LA PAURA DEL “POPOLO”
di Fulvio Papi
L’incoronazione di Trump alla Casa
Bianca è avvenuta con la solita coreografia un poco kitsch per il nostro gusto,
anche se bisognerebbe integrare bene i segni materiali della cerimonia. Se poi
passiamo a quelli verbali il discorso del presidente è stato il riassunto delle
volgari e pericolose banalità della sua campagna elettorale, un lessico dei
locali frequentati da anziani bulli che con le parole al vento trovano la loro
restante identità. Quanto all’ambiente sociale elevato Francesco Ciafaloni su
“Una Città” interpreta molto bene la situazione dicendo che “Trump sembra
essere un leader di un ambiente culturale, militare, economico che tiene
insieme le correnti razziste più pericolose, suprematiste bianche, integraliste
del partito repubblicano”. Con una considerazione del femminile -aggiungo- che
lo associa alla coorte degli imbecilli che sono noti anche da noi, solo che
Trump, se pure in modo non appropriato, è il presidente degli Stati Uniti. È un isolazionista, spregiatore,
ricambiato al doppio, dell’Europa, e vistosamente ignorante della tradizione
che, per molti versi, è emigrata in America dove ha messo radici profonde e
originali da cui c’è non poco da imparare, specie dalle donne. Dal punto di
vista economico se fosse lasciato fare (ma non sarà così) mi pare potrebbe
persino portare il paese a una crisi di sovrapproduzione. In ogni caso, lasciando
perdere ogni scenario, è evidente che diminuirà le tasse ai ricchi che
suppongo, considerata la modalità della ricchezza negli Stati Uniti, ora
potranno, come del resto è già accaduto, cominciare a lottizzare Marte.
I
poveri, una larga parte, vedranno il mondo ancora peggiore, tuttavia potranno
pensare, considerati i “valori” in campo, che è colpa loro la loro incapacità
operativa, anche se non si è mai sentito parlare di inferiorità biologica,
anche perché, se così fosse stato, probabilmente alcuni dei loro voti gli
sarebbero mancati. Dal punto di vista dell’operare governativo è probabile che
il suo patrimonio intellettuale non superi la possibilità attuativa di ben
poche cose, ma l’équipe che sarà con lui avrà di certo le competenze che molti
temiamo; ma che ci vorrà poco, per esempio, in politica estera, ad essere più
acuti dei predecessori repubblicani. Condivido però il parere di quelli che
pensano sia sbagliato ritenere che l’equilibrio del mondo, nel suo complicato
intreccio, è quello che è, e quindi ogni “manovra” trova i suoi limiti nello
stato delle cose. Prima di tutto non è vero che dal punto di vista mondiale, ci
sia una grande stabilità come ai tempi della guerra fredda. Si potrebbero
citare decine di casi “in movimento”, e in ciascuna di queste congiunture,
anche da un punto di vista isolazionista il presidente americano dovrà fare le
sue mosse secondo i consigli della sua équipe. E qui le incognite, anche
pericolose, potrebbero non essere poche. Da noi, per esempio, le politiche
della destra ideologica, arcaica e aggressiva, potrebbero essere molto
incoraggiate, assenti come sono da una cultura economica che le rende
consapevoli degli effetti devastanti che, nella loro prospettiva, avrebbero
tutti i fenomeni della inarrestabile globalizzazione.
Ma, in verità, è su un
altro tema molto rilevante che vorrei fermare l’attenzione. Nell’editoriale
dell’ultimo numero di “Vita e Pensiero”, l’ottima rivista dell’Università
Cattolica, si può leggere: “La democrazia”, disse Abramo Lincoln in uno dei
suoi più celebri discorsi è il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo.
Verso quel “popolo” che Lincoln celebrava solennemente come il detentore del
potere sovrano, i padri costituenti americani erano stati in realtà molto più
diffidenti. Memori della pessima fama che la forma di governo democratico aveva
lasciato, vollero impedire che la nascente repubblica fosse lacerata dalle
lotte di fazioni. E proprio per evitare che l’elezione del presidente degli
Stati Uniti potesse scatenare lo scontro, le passioni politiche e mettere a
rischio la pace, consegnarono a un collegio di grandi elettori il compito di
scegliere chi dovesse essere il capo dell’esecutivo. Come tutti sanno, già
pochi anni dopo il sistema congegnato dai costituenti si rivelò inefficiente
(perché? Sarebbe interessante capire), e l’elezione si trasformò di fatto in
una elezione diretta”. E così andò avanti per 200 anni di storia. “Ma
duecentoventinove anni dopo le elezioni presidenziali del 2016 hanno invece
palesato proprio ciò che i padri fondatori avevano temuto. Se ne 2008 la marcia
travolgente di Barack Obamna verso la Casa Bianca aveva mostrato al mondo -e gli
operatori della comunicazione- la potenza dello storytelling, le elezioni del 2016 ci hanno invece fatto
entrare nell’era della post-verità”.
Ora entrare nell’epoca della “post-verità” significa sapere che, anche senza
troppe analisi, viene a cadere uno dei pilastri fondamentali sui quali (a sua
volta per verità o per accettabile simulazione delle tecniche della verità) si
formano i requisiti di un esercizio politico democratico, la libertà di
giudizio.
Una analisi dei “valori” della nostra storia politica della celebre
Atene di Pericle agli illuministi (dove fiorì il mito della democrazia nelle
piccole repubbliche), e sino a noi, mostra che il voto è un atto consapevole di
quella libertà che nasce dalla cultura. (La libertà originaria di Rousseau che
diviene virtù fu una catastrofe per Robespierre). Condorcet che seguì tutto il
lungo e tormentato tragitto della Rivoluzione, di fronte al fatto che vi era
una contraddizione tra la linea politica repubblicana e l’animo popolare ed
elettorale ancora in maggioranza realista e chiesastico (la religione è un
fenomeno molto più complesso) osservava che il vero problema era quello del
rapporto tra ignoranza e conoscenza, quindi pensava a un compito educativo
della Rivoluzione. È un modello intellettuale che funzionerà in Italia sino alla rinascita
della democrazia, dopo che le elezioni del 1924 avevano mostrato il contrario.
Ora, per molte ragioni, che qui è superfluo ricordare, poiché sono ben note,
quel modello, secondo cui la libertà che nasce da una cultura è il fondamento
della democrazia politica, è ormai obsoleto. Possiamo dispiacerci, specie se, a
suo tempo, puntammo la vita stessa in questa direzione, ma le cose stanno così.
Si può contraddire il reale, ma non in maniera fattuale.
L’editorialista che ho citato, così conclude: “per difendersi
dall’avanzata del “popolo della paura” serve poco tornare a sventolare l’antico,
polveroso vessillo della paura del popolo”.
Si può sempre restaurare il famoso “vivi nascosto”, ma è l’addio alla propria
figura politica, è un’invenzione privata del mondo. La paura del popolo era un
“topos” platonico per cui il “demos” era il luogo delle passioni sconsiderate.
E anche Spinoza riteneva che al popolo (come si dimostrò proprio nella vittoria
dei fanatici calvinisti) poteva essere considerato da immediate (prive della
dimensione della temporalità) furie emotive e aggressive prive di qualsiasi
fondamento culturale, contro le quali si poteva agire solo tramite tecniche
razionali del potere sulle quali Spinoza aveva meditato filosoficamente. Può
darsi che qualcuno, tra platonico e robespierriano, sogni di sventolare “il
vessillo della paura del popolo”. Ma fin che può procedere l’identità pubblica
con il consumo (che è un tema complesso da studiare), non servono vessilli. Poi
chissà. E pure se c’è una post-verità (ma non dimentichiamo la polisemia, per
cui il “popolo della paura” parla di verità) c’è anche la non meno famosa
post-democrazia. Può essere persino che possa risorgere la fantasia del
“demiurgo”, ma non ci credo, perché l’esercizio della libertà privata (quello
che resta) è una pratica che ha pure il suo valore e i suoi effetti politici.
Si può dire che c’è una libertà post-politica? Per il resto vedo solo una
possibile terapia che derivi da un sentimento di fiducia su chi, intorno a
programmi sensati (e ce ne sono molti), abbia il potere politico. È solo un sentimento, ma è il solo che
può togliere la malattia dell’autoreferenzialità. Una buona teoria è solo nel
modo buono di lavorare politicamente rendendo pubblici gli scopi, i mezzi, i
tempi. E l’educazione di Condillac rovesciata, è la “paura del demos” diviene
timore di non essere un potere adeguato. Ma questa scuola un ceto politico la
fa su se stesso, e qui ci vuole una cultura e uno stile come fu nel nostro dopoguerra
che va molto al di là delle dispute interessate sui sistemi elettorali.
Sembrerà strano ma in America basterebbe proprio cambiare una legge elettorale
sbagliata. Da noi è più difficile, perché crediamo di vivere di rendita, invece
navighiamo sui debiti, non per colpa di tutti, s'intende.