BANCHIERE, A CHE PUNTO È LA NOTTE?
di Alfonso Gianni
Parafrasando il celebre testo biblico potremmo chiedere
“Banchiere, a che punto è la notte?”, ma rischieremmo di ricevere la stessa
risposta che la sentinella nel sacro testo fornisce al suo angosciato
interlocutore: “Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare
interrogate pure; tornate e interrogate ancora”. Il fatto che in queste
settimane compaiano libri e testi teatrali - tra gli altri un saggio di critica
della geopolitica di Isidoro Mortellaro e una pièce teatrale scritta e
interpretata da Nichi Vendola - che fanno, ognuno per suo conto, riferimento a
questo interrogativo senza risposta, ci dà, forse più di ogni altra cosa, la
dimensione nella quale viviamo. La cifra dell’anno che verrà, non solo dal
punto di vista economico di cui principalmente qui ci si occupa, è segnata da
un’elevata incertezza. Non è una novità assoluta. In effetti più di
cinquant’anni fa Hyman Minsky scriveva che “la differenza essenziale tra
l’economia keynesiana e l’economia sia classica che neoclassica è l’importanza
attribuita all’incertezza”, includendo nell’economia neoclassica anche il
tentativo di normalizzazione del pensiero keynesiano cominciato da subito con
un famoso articolo di John Hicks del 1937. Ma è indubbio che “l’economia del
disastro”, per tornare a citare Minsky, abbia accorciato negli ultimi tempi
l’intervallo fra una crisi e l’altra. Secondo alcuni economisti (ad esempio
Janet Yellen) gli ultimi tre anni contrassegnati dalla pandemia e dalla guerra
in Europa, dove non sono ancora stati smaltiti gli effetti della crisi
economico-finanziaria del 2008, “saranno visti come un periodo di instabilità
unico nella nostra storia moderna”.
Previsione azzardata, proprio perché questo periodo appare tutt’altro che concluso. Se guardiamo alla guerra, l’esile fiammella dell’apertura di un processo di pace sul versante russo-ucraino è subito accompagnata dal surriscaldamento delle tensioni al confine fra la Serbia e il Kossovo. Come a sottolineare che ormai la guerra entro il continente europeo è considerata un’opzione sempre possibile, quasi normale. Se guardiamo alla situazione economica e finanziaria e cerchiamo di fare una media tra le valutazioni dei più autorevoli economisti, dei grandi operatori finanziari e manager di multinazionali, i famosi funzionari del capitale, l’ipotesi più probabile per il 2023 è quella di una recessione strisciante. Solo i più ottimisti si pronunciano per una timida inversione di tendenza nella seconda parte del 2023. Ma non si capisce come, tanto che appare più un wishful thinking che non una ponderata previsione.
Tra le maggiori 26 banche
centrali del mondo, ben 22 hanno alzato i tassi di interesse. Lo hanno fatto
137 volte aumentando così il costo del denaro di 82,6 punti percentuali.
Diverse tra loro, tra cui la Bce, hanno iniziato o annunciato la riduzione del
bilancio (quantitative tightening). Le attese delle decisioni sui tempi
e sull’entità dell’innalzamento dei tassi tengono col fiato sospeso non solo le
famiglie alle prese con l’aumento dei prezzi e dei mutui, ma i governi.
L’indipendenza delle banche centrali - mantra del neoliberismo - si è
risolta nella dipendenza degli esecutivi da queste. Perciò si alza il
richiamo alla trasparenza e alla necessità che le banche centrali traccino un
percorso definito. Cosa che la Lagarde non fa, andando avanti giorno per giorno.
Anche gli editorialisti de Il Sole 24Ore chiedono che l’autonomia dalle
interferenze dei governi venga almeno bilanciata dal rendere conto nei
parlamenti. In primo luogo ciò dovrebbe avvenire a livello europeo, non in modo
occasionale e non solo sulla valutazione del già fatto, ma sulla programmazione
del fare. Ma quanto riferisce la Commissione sulle linee guida della riforma
del patto di stabilità si muove in tutt’altra direzione: quella di accentrare
potere nelle mani della Commissione stessa, riducendo ulteriormente il ruolo
del Parlamento. Non solo di quello europeo, ma anche dei parlamenti nazionali
le cui decisioni sui bilanci dovrebbero sottostare ai percorsi decisi dalla
Commissione. Sparisce l’incredibile norma del rientro al 60% del rapporto fra
debito e Pil in venti anni, ma si irrigidisce il controllo della Commissione
sul percorso economico dei singoli stati. La Ue in particolare rimane così
stretta fra aumento dell’inflazione - essendosi preclusa la possibilità di
agire sulle sue cause esogene, in particolare la guerra - e precipitazione
nella recessione. Ma una simile tenaglia non è inevitabile: sfuggire ad essa è
il terreno per la ricostruzione di una sinistra. Non è vero che l’unica cura
contro l’inflazione sia una politica restrittiva nella speranza che il calo dei
consumi trascini con sé quello dei prezzi. Ce lo ha insegnato la stagflazione,
cioè la compresenza di inflazione e recessione. Se negli Usa l’inflazione è in
gran parte dovuta all’innalzamento dei prezzi dei beni di consumo, in Europa
questa dipende per due terzi dal caro-energia. Qui più che altrove il tema
è: quali consumi e quali investimenti.
Affrontarlo a livello europeo è necessario. La conversione ecologica
dell’economia - articolabile in una miriade di realistici progetti - è la leva
indispensabile.