RACCONTO
Visto il contenuto abbiamo deciso di pubblicare in
prima pagina
questo racconto di Vito Calabrese.
I disegni illustrativi sono di Adamo Calabrese.
Passaggio a nord.
“Lui faceva il meccanico, sapeva aggiustare le cose rotte mentre lei,
nera e selvaggia, sapeva infiammare gli animi e aggiustare i cuori, tranne il
suo. Il suo era rotto per lei.”
Il fatto è che Zema è sempre stata
inquieta. Una volta giunta a Milano, accolta nella Casa della Carità, ha
provato a seguire le regole, a fare l’immigrata utile e anche riconoscente, ma
è durata poco. L’esperienza devastante dello stupro, subito in terra di Puglia,
le aveva acuito la sensibilità. Era la paladina dei giovani immigrati,
disorientati, che arrivavano in quel rifugio. Don Roberto la teneva d’occhio e
le affidava compiti sempre più impegnativi e stimolanti. Ma a lei non bastava. L’aveva
visto una sera di febbraio, una sera piena di pioggia, che entrava sbigottito
nella Casa assieme a tre sbandati e chiedeva, più con lo sguardo che con le
parole, di essere accolto. Omar dai riccioli neri, africano, scappato dal Sud
Sudan, debole e sfatto dalle peripezie del viaggio, l’aveva amata come il sole.
Omar aveva imparato a stare con lei, ad amarla come voleva lei, e non era
facile. Lui faceva il meccanico, sapeva aggiustare le cose rotte mentre lei,
nera e selvaggia, sapeva infiammare gli animi e aggiustare i cuori, tranne il
suo. Il suo era rotto per lei. Poi avevano progettato di partire. Volevano
andare in Francia, anzi lui voleva andare in UK. Zema era partita per Parigi,
coi documenti in regola, e Omar era rimasto a Milano, in attesa. Ilaria, la sua
amica di Milano, era insofferente. Mille pensieri le mulinavano nella testa,
suscitati dalla telefonata di Zema. Le aveva risposto che ci avrebbe pensato ma
non sapeva dove cercare aiuto. Il progetto di far passare Omar in Francia,
aggirando i controlli, era troppo complicato. Forse doveva parlarne con Max, il
suo amico del liceo. Quel viaggio è per lui, Omar lo sa. Gli amici di Ilaria si
sono mobilitati per organizzare la sua partenza con l’intento di farlo passare
dall’altra parte del confine. Poi dovrà arrangiarsi, ma saltare il primo
ostacolo è fondamentale. Ilaria ha accettato la richiesta di Zema per aprire un
passaggio verso nord, verso l’Inghilterra. Max ha messo insieme il gruppetto
con Mathias, maggiorenne e autista della Qashqai, nonché suo compagno di
squadra nella scuola giovanile dell’Inter. Doveva sembrare una gita per andare
a Lanzerheide. Gigi, l’amico del nonno, che batteva da anni la zona, ricca di
funghi porcini, l’aveva consigliata. Era il punto giusto per bucare il confine
senza troppi problemi. Il passo dello Spluga era una porta aperta attraverso la
Svizzera per salire fino a quella meta tanto sognata da Omar. E ce l’avevano
fatta. Omar era poi arrivato a Parigi in treno. Zema aveva chiamato Ilaria,
felice per essere insieme al suo ragazzo e felice di averla come amica. Lei
aveva festeggiato con gli amici che avevano traghettato Omar di là dalla
frontiera. Sembrava che tutto fosse filato via liscio, una storia col lieto
fine. Dopo aver tentato invano di passare il Canale, i due giovani avevano
ripiegato sulla Jungle, l’enorme
tendopoli cresciuta disordinatamente a qualche chilometro da Calais. Vi erano
parcheggiati forse diecimila migranti. Là c’era tutto il necessario per vivere,
ristoranti, negozi, il teatro, la scuola, l’infermeria. Avevano ancora la
speranza d’incontrare qualcuno capace di organizzare il passaggio del Canale. Il
governo francese aveva promesso per l’ennesima volta di spazzar via le tende e
trasferire tutti i migranti in altri centri controllati. E c’era di più.
Gl’inglesi avrebbero finanziato la costruzione di un muro, ancora un muro!
Proprio lì, al posto della Jungle,
per scoraggiare i migranti. Quella sera il popolo della Jungle si era riunito nello spiazzo del teatro per preparare una
grande manifestazione.
Quel mattino di
ottobre pioveva e tirava vento. L’alba diffondeva una luce grigia, fredda. Il
popolo dei migranti usciva a fiotti dalla Jungle.
Alla testa del corteo sfilava un grande striscione con la scritta rossa “NO
BORDERS”.
Davanti a loro, la Police aveva preparato una
barriera di militari schierati a file multiple con i loro enormi scudi di
plastica. Gli altoparlanti della polizia intimavano ai manifestanti di tornare
indietro. I migranti urlavano insulti in tutte le lingue ma su tutti dominava
un grido selvaggio: Fuck off! Improvvisamente
correva la voce che un reparto militare stesse entrando con le ruspe dall’altra
parte della Jungle per spianare la
tendopoli sguarnita. Prima lo stupore per essere stati fregati e poi l’ansia di
non trovare più nulla, neanche il sacco a pelo, avevano smembrato il corpo
della manifestazione. La Police avanzava, lo striscione dei “NO
BORDERS” era abbandonato a terra, calpestato,
mentre le ruspe distruggevano le tende della Jungle. Zema era in testa al corteo e urlava per tenere insieme la
prima fila, strattonando i suoi vicini. Le persone si sfilavano, scivolando via
dalla stretta impotente delle sue mani. Omar era dietro e voleva risalire per
raggiungerla ma stava per essere travolto dall’ondata di riflusso del corteo. Provò
a tirarsi da parte, quando una massa enorme, scura, puzzolente di gasolio, lo
investì. Un carro blindato della Police avanzava ruggendo, colpito da una bottiglia
incendiaria. Un improvviso derapage lo aveva fatto slittare fino ad arenarsi in
fiamme sul ciglio della strada, dove Omar era appena stato atterrato dalla
folla urlante. L’urto era stato inevitabile. “Merda! Zema, amor mio, non ce la faccio. Ti amo” pensò Omar prima
di finire stritolato dalle grosse ruote del carro. La folla dei refugees tornava sui suoi passi
assiepandosi attorno al carro in fiamme, ormai abbandonato dai poliziotti. Zema
si era messa a correre verso quel fuoco. Sentiva il cuore martellare
ferocemente e un pensiero molesto le attraversava la mente. Arrivata alla prima
fila, posato lo sguardo su quella figura abbattuta, aveva riconosciuto la
sciarpa azzurra. Un urlo le era salito alla gola e con la voce rauca,
stritolata dalle lacrime che le riempivano gli occhi e le impedivano di vedere
il suo volto, ancora bello, si era gettata sul suo corpo e l’aveva abbracciato,
come volesse trattenerlo: “amore, amore
mio, no, no, non andartene.” Lo
baciava e lo accarezzava mentre gli altri si erano fermati e si erano tolti i
berretti. Nel silenzio immobile di quella mattina si sentiva solo la pioggia
cadere fitta e i singhiozzi di Zema che scuotevano la folla dei refugees più dei colpi della Police. Il
carro bruciava sfrigolando, come fosse una lampada votiva. Ilaria attende
l’arrivo del treno, sbirciando verso il marciapiede 17 dove è in frenata il
convoglio TGV che viene da Parigi. Si sono aperte le portiere e un flusso
compatto di gente scende lungo il marciapiede. Ilaria si sbraccia, si fa
spintonare e chiama il nome dell’amica. Il cellulare trilla. Zema la sta
cercando al piano di sotto. Si sono sfiorate senza vedersi. Ilaria corre giù
per le scale col cuore in gola. Eccola, vicino al grande varco dell’entrata,
che alza la mano e le fa segno. Ilaria allarga le braccia, buttandosi sulla
ragazza nera, che ha fatto un passo d’incontro, e finalmente la stringe in un
abbraccio affannato. Ora, Zema sa che non avrebbe mai potuto rinunciare alla
lotta per mantenere vivo il sogno di Omar di sfondare i muri e dare ai migranti
la possibilità di vivere come cittadini del mondo. Glielo doveva: no borders!
Vito
Calabrese