LA ZONA D’OMBRA
di
Angelo Gaccione
È un’idea fallace credere di
conoscere davvero qualcuno. Intendo dire conoscerlo profondamente, nelle sue
pieghe più recondite, nei suoi anfratti più nascosti, nei suoi abissi più
insondabili. In verità noi non conosciamo per intero nessuno. Non conosciamo i
nostri figli e fratelli e tanto meno i nostri pur amati genitori. Non
conosciamo gli amici, quelli a cui siamo legati da profondo affetto, figuriamoci
i semplici conoscenti con i quali intratteniamo rapporti superficiali e occasionali.
Ma conosciamo almeno noi stessi? Poco, e anche questo poco in modo alquanto
parziale. Se conoscessimo veramente noi stessi non potremmo sopportare le
spinte, spesso rovinose, che cerchiamo come possiamo di tenere a bada. L’altro
che c’è in noi deve essere soffocato perché non venga a turbare l’esistenza del
primo, e in questo quotidiano diuturno conflitto oscilliamo incoerenti e
imprevedibili. Quando le rare volte ci soffermiamo a riflettere su alcuni
gesti, modi, scelte, del nostro agire, abbiamo la sensazione di non essere
stati proprio noi a farli, ad averli voluti, ed è come se ogni cosa fosse
avvenuta per un condizionamento indipendente dalla nostra volontà. Se a
posteriori ne diventiamo consapevoli, non ci riconosciamo affatto e ci sentiamo
come estranei a noi stessi. “Mi sembravi un altro” ci fanno notare, e in questa
sottolineatura c’è un fondo di amara verità.
Restiamo sconcertati e sorpresi davanti a fatti e
comportamenti che non ci saremmo mai aspettati da nostri congiunti stretti o da
amici che credevamo di conoscere bene. Li avevamo frequentati a lungo, ne
avevamo condiviso disagi e gioie, raccolto confidenze, e ci eravamo
vicendevolmente aperti trovandoci in sintonia. E invece ciò che ci ha spiazzati
e ci ha precipitati nel dubbio, è la prova che ci era rimasta oscura gran parte
della loro personalità. In fondo non conosciamo, l’uno dell’altro, che la
patina esterna, la superficie. Dicono che ci sono cose che nemmeno i coniugi
più affiatati e legati da una vita si raccontano. Dicono che certe cose non si
debbano raccontare neppure ai figli, ed è probabile che sia così. Io ignoro se ciò
che deve rimanere nascosto in questi legami sia qualcosa di innominabile;
qualcosa di così grave che produrrebbe solo dolore ed è meglio resti un segreto
da portarsi nella tomba. Ripeto, lo ignoro. Di certo possiamo affermare che nessuno
di noi sa come reagirebbe davanti ai casi più imponderabili della vita, a sventure
improvvise, a eventi estremi.
Lo sventurato papà di Novi Ligure mai avrebbe pensato che la sua giovanissima figlia, l’angioletto che abbracciava felice tornando a casa, avrebbe potuto trasformarsi in una fredda e feroce assassina del fratellino e della mamma. Credeva di conoscerla bene quando le rimboccava le coperte e le dava il bacio della buona notte. Il suo sonno era così sereno, così pacificato, ed era ancora una adolescente. E dopo quelle vite rovinate il suo comportamento di padre pugnalato al cuore spiazza tutti: non l’abbandona al suo destino la figlia omicida, cosa che umanamente ciascuno avrebbe compreso, ma ne fa l’unico legame con la vita. Un altro al suo posto sarebbe andato alla deriva; un altro si sarebbe impiccato e un altro ancora chissà…
Ciascuno di noi è un grumo di misteri per sé stesso e per gli
altri, e gli altri lo sono per noi. E forse hanno ragione i pessimisti quando
affermano che anche l’aver vissuto per un lungo tratto di vita assieme non sarà
bastato a conoscersi davvero e per molti aspetti si rimane estranei l’uno all’altro.
Ce lo fanno constatare portandoci ad esempio coppie (sposate o memo) che hanno
condiviso buona parte della loro esistenza e ad un certo punto decidono di
interrompere questo legame. La delusione maggiore è proprio quella di scoprire
di aver vissuto accanto ad un essere rimasto quasi del tutto sconosciuto. È
divenuta così comune questa giustificazione, che ci inquieta e ci obbliga ad
interrogarci. E tutto questo al di là del mutare del sentimento o del suo
isterilirsi. Un tale discorso sembrerebbe avvalorare la tesi di una frustrante
incolmabile distanza, anche fra soggetti in realtà vicinissimi per affetto,
legami familiari e di amicizia. Come è possibile? È una domanda destinata a
rimanere senza risposta. Può darsi che se ci conoscessimo davvero fino in fondo
la frequentazione potrebbe diventare problematica, ed il danno sociale ed umano
avrebbe un prezzo troppo alto. Allora forse è meglio non pretendere più del
dovuto, che sia un genitore, un fratello, un amico; meglio lasciare che il
nostro sforzo di conoscenza si arresti al limitare senza varcare la soglia; che
quella “zona d’ombra” resti inviolata e che ogni uomo o donna continui a dibattersi
nel suo inestricabile, misterioso groviglio.
[Milano, 24-25 settembre 2021]