Selfie, uno spaccato napoletano
di Mila Fiorentini
Implacabile, non ammiccante, oltre gli stereotipi,
senza lo sguardo morboso e un po’ compiaciuto che fruga nel marcio: un
autentico documentario, se si potesse dire un ‘auto-documentario’, da cui il
titolo Selfie, la risposta dei
protagonisti alla domanda del regista sulla capacità di utilizzo della
telecamera: nessuna conoscenza, meglio il telefonino.
Due ragazzi, protagonisti di
grande verve, si filmano: ne esce un quadro agghiacciante perché ne emerge la
banalità del male, lo sguardo disincantato dei giovani, che sono dimenticati ma
non perduti. In tal senso lo sguardo è molto interessante e non ha nulla di
moralistico perché è un film senza violenza, che parla di un quartiere di
camorra, violento, senza usarla. Eppure è tratto da una storia vera drammatica,
citata senza neppure farla vedere. Dal 30 maggio al cinema, il film di Agostino
Ferrente, regista di origini pugliesi, autore già de L’orchestra di Piazza Vittorio
(2006) - prima del quale
aveva però concepito insieme al collega Giovanni Piperno un
interessante progetto di pedinamento di alcuni adolescenti napoletani, Intervista
a mia madre (2000) - riesce a tenere lo spettatore incollato allo
schermo per 78 minuti senza una scena di sesso, né di sangue. Un film
minimalista e delicato che prende avvio dalla morte di un sedicenne ucciso ‘per
sbaglio’ dalle forze dell’ordine. La verità si saprà solo con i titoli di coda:
una storia vera, tragica e ingiusta. Nello sguardo dei protagonisti la protesta
silenziosa, il disappunto per il loro quartiere: i due adolescenti, i due
bambini, e due ragazzine che sentono di vivere un destino dal quale è difficile
emanciparsi, perché senza lavoro, un’occupazione dignitosa e adeguatamente
retribuita, non c’è possibilità di uscire dal perimetro del Rione Traiano, di
Napoli. È questo quartiere popolare, lo scenario del film dove, nel 2014, un ragazzo di sedici
anni, Davide, muore, colpito durante un inseguimento dal carabiniere che lo ha
scambiato per un latitante.
Davide non aveva mai avuto alcun problema con la giustizia. Come tanti
adolescenti, cresciuti in quartieri difficili, aveva lasciato la scuola e
sognava di diventare calciatore.
Anche Alessandro e Pietro, i due protagonisti, hanno 16 anni e vivono nello
stesso quartiere. Sono amici fraterni, diversissimi e complementari, abitano a
pochi metri di distanza, uno di fronte all’altro, separati da Viale Traiano,
dove fu ucciso Davide.
Alessandro è cresciuto senza il padre, che dopo la separazione dalla madre
si è trasferito lontano da Napoli. Ha lasciato la scuola dopo una lite con
l’insegnante che “pretendeva” imparasse a memoria “L’Infinito” di Leopardi. Ora
fa il garzone in un bar: guadagna poco, non va in vacanza ma ha un lavoro
onesto in un quartiere dove lo spaccio, per i giovani disoccupati, è un
ammortizzatore sociale di facilissimo accesso.
Pietro ha frequentato una scuola per parrucchieri, ma al momento nessuno lo
prende a lavorare con sé. Il padre, pizzaiolo, ha un lavoro stagionale fuori
città e torna a casa una volta alla settimana, mentre la madre è andata in
vacanza al mare con gli altri due figli. Lui, invece, ha deciso di passare
l’estate al rione, per fare compagnia al suo migliore amico e iniziare una
dieta che rinvia da troppo tempo.
Alessandro e Pietro accettano la proposta del regista di auto-riprendersi
con il suo iPhone per raccontare in presa diretta il proprio quotidiano,
l’amicizia che li lega, il quartiere che si svuota nel pieno dell’estate, la
tragedia di Davide. Aiutati dalla guida costante del regista e del resto della troupe, oltre che fare da cameraman, i due interpretano se stessi,
guardandosi sempre nel display del cellulare, come fosse uno specchio, in cui
rivedere la propria vita.
Una disputa allontana i due amici: Alessandro preferirebbe venisse
raccontato solo il loro rapporto e il resto delle cose belle del rione, ché di
quelle brutte parla già quotidianamente la stampa. Pietro, al contrario, non
vorrebbe tacere nulla, perché solo così lo spettatore potrà capire quanto è
difficile per loro, in quel contesto, vivere una vita “normale”.
Il racconto in “video-selfie” di Alessandro e Pietro e degli altri ragazzi
che partecipano al casting del film viene alternato con le immagini gelide
delle telecamere di sicurezza che sorvegliano come grandi fratelli indifferenti
una realtà apparentemente immutabile, con i ragazzi in motorino che sembrano
potenziali bersagli in un mondo dove la criminalità non sembra una scelta ma un
destino che ti cade addosso appena nasci. Un film fatto interamente di sguardi
dove il rione appare ai due ragazzi come una parafrasi dell’Infinito di
Leopardi, che Alessandro prova finalmente a raccontarci: circondato da un muro
che esclude la conoscenza di tutto ciò che sta al di là e che forse, si augura,
un giorno, almeno i suoi figli potranno finalmente scoprire.
Un
film malinconico e disarmante, a suo modo tenero, commovente per i sentimenti
di amicizia, che lega le persone al di là delle condizioni. Interessante la
miscela tra la non rinuncia al sogno e il senso pratico della vita che anima
soprattutto uno dei due ragazzi. L’affresco forse più drammatico è restituito
dalle due ragazzine che hanno introiettato i valori della famiglia, la fedeltà
assoluta all’uomo, anche nell’eventualità di una carcerazione lunga o
all’ergastolo, perché il rispetto è la prima cosa, come affermano in più
occasioni. Con un ragazzo che non fa mancare nulla e che ama, anche se fa una
vita sbagliata - queste più o meno le parole di una delle ragazze - si può
pensare di costruire una vita e anche di fare dei figli, certo addossando una
vita difficile a chi non ha chiesto di venire al mondo. D’altronde molti dei
ragazzi del quartiere sono figli di carcerati. Apparentemente è un film come
tanti, un documentario di denuncia su una realtà degradata e su Napoli ne sono
stati fatti altri. Mi pare però che sia interessante l’angolatura con la quale
la macchina da presa riprende questa realtà e l’attenzione, senza la facilità
del lieto fine - che anzi è tragico - al dovere di sognare e di non arrendersi.
Non sono due ragazzini redenti, sono due che vanno in motorino senza casco, uno
dei quali ha provato anche spacciare ma che sanno distinguere il bene dal male,
che sanno tener fede ad alcuni valori essenziali.
Al
caso Bifolco sono stati già dedicati parti di libri quali Una città dove si ammazzano i ragazzini (Edizioni
dell’Asino, 2014) firmato da Maurizio Braucci, Massimiliano Virgilio, Giovanni
Zoppoli e Chiara Ciccarelli o volumi interi come Lo
sparo nella notte. Sulla morte di Davide Bifolco, ucciso da un carabiniere (Monitor,
2017) di Riccardo Rosa da cui è nato anche un audiodocumentario.
Selfie è stato presentato
nella sezione Panorama della Berlinale 2019 nello stesso anno in cui La paranza dei bambini di
Claudio Giovannesi vinceva il premio per la Miglior Sceneggiatura (firmata dal
regista con Braucci e Roberto Saviano) nel Concorso principale.
Selfie
un film scritto e diretto da
Agostino Ferrente
interpretato e filmato da
Alessandro Antonelli, Pietro Orlando