DISINCANTO E SPERANZA IN MASSIMO KLUN
di Federico Migliorati
Le nuove poesie di Massimo Klun vivono
come fossero immerse in un liquido amniotico, primordiale: in esso recuperano
il senso di ogni cosa narrata e definita, da esso trovano linfa per “raggiungere”
il presente, mai totalmente disgiunto da un passato penetrante, pressante,
talvolta ingombrante. Com’è evidente, in questa silloge che si compone altresì
di schegge, di brevi testi in prosa, di una letteratura ibrida dal sostenuto
registro lessicale, assistiamo a una sorta di flash-back costante tra il tempo
attuale (“alla rovescia”) e quello più lontano, tra la sofferenza e i silenzi
malati della pandemia di cui ancora percepiamo l’eco e il recupero di una
memoria fertile (i genitori, i familiari, l’infanzia, i compagni di scuola, più
in generale ciò che ci sta alle spalle) che si autoalimenta di uno ieri divenuto
mito, proiezione di una condizione impaniata. Il poeta ricorre a una svariata
serie di figure retoriche, metafore, similitudini, analogie e si muove in un
universo ove la morte abita la mente, in questo forse debitore del concittadino
Saba (“è il pensiero della morte che, infine, aiuta a vivere”), mentre la vita
si veste di fatalità, di un Dio che gioca a dadi e l’incidente/accidente è sempre
possibile. Klun opera un’azione di efficace parallelismo tra le emozioni e le
azioni vissute da fanciullo e quelle della sua età attuale sì da formare un
doppio livello di lettura, di architettura scenica sul palcoscenico della
scrittura, consapevole che scripta manent. Sul filo di una narrazione frastagliata
tra epigrammi e tessitura distesa del flusso di coscienza si affacciano alla
vista il perpetuarsi del ritmo circadiano, i singulti della memoria
involontaria, i bagliori della mente, il recupero di termini ed espressioni tratti
dal dialetto triestino a ispessire il significato. La natura e i suoi elementi
(l’aria, l’acqua, la terra), per un autore figlio di un luogo bello e selvaggio
che respira il profumo del mare e le atmosfere carsiche, serve sovente a riallacciare
i legami con le ombre del tempo più remoto, dissigilla piccoli segreti che
trovano la loro epifania, il loro manifestarsi più pieno nell’hic et nunc, tra “ansie
antiche” e un “estivo ciondolare”. Personaggi istrionici fanno la loro comparsa
e ci dicono di esistenze ai limiti, di visioni e di apparizioni che raccolgono
la sfida del percorso di Klun ben sapendo che “sognare è morire”: la poesia e
più in generale la scrittura hanno per lui, che vanta una carriera da dirigente
assicurativo e bancario, una funzione catartico-terapeutica, in grado di
svellere il peso di una tregenda (sia esso il Covid con il suo linguaggio alfanumerico
o i tormenti che si trova ad affrontare) per superare tic, fisime, ansie,
paure. È come risalire un fiume: superare ostacoli per giungere alla sorgente,
alla purezza. In ciò sta l’essenza ultima di questi pregnanti versi: leggere “un
diario fotografico sfogliato a salti”, tra disincanto e speranza, nonostante tutto.
La copertina del libro |