, con il capace Paolo Gentiloni, in riserva agli
Esteri.
Un
governo volutamente fotocopia, con un Premier dal profilo volutamente così
ostentatamente low da far rimpiangere
i fasti del precedente governo, che di diverso – si capirà a governo
definitivamente completato – aveva soltanto il marchio renziano, le luci e
l’eloquio abbagliante, gli effetti speciali. Visto così, il Renzi-bis, appare,
nella scia luminosa del suo precedente autentico, una sorta di governicchio: una squadretta di
periferia che ebbe, nella precedente incarnazione, al vertice dell’attacco un
Maradona (vero, o sedicente, secondo le interpretazioni). Come fossimo tornati
a una città dell’Est e della DDR, dove la differenza più eclatante la facevano
di notte l’assenza delle insegne luminose.
Proprio
questa del resto pare a me la forza di Paolo Gentiloni, destinato
prevedibilmente a durare a dispetto delle sue intenzioni. E progressivamente
avviato ad essere apprezzato per differenza. E Renzi? Molti si stanno tutt’ora
interrogando sulle sue reali intenzioni, sul vero temperamento, sulla capacità
di gestire un’altra maschera e un’altra politica. Molti hanno anche l’aria di
atteggiarsi, soprattutto dalle colonne dei giornali, a suoi precettori o
direttori spirituali. È davvero monocorde e monosmorfia il Renzi come Clint
Eastwood? Qualcuno ha scritto dopo la prima direzione e la prima assemblea susseguenti
alla sconfitta referendaria che, rimasto al vertice del partito – che fin dagli inizi aveva provveduto ad ibernare –
avrebbe inaugurato un nuovo corso zen …
Non si
tratta tuttavia a mio giudizio né di versatilità, né di capacità di prendere
atto delle sconfitte e degli errori, tantomeno di azzardare giudizi etici o
morali. Gli psicoanalisti hanno mantenuto aperti i loro studi nonostante la
minore liquidità dei pazienti in seguito alla crisi, e i confessori continuano
il loro ministero, che subisce tuttora buone impennate nella prossimità delle
feste religiose.
Il
fenomeno politico Renzi è e resta tale al di là delle sue intenzioni e dei
giudizi, benevoli o malevoli, dei critici. Il mio avviso è che nella fase di
gestione delle rappresentazioni e di politica dell’immagine e della leadership
che attraversiamo il vero Renzi è quello che ha imperversato nei quasi tre anni
di governo.
Un
altro “Renzi politico” probabilmente non esiste, non serve a lui e forse
neppure al Paese. Soprattutto, pure al netto della conclamata smemoratezza
italica, non mi pare ricostruibile e ripresentabile just in time.
Il
problema soprattutto non è chi sia il vero Renzi: quello nato a Pontassieve,
quello che vinse 48 milioni al telequiz, quello che si recò ad Arcore da Berlusconi
premier, quello che gioca alla playstation con i figliuoli…
Giudichereste
la politica di Cavour dalla sua vita privata? Hanno fatto lo scout da ragazzi
Mazzini, Garibaldi, Aldo Moro o Pertini? L’europeismo di De Gasperi discende
forse dalla sua pietà religiosa trentina? Il Pci di Togliatti dal cattivo
carattere del leader? Il vero Marlon Brando – quello che ci ha impressionati e
segnati di dentro, spingendoci al cinema –
è quello di Fronte del porto,
di Apocalypse Now, o di Ultimo tango a Parigi, o quello di
vicende private non sempre eclatanti e che comunque riguardano lui soltanto? Non
è la stessa cosa per Dustin Hoffman, Vanessa Redgrave, Meryl Streep, Leonardo
Di Caprio?
Soprattutto
i cantori della narrazione e della leadership si rassegnino: la coerenza di
questi leaders è quella del format politico piuttosto che quella della realtà
personale.
Per
questo mi auguravo che Matteo Renzi lasciasse davvero: tutto, partito compreso,
almeno per due anni. Ignoravo forse il rischio della dimenticanza? Certamente
no: ma la leadership che Matteo ha impersonato richiedeva lo stacco e il
rischio. Forse il giovane toscanaccio un po’ bullo che presume troppo di se
stesso non ha avuto sufficiente fiducia in se stesso… e comunque il rischio
valeva la candela. Anche la politica
dello spettacolo ha sue regole che non patiscono di essere sconvolte o
calpestate. Comunque vedremo.
Intanto
davanti ai nostri occhi c’è un governicchio
(lessico renziano). Renzi aveva promesso, legittimando la sua corsa
costante al maggioritario: “Non faremo governicchi”! E questo che cos’è? Aveva
promesso e spergiurato in tutta una serie di incontri pereferendari (che la tv
ci ha poi riproposto in sequenza) “Se perdo, me ne vado”. E invece eccolo lì di
nuovo, in posizione calcisticamente più arretrata per rilanciare la ripartenza,
a meritarsi l’epiteto che sempre il grande Indro Montanelli coniò per un suo
celebre e dinamicissimo conterraneo, Amintore Fanfani: «Rieccolo»!
Come a
suggerire che la velocità dei tempi fa sì che sia già venuta la stagione che
chiede di rottamare i rottamatori. Con l’augurio, per il bene del Paese, che
Gentiloni si faccia apprezzare proprio per la mancanza di effetti speciali e la
solidità di una politica più “tradizionale”, che insegua meno i talkshow e stia
più nascostamente “al pezzo”.
È come
se malinconicamente i Piccaluga fossero tornati in piazza Oldrini, con le
vecchie giostre ed i vecchi carrozzoni, senza i restauri e soprattutto senza la
nuova pubblicità sul cartellone: “Piccaluga
European Center”...
Renzi contro Renzi
Matteo Renzi |
È
Renzi che ha seppellito il renzismo. Durante l’addio in tv la sua commozione (e
la mia per quel che conta) erano reali. Quella sepoltura di fronte al grande
pubblico poteva contenere una speranza di resurrezione. Il renzismo viene definitivamente
archiviato con il ritorno di Matteo nel ruolo del boss facitore di governi e di
governicchi a Palazzo Chigi.
Troppo
evidente l’allusione e troppo rapido il ponte verso il Renzi prossimo e
venturo. Dopo i giuramenti d’addio ripetuti, l’opzione e la caparra sul dopo
Gentiloni, che nient’altro è agli occhi di tutti che un Renzi-bis, deve fare
affidamento sulla smemoratezza e l’imperituro guicciardinismo degli italiani.
(Nessuno lo ha meglio analizzato di Salvatore Natoli.)
Sparito
il cambio di passo la cui fiducia poggiava sul noi abbiamo rottamato, e siamo
legittimati a farlo e a governare, perché non siamo come gli altri…
Si può
osservare che il guicciardinismo sia la costante del Bel Paese, destinato ogni
volta riemergere. Ma le obiezioni che insorgono non sono poche né
sottovalutabili. Renzi e il suo decisionismo si sono presentati come l’altro
rispetto all’andazzo abituale. Anche la legittimazione della subordinazione
della logica della Costituzione a quella della governabilità poggiava su questo
assunto e sulla fiducia conseguente. Di più la spinta a lasciarli governare
discendeva da un’osservazione fattasi senso comune: che i tempi e i riti del
guicciardinismo fossero giunti a un punto tale di cancrena da mettere in
pericolo la salute stessa della Nazione. Il guicciardinismo nella sua fase
ultima minacciava di trasformarsi nella tabe di se stesso, facendosi
insopportabile oltre che pericoloso. Resuscitarlo dopo avere sepolto il
renzismo e le sue speranze è più un’enorme delusione che un guadagno.
Torniamo
alla vena narrativa. Ho assistito con mia moglie il pomeriggio di Capodanno,
inchiodati davanti al televisore, alla proiezione del vecchio capolavoro
disneiano di Pinocchio. È come se il
burattino collodiano, subito messo nel mirino dalla critica spietata ma
efficace di Crozza, avesse ancora una volta scelto di riportarci nel Paese dei
Balocchi dorotei, invece di farsi politicamente uomo ed adulto.
Con
tutte le ulteriori scivolate, che non conseguono tanto dalla crisi del
renzismo, quanto dall’irreversibile deterioramento del guicciardinismo giunto a
uno stato terminale (disincanto e apatia degli italici, occupazione dello Stato
da parte delle forze politiche, cancrene irriformabili della burocrazia, uso
della cosa pubblica per fini costantemente privati, etc. ecc.) che gli impedirebbe di proseguire nella
logica abituale e secolare di spingere il Paese ogni volta sull’orlo del
baratro e lì trovare ogni volta la capacità di arrestarsi.
Soprattutto
Renzi sta cessando di essere l’antemurale dei riformisti nei confronti dei
“populismi” di Salvini e di Grillo: i due concorrenti. Attori anch’essi,
ovviamente a modo loro. Uno per lunga professione, l’altro per un frenetico
mutar di felpe.
Potrebbe
anche accadere, e lo temo nonostante lo scivolone europeo (la memoria corta
funziona per tutti), che un buon numero di italiani pensino allora sia meglio
votare un comico che prova a fare politica, piuttosto che un politico che ha
provato a fare le comiche.
Insomma,
Renzi è caduto perché ha creduto nell’onnipotenza della leadership: un devoto
assiduo della religione dei neopoteri, assai più diffusa nelle nuove
generazioni (Erasmus incluse) di Scientology. Matteo, nel connubio ogni volta
inevitabile tra politica e potere, ha scelto il potere al posto della politica.
E non
importa dal mio punto di vista – che si sforza di essere sistemico e si ostina
a non diventar tifoso – se nel caso specifico la leadership coincideva con la
sua leadership e la sua persona. Per
questo ribadisco che le mie critiche alla mesta epifania del renzismo sono tutte successive alla
sconfitta. E non mi tocca il rimprovero della disillusione. Perché rivendico il
diritto, anche in politica e per la passione politica, oltre che nel tifo
sportivo o negli affetti, di essere seriamente disilluso. Si può
perdere e bisogna saper perdere.
Meglio il refrain di questa canzone che la struggente nostalgia melodica del
grande Sergio Endrigo: la musica è finita,
e gli amici se ne vanno… (I compagni
lo hanno fatto da tempo.)
Autobiografia della nazione
Niccolò Machiavelli |
Bisogna
saper perdere. Il giovane Churchill fu sconfitto la prima volta che si presentò
in una costituency britannica. Non
risulta che pronunciasse nessun memorabile discorso d’addio. Provo a ipotizzare
che si preparasse seriamente alla rivincita, rispettando i tempi e le modalità,
ivi incluse quelle etiche e comunicative, della democrazia di allora.
Ci
deve pur essere un modo per farlo anche oggi, e per farlo collettivamente:
perché sto sempre pensando in termini di tendenze e di partito, di “autobiografia
della nazione”, e non di grandi firme. Una
prima tappa sarebbe incominciare a riflettere insieme sulla solitudine della
leadership. Per porre rimedio prima alla solitudine e poi alla leadership.
I
democratici e gli italiani sono stati generosi e non prevenuti con Matteo
Renzi. E infatti non gli hanno chiesto spiegazioni sul “Patto del Nazareno”: un autentico ritorno e ripescaggio degli arcana
imperii, all’interno di una politica tutta comunicazione. Ma anche in
politica, diversamente che nel tifo sportivo, il credito non è a prescindere e
non può essere illimitato.
Ho già
chiarito il rischio cui stiamo correndo incontro. Ovviamente non si tratta
dell’unica sortita possibile. Ma si è fatto tardi e devo concludere con
l’abbozzo almeno di una proposta, volendo evitare il rimprovero di papa
Francesco che mette in guardia contro l’“eccesso
diagnostico”.
Mentre
il governo Gentiloni prova a governare senza durare, il segretario del PD non
riesco a vederlo intento a ricostruire il partito. Non gli importa, o forse non
ci crede. Il risultato è il medesimo. E il Nazareno assume nell’immaginario
collettivo il ruolo dello spogliatoio che prelude al rientro in campo a Palazzo
Chigi. Forse, se Gentiloni riuscirà a fare bene e in qualche modo a portare la
nave nel porto delle elezioni, potremmo assistere a un cambio risarcitorio:
Renzi a Palazzo Chigi, suo luogo naturale, e Gentiloni segretario del partito.
Può
funzionare? Fantapolitica? Nell’epoca della postverità, della postdemocrazia e
della narrazione totale non è un’ipotesi scorretta né impensabile.
Che
Renzi il partito non lo voglia lo ha dimostrato da quando è stato eletto
segretario o almeno da quando si è dovuto trasferire a Palazzo Chigi. Il PD lo
ha “scalato”, sottomesso, soprattutto gli ha impedito di funzionare. Da partito
tradizionale si è progressivamente trasformato nella catena di montaggio
audiovisuale che trasmette inviti pressanti agli “eventi” programmati dall’alto, con la sollecitazione di twitt martellanti,
ai quali gli scritti (li vorreste chiamare militanti?) sono invitati ogni volta
a rispondere con grande tempestività, come balzando in piedi alle prime note
dell’inno di Mameli.
O
forse sono io a dovermi scusare per la miopia, perché probabilmente questo è
quantomeno il prototipo del postpartito.
La proposta? È
come sempre noiosamente sistemica. Sono anni che stiamo inseguendo la
ristrutturazione veloce della nostra democrazia a partire dalle regole, in
particolare quelle elettorali, non a caso sospinte verso sistemi comunque
maggioritari. (Per quelle costituzionali
invece leggo pronostici che parlano di un letargo almeno decennale.)
Non è una deriva
inaugurata da Renzi. Nell’Ulivo ha un mentore in Arturo Parisi e nel Partito Democratico
trova una tappa significativa nella proposta di un “partito a vocazione
maggioritaria” avanzata da Walter Veltroni.
Nonostante le
spiegazioni di amici valenti, ho sempre faticato a pensarla plausibile, per la
lapalissiana ragione che non mi risulta sia mai comparsa la proposta di un partito
“a vocazione minoritaria”: che probabilmente non avrebbe senso né presentare né
votare.
Devo anche
aggiungere di avere schierato da presidente nazionale le Acli con Mariotto
Segni sul referendum abrogativo del 9 giugno 1991: il referendum che ha
ottenuto il più alto consenso degli italiani in tutto il dopoguerra. Nostri
consiglieri erano il costituzionalista Leopoldo Elia e Roberto Ruffilli,
sciaguratamente abbattuto dai terroristi rossi. Il mantra di Roberto Ruffilli
era che il cittadino dovesse essere arbitro
della vita democratica.
Con queste
sbrigative risoluzioni, reiteratamente riproposte, e con il taglio dei tempi di
ogni discussione ho francamente l’impressione che al cittadino non venga
assegnato neppure il ruolo del raccattapalle. E allora pover’uomo? Proponi il
ritorno al proporzionale? No. Propongo di cambiare ottica e campo, e
soprattutto soggetti.
Anziché lavorare
costantemente alle regole, che hanno ampiamente dimostrato di essere incapaci,
quanto meno in Italia, di maieutica politica in ordine alle forze in campo, la
mia proposta è di ricominciare dai soggetti della politica.
Proviamo a ricostruire il partito
Beppe Grillo |
Beppe Grillo ci
si è cimentato: scambiando purtroppo la fossa delle Filippine per il Cervino e,
con una pensata tutta postmoderna e tecnologica: sostituire Montesquieu e
Tocqueville con gli algoritmi, non avvedendosi neppure che, soprattutto
rispetto alla popolazione anziana, l’esclusione che ne discende è più grande di
quella che vigeva elettoralmente nel Regno d’Italia con il voto censitario. Conosco
a menadito tutte le critiche da sinistra: non c’è più popolo, siamo messi
peggio che all’epoca del popolaccio
leopardiano del 1824, è tempo di oligarchie, il ricorso al voto premia soltanto
i populisti, alle nazioni si sono sostituite le moltitudini di Toni Negri e Michael Hardt…
Eppure, si
concederà, questo neopopolaccio, soprattutto a partire dagli under 25, è corso
in massa al voto referendario sorprendendoci, vuoi positivamente (per la
frequenza), vuoi negativamente per l’esito. E infatti la prima cosa da chiarire
è che non siamo stati battuti da una porzione tafazzista della sinistra, ma dal
popolo attuale degli elettori italiani.
Che fare? Vecchio interrogativo e vecchio titolo
di una politica desueta.
Provo a partire
a mia volta dai giovani. È risaputo che molti di essi hanno trovato lavoro e
occupano posti eminenti nell’ambito della ricerca in Paesi dell’Unione o in
altra parte progredita del globo. Da dove il successo?
Credo che il
merito vada attribuito per la gran parte al nostro sistema scolastico, non
certamente inferiore a quello degli altri Paesi progrediti. Una scuola tuttora
segnata dall’impronta gentiliana, e non ancora diroccata da una serie di
interventi governativi recenti, più attenti ai problemi economici e burocratici
del corpo insegnante che alla natura e all’aggiornamento dei programmi.
Comunque il
sistema funziona e i frutti sono sotto i nostri occhi. Ne discende una domanda
niente affatto maliziosa: come mai il Bel Paese produce ricercatori in grado di
spopolare, mentre il ceto politico e la classe dirigente in generale non
sembrano, anzitutto ai nostri connazionali, all’altezza della situazione?
La proposta mi
sembra perfino obbligata e del tutto naturale. La politica, oltre che occuparsi
delle scenografie, dovrebbe tornare a occuparsi delle strutture che promuovono
la classe politica. E siccome non sto pensando alla traduzione dell’Ena
transalpina in italiano, siamo di nuovo al discorso dei partiti.
Organizzazione
del politico, organizzazione della cultura politica e della selezione della
classe dirigente: tramite per questo tra la società civile e le istituzioni.
Insomma, siamo sempre all’articolo 49 della Costituzione, che nessuno ha mai
voluto cambiare e che tuttavia continua ad essere disatteso. Mi rispiego:
anziché continuare a metter mano alle regole, ri-proviamo a organizzare i
soggetti della politica, scontando tutte le difficoltà del caso e facendo
tesoro delle esperienze passate e recenti.
Non i vecchi
partiti ovviamente: nessuno, tantomeno i nostalgici, è in grado di
resuscitarli. Partiti nuovi, neopartiti, postpartiti, in grado di ridare senso
e vigore a quella che i nostri maggiori, Togliatti in testa, definirono la
“democrazia dei partiti”.
Che cosa hanno
fatto funzionare gli inglesi dopo l’esito di Brexit? È bastata mezza giornata a
Cameron per sgomberare il campo e una settimana per trovare il successore in
Theresa May. Il tutto all’interno del sistema maggioritario più compiuto del
quale si abbia contezza. Ma nel momento di massima crisi è stata la funzionalità
della democrazia dei partiti a togliere il Regno Unito dai guai.
Non ci sono meno
moltitudini che da noi a Londra e
dintorni; ci sono regole elettorali che possono essere invidiate o meno: quel
che ha tratto la politica inglese dalle secche è il funzionamento della
democrazia dei partiti.
Non serve a
niente guardarsi in giro e applicare il metodo comparativo? Come funzionano in
proposito le cose nelle coalizioni tedesche e addirittura nella “formula magica” degli svizzeri –
democrazia piccola, ma stagionata – che vede da oltre 25 anni tutti i partiti
al governo…
Non sto
suggerendo ammucchiate, ma semplicemente che si ricreino e si facciano
funzionare i postpartiti della postdemocrazia. Perché ancora una volta mi
sorprende che non si metta a tema l’uscita, per tutti, dalla solitudine della leadership.
La solitudine della leadership
Paolo Gentiloni |
Possiamo anche
evitare il nome partito, purché se ne mettano in atto le funzioni:
l’organizzazione di una cultura politica, la creazione di un progetto,
l’individuazione di un programma da proporre prima agli iscritti e poi agli
elettori, la selezione della classe dirigente.
E poi, per evitare ogni riferimento ed ogni contaminazione con le
vecchie ideologie, chiamiamolo “motociclismo”:
così potremmo incorporare una promessa di velocità…
Ma c’è una cosa
soprattutto che chiede di essere recuperata: un partito democratico ha bisogno
come dell’ossigeno di una dialettica
interna. È questa che rende sapido il dibattito sulle idee, che rende
possibile la creazione e l’avvicendamento delle leadership. Che dà senso alla
formazione di quadri e dirigenti. Senza queste caratteristiche non si ha
partito moderno (ed anche postmoderno).
Sono questa
natura e questo funzionamento del partito che lo rendono vivo e vegeto,
vivibile all’interno secondo regole condivise, credibile all’esterno. Tutti i
partiti democratici del Vecchio Continente e del mondo che funzionino, si
comportano così. E questo al di là della forza e dello smart della leadership.
Così non hanno
fin qui funzionato le cose nel PD di Renzi. Non per mancanza di tempo, ma perché
questa è la matrice reale oramai fattasi
manifesta del partito. Al confronto dialettico è succeduto di fatto il dileggio
dell’avversario, secondo un copione che si esercita dentro i confini del partito
e fuori di esso, nei confronti dei competitori esterni.
Così il Bel Paese risulta diviso. I pozzi sono
avvelenati, e somiglia a una Siria disarmata e corsa da fazioni intente
anzitutto a delegittimarsi reciprocamente.
Quanto può
durare? Può una democrazia subire quotidianamente questo stress?
Credo che si
stia facendo largo lentamente – troppo lentamente – tra gli italiani il senso
di un idem sentire oramai irrimediabilmente lacerato. Mentre il tempo dei
divisori dovrebbe essere augurabilmente finito.
Ma non si vede
sulla cresta dell’onda un gruppo di unificatori, distribuito sotto le diverse
bandiere e nelle aree politiche in concorrenza. I partiti democratici del
nostro dopoguerra, con tutti i difetti poi sfociati in Tangentopoli, gestivano
il proprio profilo ma anche la salvaguardia delle ragioni altrui.
È infatti noto
che Giuseppe Scelba, autore di un ordine nelle piazze italiane che non
disdegnava dal ricorrere all’uso forte della polizia, fu sempre tra i più
contrari a mettere fuori legge il Partito Comunista.
Ma vi è anche un
elemento che riguarda la quotidianità. I vecchi partiti – da non ripetere –
strutturarono il civile con le loro culture e le loro pratiche democratiche.
L’antagonismo anche duro presupponeva la presenza dell’avversario come
necessario alla convivenza democratica sul territorio e nelle istituzioni.
Tutto questo non è stato fatto e non viene neppure oggi perseguito.
È come se la
leadership, senza il fondamento di una cultura politica consolidata, senza un
progetto e senza un programma che fidelizzi gli appartenenti, abbia preferito
semplificare il campo eliminando sul nascere ogni possibilità di concorrenza e
di alternativa. Come se un partito inerte forse l’unico in grado di seguire e
sostenere la leadership.
Siamo stati sconfitti,
ma chi sta seriamente pensando e lavorando a ricostituire una presenza
partitica? I partiti non si fanno né da Palazzo Chigi né dal Quirinale: si
possono scalare solo quando esistono sul territorio e tra la gente.
Non si dà
democrazia senza partecipazione (i famosi “corpi
intermedi” della dottrina sociale della Chiesa) neppure dove le forme
partito sono quelle del partito elettorale. La stessa organizzazione delle
primarie e dei caucus negli Stati Uniti
recupera elementi di partecipazione senza i quali nessuna democrazia può
continuare ad essere tale.
Nessun partito
può per converso sorgere dall’accumulo e dalla sommatoria di esperienze locali.
Ma la leadership che lancia il progetto e il programma deve farsi carico
dell’organizzazione sul territorio. Altrimenti la democrazia diventerà
progressivamente altro da se stessa e il partito la seguirà in un malinconico
tramonto.
La democrazia
può patire, in nome della governabilità, parziali e temporanee restrizioni
della partecipazione, ma non può prescindere da essa all’infinito. La passione
politica, la sequela sono tutt’altra cosa rispetto al tifo sportivo.
Ovviamente
ignoro se questo film sia in programma da qualche parte, in quale studio, e
neppure se qualcuno si stia già occupando della sceneggiatura. Mi limito a dire
che un percorso politico che insista unicamente sul mutamento delle regole
senza curarsi dell’organizzazione della partecipazione democratica – della sua
identità e, uso un termine ostrogoto, soggettivizzazione
– esula totalmente dal mio attuale e futuro sogno di mondo.