CERCANDO UN OLTRE NELLA NEBBIA DEL PRESENTE
di
Adam Vaccaro
Mauro Macario
Questo
piccolo grande libro di Mauro Macario (Il rumore della nebbia,
puntoacapo, 2023, pagine 8o), nasce e vive nell’intreccio complesso tra le
cacofonie e le derive del contesto, e i riflessi emozionali angosciosi, nei
quali il poeta congiunge pensare e sentire (come sottolinea anche Marco
Ercolani nella prefazione), facendone ricchezza di sensi. È l’intreccio cui l’Autore
dà nome di nebbia, con rumore costitutivo di una diade che non è semplice
metafora, ma essenza metonimica di una condizione, che si fa voce straziante di
un avviso collettivo e singolo dello stato in cui stiamo scivolando catatonici –
come la famosa rana, bollita in una illusoria pentola libera e mortale. Un
vissuto, al quale i versi contrappongono una musica di ribellione, tra speranze
uccise e disperate ricerche di resistenza antropologica. Ne scaturiscono
squilli, opposti a un contenitore di buio accecante e silenzio assordante, al
pari del tenente Drogo chiuso nella Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari buzzatiano.
E se non ci sono concrete possibilità di vittoria sui noti-ignoti scenografi
del destino e declino in atto, i versi librano e liberano guerrieri solitari che
saltano su punte luminose e lancinanti, come le scarpette di una etoile.
Guerrieri danzanti che non si arrendono, cui questo libro offre un esempio di canto
ed epica moderna. Un taglio spietato e disincantato che offre e ci fa saltare tra
orrori delizie di una vita che non smette di voler rinascere.
“Navi
da guerra spumeggiano/ al largo/ incrociando il destino/ su mine vaganti/
morire per la patria/,,,/ Motoscafi Riva/ in volo sull’acqua/ esaltano i primi
bikini/…/ C’è di tutto in questo mare/ elmetti incrostati di corallo/ l’estasi
della rinascita/ giovinezze sbudellate/ …/Una fauna esotica/ concima le
coscienze/ in un acquario necrotico/ tra oblio occidentale/ e romantiche
adolescenze/ un disordine perfetto/ uno stile di nuoto/ per restare a galla/
tra rimpianti canterini/ e grida di
soccorso/ morire di letargia” (Crociera forza sette, pp. 13-14)
Il testo snoda una sorta di libretto di
un’opera concertante, che non si accontenta di scagliarsi contro le ignominie
del mondo in cui viviamo, per dare voce agli incubi umanissimi creati in noi
mentre incrociamo panfili, portaerei e zattere disperate nel mare-caos, in cui
ci dibattiamo e si distende imponente. Ne derivano altri tasti, oltre il sarcasmo
e l’invettiva, di scorticante autoironia, che alleggeriscono l’orchestrazione, con
sapienza compositiva, anche se elencano sbocchi privi di salvezza. È il pregio della
poesia autentica, che sa rovesciare come una clessidra l’angoscia, facendone un
fiore, senza eliminare il sapore amaro e marcescente. La maestria dell’Autore
sa trasmutarla in fiori, anche se sa di sangue, cuore trafitto, intelligenza tramortita
e calvario – tanto da far ricordare il pirandelliano uomo dal fiore sulle
labbra - che tuttavia non produce in noi ripiegamento lamentoso, perché genera coscienza
della ricerca e dell’urgenza collettiva di un’uscita da quella pentola.
“Io
scrivo senza censure/ perché poesia e anarchia/ sono gemelle in utero mundi/
chi vuol separarle/ con bisturi euclideo/ dovrà vedersela/ con un clan indiano/
che vende cara la pelle/…/ la castità espressiva e repressiva/…/ sai bene che i
guerrieri senza speranza/ sono imbattibili/ sventrano come niente/ la carica
oscurantista/ il tuo scalpo già sventola/ in cima alla loro lancia” (Poesia
arco e frecce, p. 16)”
Il
nucleo epifanico di tale sinfonia concertante è il Vuoto disperato della
mancanza di una coscienza generale della gravità delle derive nazionali e
internazionali, sociali, economiche e politiche, e prima di tutto culturali. Il
poeta risponde al bisogno di dare nome alla Cosa che sta vivendo, che coinvolge
intelligenza, dolore ed etica sociale, e trasmuta in una immagine di perdita di
visione e capacità di capire, smarrimento e rivolta, di fronte a una condizione
di Vuoto e Perdita di Senso.
È
la sintesi di senso dell’immagine del titolo, del dominio in atto nell’attuale
fase storica e dell’angoscia antropologica che ne deriva. La quale può poi sfociare in una resa totale,
quale quella di versi in chiusura:
“Mi
sparerò in bocca/ il gusto della polvere da sparo/ non lo si conosce/ finché
non ti attraversa la testa/ questa testa maledetta/ che non mi ha dato pace”
(Suicidio a puntate, p. 75)
Ma
anche questo epilogo conferma che la poesia non è Verità, il suo valore sta
nell’incrocio adiacente di finzione-verità, in cui certo, il poeta è un
fingitore, come dice Pessoa (che è anche titolo di una trasmissione televisiva curata
da Mauro), ma la sua verità è finzione insostituibile di alimenti lungo il
percorso interminabile della coscienza di sé e del Mondo. Per cui, la flagrante
esplosione di questi versi non lasciano scie di tristezza, ma di irrisione
surreale. Perché ribadiscono, in altri termini, la decisione di morire da vivo,
e non vivere da morto, conficcata in uno “sguardo di lupo” (Il predatore, p. 64),
che difende ciò che ha di più sacro, la sua identità, anche se minacciata e
ridotta a granelli di sabbia, del deserto in cui si dibatte. La poesia di
Macario è con occhi di ghiaccio e cuore che brucia, in un fuoco immaginario di
una rinascita, di un guerriero che se ricorda Don Chisciotte e sbeffeggia anche
chi la scrive, urla nel miserere delle infinite vittime della giostra festante e
letale dominante, tesa con l’esercito dei media a offrire valanghe di giochi ed
emozioni castrate, armi di distrazione di massa, necessarie a uccidere nella
rana una coscienza critica.
Pochi
i poeti che strappano il drappo dalle vergogne del re, e illuminano il bisogno
di un altro senso, cercato con richiami a Confucio e Leo Ferré, Giordano Bruno
e tanti altri, noti e ignoti, che popolano queste Alchimie poetiche tra
“spazzatura e pepite” (p. 43). Ma voglio chiudere questa mia sintetica nota di
lettura con i versi dedicati “alla comunità festosa/ che celebra la vita”
(Diserzione di massa, p. 48), nonostante tutto.
Mauro Macario |