UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 13 gennaio 2017

Il ritorno dei Piccaluga
di Giovanni Bianchi


Il potlatch
I Piccaluga sono una famiglia di giostrai che in prossimità delle festività religiose e civili piazzava il proprio artigianale parco dei divertimenti e i carrozzoni per gli alloggi dietro il Re de Sass a Monza o dalle parti del Restellone a Sesto San Giovanni. Mi ha quindi sorpreso e quasi commosso rivederli con tutto il macchinario e l’apparato ludico e scenico nella grande piazza Oldrini della ex città del lavoro, ribattezzata da alcuni sestesi piazza Tienanmen.
Ci affrettavamo, Silvia ed io, a ritornare a casa dopo aver fatto il pieno delle medicine – non si sa mai – mentre la sera ricominciava a pungere con il freddo dell’inverno e gruppi di ragazzi si affrettavano, carichi di zainetti, di sporte e di bottiglie, verso ospitali case di amici dove celebrare l’immancabile cenone  di San Silvestro.
Finalmente il potlatch, addomesticato e tradotto, è giunto anche da noi, complici la crisi economica, e i prezzi non sempre abbordabili dei ristoranti ed anche un qualche timore diffuso per il terrorismo in vena di esercitarsi tragicamente in luoghi di pubblico ritrovo.
In fondo una bella notizia questa del potlatch all’italiana, nel quale mi ero imbattuto per la prima volta nel 1977 a San Francisco durante un caucus delle primarie del Partito Democratico. Addirittura struggente per la mia memoria d’antico liceale dello Zucchi la ricomparsa dei Piccaluga: sempre sana azienda familiare, con i vecchi arnesi restaurati e la pubblicità al passo dei tempi: “Piccaluga European Center”
E avanti con tutto il mio americanismo da spettacolo: “Show mast go on”… e Barbra Streisand e Madonna in sottofondo.
Ma perché i Piccaluga? Evidente che l’inconscio stava lavorando.
I Piccaluga come metafora di questa Italia profonda che resiste, non molla, si rivernicia: lei, le sue feste, i suoi lavori, le abitudini, gli spettacoli, le innovazioni, gli eventi, la politica… La vita quotidiana che precede, sollecita e talvolta determina la politica e i suoi cambiamenti. I Piccaluga e le loro giostre come metafora resistente e felliniana.
Tutto sommato una bella notizia perché il rinnovamento e quantomeno il cambio di passo dell’anglo-americano nel cartellone pubblicitario sono elemento della vitalità e di un futuro nel quale proviamo a fare la nostra parte, qualche volta patetici, non raramente furbi, e se il caso spintonando.


E allora – perché no? – la giostra dei Piccaluga come metafora del governo Renzi: quello di prima, quello in carica per interposto premier e quello che dovrebbe venire.
È affiorato d’un balzo alla mia memoria politica tutto l’armamentario analitico che mi sono costruito in una vita non breve e tutto sommato attenta ai casi del mondo.
Prima conferma. L’uomo, l’homo italicus, ha bisogno di rappresentazione e di spettacoli: li chiamavamo circenses. Seconda conferma. Lo spettacolo mantiene e rinnova i propri apparati e le proprie regole. Terza conferma. Il successo dello spettacolo e il suo persistere dipendono dall’osservanza di regole non scritte, ma efficaci. Quarta conferma: quella fondamentale. La politica, che sempre più si è fatta spettacolo, per vincere e per persistere deve osservare queste nuove regole. Può disturbare il mio riformismo sgangherato, ma Ronald Reagan, non sarà forse stato il massimo degli attori di Hollywood (provare il confronto con Marlon Brando), ma anche da presidente degli Stati Uniti ha recitato la sua parte – e solo quella – con grande rigore e senza evidenti deragliamenti. Grazie alla coerenza della recita, Ronald Reagan è passato alle cronache della politica e alla storia come il presidente delle reaganomics, senza essersi laureato in economia e probabilmente senza avere mai letto von Hayek, Polanyi e neppure Milton Friedman. Grazie alla coerenza e al culto dell’immagine della leadership, Reagan è nell’olimpo della destra globale e fa la sua bella figura in coppia con Lady Thatcher.
Si pensi invece alla disavventura comunicativa e storica di papa Pio IX. Dopo avere esordito come filopatriota agli occhi degli italiani, compì una  brusca virata verso la reazione, lasciando perplessi gli italiani religiosamente pii, e pieni di livore i patrioti devoti …

La forza della rappresentazione

Indro Montanelli

Rimetto in fila sinteticamente tutto l’armamentario teorico in mio possesso. In principio il passo del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Il prevalere della rappresentazione sulla realtà (fino al dilagare dei nuovi miti che hanno malamente sostituito le antiche ideologie) costringe le politiche a gestire anzitutto la rappresentazione, lo storytelling, sia dal proprio versante come da quello dei consumatori-spettatori.
Avendo in ogni fase storica la politica regole proprie, ancorché mutuate da altri contesti, ne discende in questa congiuntura che la politica assume le regole della rappresentazione. Se le osserva ne è premiata, se devia, viene punita. (C’è dunque una coerenza perfino nell’universo della cosiddetta postverità.)
In particolare nel postmoderno la leadership, avendo prima interpretato e poi subordinato gli apparati del politico – i partiti e i loro dintorni –, ne consegue che le regole dello spettacolo legittimano il senso e il profilo di una politica, ne garantiscono l’affidabilità, vuoi all’interno della propria parte, vuoi  rispetto alla platea generale e nazionale (e globale) degli spettatori sempre-meno-cittadini.
Posso mettere in campo o semplicemente citare il Walter Benjamin del Trauerspiel e il molto più abbordabile Raffaele Simone di Il Mostro Mite.
Dalle frequentazioni di testi e films resistenziali emerge addirittura un sorprendente caso di studio dovuto all’intelligenza storica di Indro Montanelli, che anche in questa circostanza si staglia come uno dei più grandi giornalisti del secolo.
La vicenda, intrisa di elementi autobiografici in quanto Montanelli fu realmente imprigionato come partigiano nel carcere di San Vittore, è quella di Giovanni Bertone, un piccolo truffatore che estorce soldi alle famiglie dei prigionieri dei nazifascisti promettendogli di far ritornare a casa i loro cari pagando dei soldati tedeschi per la loro liberazione.  “Alla fine – recita Google – da spia Bertone si trasforma in patriota, fino al rifiuto di continuare a collaborare, finendo fucilato”.
In questo caso la coerenza con l’immagine, la narrazione e il personaggio finisce per fare premio addirittura sullo spirito di conservazione e spinge all’eroismo patriottico chi era vissuto di truffe e di espedienti.
Lontana da me la proposta di una sorta di martirio dell’immagine; mi limito ad analizzare, per quanto mi riesce, le regole e le coerenze, comunque operanti, all’interno delle vigenti narrazioni politiche. Per questo le mie critiche sono tutte e dichiaratamente datate dopo l’esito referendario del 4 dicembre. Anzi, dopo il discorso di addio in televisione del Premier.
E mi convince ulteriormente dell’approccio il riferimento a regole dello spettacolo assai meno paludate e addirittura oratoriane.
È risaputo che, ai tempi del mondo cattolico ambrosiano trionfante, quasi ogni parrocchia amava dotarsi di una propria filodrammatica. Versatile, appassionata, applauditissima, sicuramente dilettantesca e dialettale. Era così anche nella chiesa prepositurale di Santo Stefano in Sesto San Giovanni dove papà calcava in qualche modo il palcoscenico. Tra i suoi racconti ricordo quello relativo a una performance di Edo Calderini.
Era l’Edo personaggio particolare e certamente fuori dal comune. Pittore – dava il meglio di sé nei ritratti di Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi –, scultore, architetto di “porte trionfali” per le processioni solenni, costruttore di grotte di Lourdes per l’oratorio San Luigi e non pochi cortili di quella che allora veniva denominata Stalingrado d’Italia. A tanta versatilità nelle arti plastiche e figurative Edo Calderini accompagnava esibizioni filodrammatiche, in un personaggio tutto suo e da lui inventato. Ruolo quindi da mattatore nelle serate a far ridere; successo che gli impediva però l’accesso alle rappresentazioni drammatiche.
Fu così che una sera, escluso da non so quale tragedia, volle prendersi la rivincita. E comparve travestito da cinese, proprio durante la scena madre del dramma, e attraversò tutto il palco con un cesto colmo, ripetendo la cantilena commerciale clavatte clavatte
Grande canestro di lui!, commenterebbe Dan Peterson, e grande e improvviso flop   della rappresentazione corale. Tutto per dire che le trasgressioni alle narrazioni, anche a quelle politiche, è bene evitarle.

La fatal serata del 4 dicembre

Cleant Eastwood

Torniamo dunque alla fatal serata del 4 dicembre. Matteo Renzi dice da par suo che lascerà il campo. Si commuove, e mi commuove. Annoto che, dopo la sconfitta alle primarie con Bersani, è la seconda orazione autofunebre con la quale il Nostro mi inchioda al video.
Un lutto destinato comunque a durare poco perché, dopo un solo giorno passato in Toscana in famiglia a giocare alla playstation con i figliuoli, il Matteo resuscita direttamente a Palazzo Chigi, dove inaugura in fretta e furia una sorta di consultazioni parallele a quelle del Quirinale. (Devo subito confessare che mi è venuto in mente che uno così in Germania o nel Regno Unito avrebbe chiuso con la politica.) Ma, la rapidità e lo scarso rispetto delle prerogative altrui sono universalmente riconosciuti come connaturati al suo innato dinamismo.
Renzi comunque mette mano – probabilmente sgomitando con il compassatissimo (ma, ce ne accorgeremo, correttissimo e coriaceo) “muto di Palermo”, eletto sul colle più alto – al governo Renzi-bis, con il capace Paolo Gentiloni, in riserva agli Esteri.
Un governo volutamente fotocopia, con un Premier dal profilo volutamente così ostentatamente low da far rimpiangere i fasti del precedente governo, che di diverso – si capirà a governo definitivamente completato – aveva soltanto il marchio renziano, le luci e l’eloquio abbagliante, gli effetti speciali. Visto così, il Renzi-bis, appare, nella scia luminosa del suo precedente autentico, una sorta di governicchio: una squadretta di periferia che ebbe, nella precedente incarnazione, al vertice dell’attacco un Maradona (vero, o sedicente, secondo le interpretazioni). Come fossimo tornati a una città dell’Est e della DDR, dove la differenza più eclatante la facevano di notte l’assenza delle insegne luminose.
Proprio questa del resto pare a me la forza di Paolo Gentiloni, destinato prevedibilmente a durare a dispetto delle sue intenzioni. E progressivamente avviato ad essere apprezzato per differenza. E Renzi? Molti si stanno tutt’ora interrogando sulle sue reali intenzioni, sul vero temperamento, sulla capacità di gestire un’altra maschera e un’altra politica. Molti hanno anche l’aria di atteggiarsi, soprattutto dalle colonne dei giornali, a suoi precettori o direttori spirituali. È davvero monocorde e monosmorfia il Renzi come Clint Eastwood? Qualcuno ha scritto dopo la prima direzione e la prima assemblea susseguenti alla sconfitta referendaria che, rimasto al vertice del partito – che fin  dagli inizi aveva provveduto ad ibernare – avrebbe inaugurato un nuovo corso zen
Non si tratta tuttavia a mio giudizio né di versatilità, né di capacità di prendere atto delle sconfitte e degli errori, tantomeno di azzardare giudizi etici o morali. Gli psicoanalisti hanno mantenuto aperti i loro studi nonostante la minore liquidità dei pazienti in seguito alla crisi, e i confessori continuano il loro ministero, che subisce tuttora buone impennate nella prossimità delle feste religiose.
Il fenomeno politico Renzi è e resta tale al di là delle sue intenzioni e dei giudizi, benevoli o malevoli, dei critici. Il mio avviso è che nella fase di gestione delle rappresentazioni e di politica dell’immagine e della leadership che attraversiamo il vero Renzi è quello che ha imperversato nei quasi tre anni di governo.
Un altro “Renzi politico” probabilmente non esiste, non serve a lui e forse neppure al Paese. Soprattutto, pure al netto della conclamata smemoratezza italica, non mi pare ricostruibile e ripresentabile just in time.  
Il problema soprattutto non è chi sia il vero Renzi: quello nato a Pontassieve, quello che vinse 48 milioni al telequiz, quello che si recò ad Arcore da Berlusconi premier, quello che gioca alla playstation con i figliuoli…
Giudichereste la politica di Cavour dalla sua vita privata? Hanno fatto lo scout da ragazzi Mazzini, Garibaldi, Aldo Moro o Pertini? L’europeismo di De Gasperi discende forse dalla sua pietà religiosa trentina? Il Pci di Togliatti dal cattivo carattere del leader? Il vero Marlon Brando – quello che ci ha impressionati e segnati di dentro, spingendoci al cinema –  è quello di Fronte del porto, di Apocalypse Now, o di Ultimo tango a Parigi, o quello di vicende private non sempre eclatanti e che comunque riguardano lui soltanto? Non è la stessa cosa per Dustin Hoffman, Vanessa Redgrave, Meryl Streep, Leonardo Di Caprio?
Soprattutto i cantori della narrazione e della leadership si rassegnino: la coerenza di questi leaders è quella del format politico piuttosto che quella della realtà personale.
Per questo mi auguravo che Matteo Renzi lasciasse davvero: tutto, partito compreso, almeno per due anni. Ignoravo forse il rischio della dimenticanza? Certamente no: ma la leadership che Matteo ha impersonato richiedeva lo stacco e il rischio. Forse il giovane toscanaccio un po’ bullo che presume troppo di se stesso non ha avuto sufficiente fiducia in se stesso… e comunque il rischio valeva la candela.  Anche la politica dello spettacolo ha sue regole che non patiscono di essere sconvolte o calpestate. Comunque vedremo.
Intanto davanti ai nostri occhi c’è un governicchio (lessico renziano). Renzi aveva promesso, legittimando la sua corsa costante al maggioritario: “Non faremo governicchi”! E questo che cos’è? Aveva promesso e spergiurato in tutta una serie di incontri pereferendari (che la tv ci ha poi riproposto in sequenza) “Se perdo, me ne vado”. E invece eccolo lì di nuovo, in posizione calcisticamente più arretrata per rilanciare la ripartenza, a meritarsi l’epiteto che sempre il grande Indro Montanelli coniò per un suo celebre e dinamicissimo conterraneo, Amintore Fanfani: «Rieccolo»!
Come a suggerire che la velocità dei tempi fa sì che sia già venuta la stagione che chiede di rottamare i rottamatori. Con l’augurio, per il bene del Paese, che Gentiloni si faccia apprezzare proprio per la mancanza di effetti speciali e la solidità di una politica più “tradizionale”, che insegua meno i talkshow e stia più nascostamente “al pezzo”.
È come se malinconicamente i Piccaluga fossero tornati in piazza Oldrini, con le vecchie giostre ed i vecchi carrozzoni, senza i restauri e soprattutto senza la nuova pubblicità sul cartellone: “Piccaluga European Center”...

Renzi contro Renzi

Matteo Renzi

È Renzi che ha seppellito il renzismo. Durante l’addio in tv la sua commozione (e la mia per quel che conta) erano reali. Quella sepoltura di fronte al grande pubblico poteva contenere una speranza di resurrezione. Il renzismo viene definitivamente archiviato con il ritorno di Matteo nel ruolo del boss facitore di governi e di governicchi a Palazzo Chigi.
Troppo evidente l’allusione e troppo rapido il ponte verso il Renzi prossimo e venturo. Dopo i giuramenti d’addio ripetuti, l’opzione e la caparra sul dopo Gentiloni, che nient’altro è agli occhi di tutti che un Renzi-bis, deve fare affidamento sulla smemoratezza e l’imperituro guicciardinismo degli italiani. (Nessuno lo ha meglio analizzato di Salvatore Natoli.)
Sparito il cambio di passo la cui fiducia poggiava sul noi abbiamo rottamato, e siamo legittimati a farlo e a governare, perché non siamo come gli altri…
Si può osservare che il guicciardinismo sia la costante del Bel Paese, destinato ogni volta riemergere. Ma le obiezioni che insorgono non sono poche né sottovalutabili. Renzi e il suo decisionismo si sono presentati come l’altro rispetto all’andazzo abituale. Anche la legittimazione della subordinazione della logica della Costituzione a quella della governabilità poggiava su questo assunto e sulla fiducia conseguente. Di più la spinta a lasciarli governare discendeva da un’osservazione fattasi senso comune: che i tempi e i riti del guicciardinismo fossero giunti a un punto tale di cancrena da mettere in pericolo la salute stessa della Nazione. Il guicciardinismo nella sua fase ultima minacciava di trasformarsi nella tabe di se stesso, facendosi insopportabile oltre che pericoloso. Resuscitarlo dopo avere sepolto il renzismo e le sue speranze è più un’enorme delusione che un guadagno.
Torniamo alla vena narrativa. Ho assistito con mia moglie il pomeriggio di Capodanno, inchiodati davanti al televisore, alla proiezione del vecchio capolavoro disneiano di Pinocchio. È come se il burattino collodiano, subito messo nel mirino dalla critica spietata ma efficace di Crozza, avesse ancora una volta scelto di riportarci nel Paese dei Balocchi dorotei, invece di farsi politicamente uomo ed adulto.
Con tutte le ulteriori scivolate, che non conseguono tanto dalla crisi del renzismo, quanto dall’irreversibile deterioramento del guicciardinismo giunto a uno stato terminale (disincanto e apatia degli italici, occupazione dello Stato da parte delle forze politiche, cancrene irriformabili della burocrazia, uso della cosa pubblica per fini costantemente privati, etc. ecc.)  che gli impedirebbe di proseguire nella logica abituale e secolare di spingere il Paese ogni volta sull’orlo del baratro e lì trovare ogni volta la capacità di arrestarsi.  
Soprattutto Renzi sta cessando di essere l’antemurale dei riformisti nei confronti dei “populismi” di Salvini e di Grillo: i due concorrenti. Attori anch’essi, ovviamente a modo loro. Uno per lunga professione, l’altro per un frenetico mutar di felpe.
Potrebbe anche accadere, e lo temo nonostante lo scivolone europeo (la memoria corta funziona per tutti), che un buon numero di italiani pensino allora sia meglio votare un comico che prova a fare politica, piuttosto che un politico che ha provato a fare le comiche.
Insomma, Renzi è caduto perché ha creduto nell’onnipotenza della leadership: un devoto assiduo della religione dei neopoteri, assai più diffusa nelle nuove generazioni (Erasmus incluse) di Scientology. Matteo, nel connubio ogni volta inevitabile tra politica e potere, ha scelto il potere al posto della politica.
E non importa dal mio punto di vista – che si sforza di essere sistemico e si ostina a non diventar tifoso – se nel caso specifico la leadership coincideva con la sua leadership e la sua persona. Per questo ribadisco che le mie critiche alla mesta epifania del renzismo sono tutte successive alla sconfitta. E non mi tocca il rimprovero della disillusione. Perché rivendico il diritto, anche in politica e per la passione politica, oltre che nel tifo sportivo o negli affetti, di essere seriamente disilluso. Si può perdere e bisogna saper perdere. Meglio il refrain di questa canzone che la struggente nostalgia melodica del grande Sergio Endrigo: la musica è finita, e gli amici se ne vanno… (I compagni lo hanno fatto da tempo.)  

Autobiografia della nazione

Niccolò Machiavelli

Bisogna saper perdere. Il giovane Churchill fu sconfitto la prima volta che si presentò in una costituency britannica. Non risulta che pronunciasse nessun memorabile discorso d’addio. Provo a ipotizzare che si preparasse seriamente alla rivincita, rispettando i tempi e le modalità, ivi incluse quelle etiche e comunicative, della democrazia di allora.
Ci deve pur essere un modo per farlo anche oggi, e per farlo collettivamente: perché sto sempre pensando in termini di tendenze e di partito, di “autobiografia della nazione”, e non di grandi firme.  Una prima tappa sarebbe incominciare a riflettere insieme sulla solitudine della leadership. Per porre rimedio prima alla solitudine e poi alla leadership.
I democratici e gli italiani sono stati generosi e non prevenuti con Matteo Renzi. E infatti non gli hanno chiesto spiegazioni sul “Patto del Nazareno”: un autentico ritorno e ripescaggio degli  arcana imperii, all’interno di una politica tutta comunicazione. Ma anche in politica, diversamente che nel tifo sportivo, il credito non è a prescindere e non può essere illimitato.
Ho già chiarito il rischio cui stiamo correndo incontro. Ovviamente non si tratta dell’unica sortita possibile. Ma si è fatto tardi e devo concludere con l’abbozzo almeno di una proposta, volendo evitare il rimprovero di papa Francesco che mette in guardia contro l’“eccesso diagnostico”.
Mentre il governo Gentiloni prova a governare senza durare, il segretario del PD non riesco a vederlo intento a ricostruire il partito. Non gli importa, o forse non ci crede. Il risultato è il medesimo. E il Nazareno assume nell’immaginario collettivo il ruolo dello spogliatoio che prelude al rientro in campo a Palazzo Chigi. Forse, se Gentiloni riuscirà a fare bene e in qualche modo a portare la nave nel porto delle elezioni, potremmo assistere a un cambio risarcitorio: Renzi a Palazzo Chigi, suo luogo naturale, e Gentiloni segretario del partito.
Può funzionare? Fantapolitica? Nell’epoca della postverità, della postdemocrazia e della narrazione totale non è un’ipotesi scorretta né impensabile.
Che Renzi il partito non lo voglia lo ha dimostrato da quando è stato eletto segretario o almeno da quando si è dovuto trasferire a Palazzo Chigi. Il PD lo ha “scalato”, sottomesso, soprattutto gli ha impedito di funzionare. Da partito tradizionale si è progressivamente trasformato nella catena di montaggio audiovisuale che trasmette inviti pressanti agli “eventi” programmati dall’alto, con la sollecitazione di twitt martellanti, ai quali gli scritti (li vorreste chiamare militanti?) sono invitati ogni volta a rispondere con grande tempestività, come balzando in piedi alle prime note dell’inno di Mameli.
O forse sono io a dovermi scusare per la miopia, perché probabilmente questo è quantomeno il prototipo del postpartito.
La proposta? È come sempre noiosamente sistemica. Sono anni che stiamo inseguendo la ristrutturazione veloce della nostra democrazia a partire dalle regole, in particolare quelle elettorali, non a caso sospinte verso sistemi comunque maggioritari. (Per quelle costituzionali  invece leggo pronostici che parlano di un letargo almeno decennale.)  
Non è una deriva inaugurata da Renzi. Nell’Ulivo ha un mentore in Arturo Parisi e nel Partito Democratico trova una tappa significativa nella proposta di un “partito a vocazione maggioritaria” avanzata da Walter Veltroni.
Nonostante le spiegazioni di amici valenti, ho sempre faticato a pensarla plausibile, per la lapalissiana ragione che non mi risulta sia mai comparsa la proposta di un partito “a vocazione minoritaria”: che probabilmente non avrebbe senso né presentare né votare.
Devo anche aggiungere di avere schierato da presidente nazionale le Acli con Mariotto Segni sul referendum abrogativo del 9 giugno 1991: il referendum che ha ottenuto il più alto consenso degli italiani in tutto il dopoguerra. Nostri consiglieri erano il costituzionalista Leopoldo Elia e Roberto Ruffilli, sciaguratamente abbattuto dai terroristi rossi. Il mantra di Roberto Ruffilli era che il cittadino dovesse essere arbitro della vita democratica.
Con queste sbrigative risoluzioni, reiteratamente riproposte, e con il taglio dei tempi di ogni discussione ho francamente l’impressione che al cittadino non venga assegnato neppure il ruolo del raccattapalle. E allora pover’uomo? Proponi il ritorno al proporzionale? No. Propongo di cambiare ottica e campo, e soprattutto soggetti.
Anziché lavorare costantemente alle regole, che hanno ampiamente dimostrato di essere incapaci, quanto meno in Italia, di maieutica politica in ordine alle forze in campo, la mia proposta è di ricominciare dai soggetti della politica.

Proviamo a ricostruire il partito

Beppe Grillo

Beppe Grillo ci si è cimentato: scambiando purtroppo la fossa delle Filippine per il Cervino e, con una pensata tutta postmoderna e tecnologica: sostituire Montesquieu e Tocqueville con gli algoritmi, non avvedendosi neppure che, soprattutto rispetto alla popolazione anziana, l’esclusione che ne discende è più grande di quella che vigeva elettoralmente nel Regno d’Italia con il voto censitario. Conosco a menadito tutte le critiche da sinistra: non c’è più popolo, siamo messi peggio che all’epoca del popolaccio leopardiano del 1824, è tempo di oligarchie, il ricorso al voto premia soltanto i populisti, alle nazioni si sono sostituite le moltitudini di Toni Negri e Michael Hardt…
Eppure, si concederà, questo neopopolaccio, soprattutto a partire dagli under 25, è corso in massa al voto referendario sorprendendoci, vuoi positivamente (per la frequenza), vuoi negativamente per l’esito. E infatti la prima cosa da chiarire è che non siamo stati battuti da una porzione tafazzista della sinistra, ma dal popolo attuale degli elettori italiani.
Che fare? Vecchio interrogativo e vecchio titolo di una politica desueta.
Provo a partire a mia volta dai giovani. È risaputo che molti di essi hanno trovato lavoro e occupano posti eminenti nell’ambito della ricerca in Paesi dell’Unione o in altra parte progredita del globo. Da dove il successo?
Credo che il merito vada attribuito per la gran parte al nostro sistema scolastico, non certamente inferiore a quello degli altri Paesi progrediti. Una scuola tuttora segnata dall’impronta gentiliana, e non ancora diroccata da una serie di interventi governativi recenti, più attenti ai problemi economici e burocratici del corpo insegnante che alla natura e all’aggiornamento dei programmi.
Comunque il sistema funziona e i frutti sono sotto i nostri occhi. Ne discende una domanda niente affatto maliziosa: come mai il Bel Paese produce ricercatori in grado di spopolare, mentre il ceto politico e la classe dirigente in generale non sembrano, anzitutto ai nostri connazionali, all’altezza della situazione?
La proposta mi sembra perfino obbligata e del tutto naturale. La politica, oltre che occuparsi delle scenografie, dovrebbe tornare a occuparsi delle strutture che promuovono la classe politica. E siccome non sto pensando alla traduzione dell’Ena transalpina in italiano, siamo di nuovo al discorso dei partiti.
Organizzazione del politico, organizzazione della cultura politica e della selezione della classe dirigente: tramite per questo tra la società civile e le istituzioni. Insomma, siamo sempre all’articolo 49 della Costituzione, che nessuno ha mai voluto cambiare e che tuttavia continua ad essere disatteso. Mi rispiego: anziché continuare a metter mano alle regole, ri-proviamo a organizzare i soggetti della politica, scontando tutte le difficoltà del caso e facendo tesoro delle esperienze passate e recenti.
Non i vecchi partiti ovviamente: nessuno, tantomeno i nostalgici, è in grado di resuscitarli. Partiti nuovi, neopartiti, postpartiti, in grado di ridare senso e vigore a quella che i nostri maggiori, Togliatti in testa, definirono la “democrazia dei partiti”.
Che cosa hanno fatto funzionare gli inglesi dopo l’esito di Brexit? È bastata mezza giornata a Cameron per sgomberare il campo e una settimana per trovare il successore in Theresa May. Il tutto all’interno del sistema maggioritario più compiuto del quale si abbia contezza. Ma nel momento di massima crisi è stata la funzionalità della democrazia dei partiti a togliere il Regno Unito dai guai.
Non ci sono meno moltitudini che da noi a Londra e dintorni; ci sono regole elettorali che possono essere invidiate o meno: quel che ha tratto la politica inglese dalle secche è il funzionamento della democrazia dei partiti.
Non serve a niente guardarsi in giro e applicare il metodo comparativo? Come funzionano in proposito le cose nelle coalizioni tedesche e addirittura nella “formula magica” degli svizzeri – democrazia piccola, ma stagionata – che vede da oltre 25 anni tutti i partiti al governo…
Non sto suggerendo ammucchiate, ma semplicemente che si ricreino e si facciano funzionare i postpartiti della postdemocrazia. Perché ancora una volta mi sorprende che non si metta a tema l’uscita, per tutti, dalla solitudine della leadership.

La solitudine della leadership

Paolo Gentiloni

Possiamo anche evitare il nome partito, purché se ne mettano in atto le funzioni: l’organizzazione di una cultura politica, la creazione di un progetto, l’individuazione di un programma da proporre prima agli iscritti e poi agli elettori, la selezione della classe dirigente.  E poi, per evitare ogni riferimento ed ogni contaminazione con le vecchie ideologie, chiamiamolo “motociclismo”: così potremmo incorporare una promessa di velocità…
Ma c’è una cosa soprattutto che chiede di essere recuperata: un partito democratico ha bisogno come dell’ossigeno di una dialettica interna. È questa che rende sapido il dibattito sulle idee, che rende possibile la creazione e l’avvicendamento delle leadership. Che dà senso alla formazione di quadri e dirigenti. Senza queste caratteristiche non si ha partito moderno (ed anche postmoderno).
Sono questa natura e questo funzionamento del partito che lo rendono vivo e vegeto, vivibile all’interno secondo regole condivise, credibile all’esterno. Tutti i partiti democratici del Vecchio Continente e del mondo che funzionino, si comportano così. E questo al di là della forza e dello smart della leadership.
Così non hanno fin qui funzionato le cose nel PD di Renzi. Non per mancanza di tempo, ma perché questa è la matrice reale  oramai fattasi manifesta del partito. Al confronto dialettico è succeduto di fatto il dileggio dell’avversario, secondo un copione che si esercita dentro i confini del partito e fuori di esso, nei confronti dei competitori esterni.
Così il  Bel Paese risulta diviso. I pozzi sono avvelenati, e somiglia a una Siria disarmata e corsa da fazioni intente anzitutto a delegittimarsi reciprocamente.
Quanto può durare? Può una democrazia subire quotidianamente questo stress?
Credo che si stia facendo largo lentamente – troppo lentamente – tra gli italiani il senso di un idem sentire oramai irrimediabilmente lacerato. Mentre il tempo dei divisori dovrebbe essere augurabilmente finito.
Ma non si vede sulla cresta dell’onda un gruppo di unificatori, distribuito sotto le diverse bandiere e nelle aree politiche in concorrenza. I partiti democratici del nostro dopoguerra, con tutti i difetti poi sfociati in Tangentopoli, gestivano il proprio profilo ma anche la salvaguardia delle ragioni altrui.
È infatti noto che Giuseppe Scelba, autore di un ordine nelle piazze italiane che non disdegnava dal ricorrere all’uso forte della polizia, fu sempre tra i più contrari a mettere fuori legge il Partito Comunista.
Ma vi è anche un elemento che riguarda la quotidianità. I vecchi partiti – da non ripetere – strutturarono il civile con le loro culture e le loro pratiche democratiche. L’antagonismo anche duro presupponeva la presenza dell’avversario come necessario alla convivenza democratica sul territorio e nelle istituzioni. Tutto questo non è stato fatto e non viene neppure oggi perseguito.
È come se la leadership, senza il fondamento di una cultura politica consolidata, senza un progetto e senza un programma che fidelizzi gli appartenenti, abbia preferito semplificare il campo eliminando sul nascere ogni possibilità di concorrenza e di alternativa. Come se un partito inerte forse l’unico in grado di seguire e sostenere la leadership.
Siamo stati sconfitti, ma chi sta seriamente pensando e lavorando a ricostituire una presenza partitica? I partiti non si fanno né da Palazzo Chigi né dal Quirinale: si possono scalare solo quando esistono sul territorio e tra la gente.
Non si dà democrazia senza partecipazione (i famosi “corpi intermedi” della dottrina sociale della Chiesa) neppure dove le forme partito sono quelle del partito elettorale. La stessa organizzazione delle primarie e dei caucus negli Stati Uniti recupera elementi di partecipazione senza i quali nessuna democrazia può continuare ad essere tale.
Nessun partito può per converso sorgere dall’accumulo e dalla sommatoria di esperienze locali. Ma la leadership che lancia il progetto e il programma deve farsi carico dell’organizzazione sul territorio. Altrimenti la democrazia diventerà progressivamente altro da se stessa e il partito la seguirà in un malinconico tramonto.
La democrazia può patire, in nome della governabilità, parziali e temporanee restrizioni della partecipazione, ma non può prescindere da essa all’infinito. La passione politica, la sequela sono tutt’altra cosa rispetto al tifo sportivo.
Ovviamente ignoro se questo film sia in programma da qualche parte, in quale studio, e neppure se qualcuno si stia già occupando della sceneggiatura. Mi limito a dire che un percorso politico che insista unicamente sul mutamento delle regole senza curarsi dell’organizzazione della partecipazione democratica – della sua identità e, uso un termine ostrogoto, soggettivizzazione – esula totalmente dal mio attuale e futuro sogno di mondo.












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