di Antonio
Castronuovo
Iniziamo con una
delimitazione del senso di aforisma, e lo facciamo assieme a un cittadino
milanese illustre: Giuseppe Pontiggia, un fuoriclasse dell’aforisma. La parola
delimitazione ha già detto tutto: il verbo greco genetico, aforizein, è appunto delimitare.
Ma, ci fa notare Peppo, in aforizein
c’è la radice horizo, orizzonte: il
cerchio del nostro sguardo, il limite cui esso giunge. Per Pontiggia l’aforisma
è la possibilità di racchiudere, entro i limiti di una definizione, il flusso
altrimenti inafferrabile dell’esperienza. [Scrittori
italiani di aforismi, Meridiani, 1, p. XVI] Dunque aforisma come
definizione di una esperienza, cioè espressione di una esperienza e suo contenimento
in una formula breve. La brevità è carattere dell’aforisma, anche se non se ne
può dare una misura certa: da una riga a una pagina. In tal senso, accogliendo
il senso di aforisma come forma breve, la storia di quello italiano è quasi
millenaria: Ruozzi parte nella sua antologia da testi del Duecento,
dimostrandoci subito che i primi confronti con la forma breve, e per secoli,
non sono compiuti da letterati, ma da militari, medici, politici, maestri,
uomini di religione. Non persone che scrivono per letteratura ma per impegno
pratico: uomini che lavorano, che hanno un ruolo attivo nella società. Se solo
guardiamo a Dante, egli è testimone della parola aforismi in due sedi, e in entrambi i casi riferite
alla scienza medica: nel Convivio, alludendo al titolo dei
precetti medici di Ippocrate, scrive «li Aphorismi
d’Ipocràs» (I, viii, 5); e
in un verso del Paradiso, per
esprimere la vanità delle cure terrene: «Chi dietro a iura e chi ad
amforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio» (XI, 4). C’è insomma chi
segue la strada delle scienze giuridiche, chi quella degli «amforismi», cioè
delle scienze mediche. Possono dunque rientrare nel genere i Fioretti di San Francesco e i Motti e Facezie del Piovano Arlotto; i Pensieri di Leonardo o Paolo Sarpi e i Libri dei dubbi di Ortensio Lando; i Ricordi di Guicciardini e gli Aforismi politici di Tommaso Campanella.
Fino al Seicento viene privilegiata la trasmissione di saperi, la riflessione,
la descrizione di fatti della medicina, politica, arte militare.
Tommaso Campanella |
Un solo esempio dagli Aforismi politici di Campanella del 1601:
Il dominio d’uno buono si dice regno e monarchia; d’uno malo si dice tirannia. Di più buoni si dice aristocrazia; di più mali si dice oligarchia. Di tutti buoni si dice politìa; di tutti mali si dice democrazia.
Poi lungo il Seicento -
grazie anche alla nascita della massima
francese - appare qualcosa di nuovo: una certa leggerezza, il teatrino - anche
pungente - delle umane passioni. Tutte qualità che andranno ad abitare
lussuosamente nell’aforisma moderno.
Salvator Rosa (autoritratto) |
Ed è così che un Salvator Rosa, pittore, scrittore, poeta, musicista, attore, moralista, figura pienamente seicentesca in questo suo enciclopedismo biografico, può annotare aforismi di acuta modernità:
Dove son
molte leggi, vi son molte ingiustizie.
Due solo
giorni felici toccano colui che prende moglie: quello delle nozze e quello del
funerale.
Francesco Algarotti |
La linea perdura,
arricchendosi del motto di spirito e colorandosi di illuminata ironia lungo il
Settecento, quando nei Pensieri diversi
un Francesco Algarotti, amico di Voltaire, uomo curioso e pungente, nemico
dell’ignoranza e dell’affettazione, può scrivere:
Gli
epigrammisti in poesia sono come i fioristi in pittura.
Chi non sa
viver solo morirà in compagnia.
La donna non
pone tanto studio nel vestirsi se non perché l’uomo meglio desideri di vederla
spogliata.