EUROCENTRISMO
di Monica Quirico
Monica Quirico
L’eurocentrismo, malattia congenita del
capitalismo.
Trentacinque anni fa (1988) usciva
Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018), che, sfidando la
rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali
(introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare
radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata
da movimenti e partiti identitari (in Occidente come altrove), bene ha fatto la
casa editrice La città del sole a rendere disponibile in italiano la seconda
edizione dell’opera (Eurocentrismo. Modernità, religione e
democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a
cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022),
uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che
aggiornano la versione originale. Tra la prima e la seconda edizione la storia
è sembrata prima “finire”, con il crollo del socialismo reale, e poi regredire
verso la barbarie generalizzata, con l’attentato alle torri gemelle preso a
pretesto dagli USA per imporre il loro controllo militare sull’intero pianeta;
un’involuzione che per Amin non è affatto una sorpresa: “l’ideologia borghese,
che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per
sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’
irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p.
32). Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in
Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore,
che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato
in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la
Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di
decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non-allineati.
Diventa così urgente un confronto sulle cause dell’”arretratezza” (nella
terminologia occidentale) del Sud del mondo. Amin figura, insieme con Giovanni
Arrighi, Andre Gunter Frank e Immanuel Wallerstein, tra i fondatori della
scuola che guarda al capitalismo come sistema globale, il cui centro
(l’Occidente) prospera impedendo lo sviluppo dei paesi periferici, per poter
estrarre valore dalla loro forza-lavoro e depredarne le risorse naturali.
Tuttavia, rispetto agli altri capostipiti di questo filone di studi Amin è
quello che più si mantiene ancorato agli strumenti concettuali coniati da Marx
(in particolare, quelli di modo di produzione e formazione sociale), pur
ricollocandoli in una dimensione globale. Inoltre, diversamente da Wallerstein
rifiuta di considerare la periferia del mondo come una mera variabile
dipendente del centro: il capitalismo ingloba infatti formazioni sociali che,
pur soggette alle leggi del mercato mondiale, vedono la sopravvivenza di modi
di produzione precapitalistici.
Monica Quirico |
Samir Amin |
In opere come L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo (1970) e Lo sviluppo ineguale (1973), l’economista franco-egiziano sviluppa la tesi che il divario tra l’Occidente e i paesi periferici non sia affatto imputabile a un ritardo di questi ultimi, bensì costituisca la condizione necessaria dell’esistenza stessa dell’ordine fondato sul mercato. Proporre di colmare lo squilibrio con l’adozione, nel Sud del mondo, di politiche modellate sul percorso dei paesi occidentali è dunque mistificatorio. L’approccio di Amin, che nei primi anni Settanta fece scalpore, oggi potrebbe suonare scontato, essendo stato acquisito da un ampio spettro di studi (sociologici, femministi, economici). Lo è davvero? Le politiche finanziarie degli organismi transnazionali e perfino gli aiuti umanitari rimangono modellati (in termini economico-sociali, culturali e “morali”) sui punti più alti, in termini di profitto, del sistema capitalista. I risultati ben li conosciamo. Nel Capitolo I di Eurocenrismo, dedicato a Modernità e interpretazioni religiose, Amin discute il concetto di modernità così come emerso dall’Illuminismo, che, a differenza delle culture precedenti, riconosce all’uomo la capacità di fare la propria storia; tale libertà tuttavia è viziata dalla subordinazione alle esigenze del capitalismo. La “ragione emancipatrice” è infatti una ragione borghese, con precise determinazioni temporali e geografiche; essa identifica la libertà con il mercato e, sul piano politico, con la democrazia, che – a dispetto della retorica trionfalistica – è sic et simpliciter un sistema in cui lo Stato ha una funzione ancillare rispetto agli imperativi dell’economia. Nella deriva rappresentata dall’ “ideologia libertaria di destra” (Hayek) scompare ogni finzione: gli esseri umani rimangono artefici della propria storia, ma il teatro in cui si muovono è una giungla. È l’epoca dell’americanizzazione del mondo. Si impone una ragione degenerata e distruttiva, che non solo rinuncia a ogni parvenza di emancipazione, ma assume la funzione – scrive Amin con formula incisiva – di “impresa di demolizione dell’umanità” (p. 43) e del pianeta tutto.
Il marxismo è lo strumento per comprendere il mondo e
trasformarlo, a patto – sul punto l’autore insiste – di partire da Marx,
anziché riproporne meccanicamente le analisi. Da Marx nondimeno Amin riprende
la centralità del binomio struttura-sovrastruttura, depurandolo dalle
tentazioni deterministiche che ne hanno segnato l’utilizzo e facendone la
bussola dello studio non del mero modo di produzione, ma delle formazioni
sociali nella loro totalità, risultato del rapporto dinamico tra l’istanza
economica, quella politica e quella culturale-religiosa. Forte di una robusta
conoscenza della storia delle religioni e della filosofia (e naturalmente di
storia africana), Amin indaga il ruolo che le diverse religioni e culture hanno
svolto in relazione allo sviluppo del capitalismo. Un’operazione decisamente
sui generis, nella storia del marxismo, che porta l’autore a smontare il mito
del cristianesimo in generale o di una sua specifica declinazione (la Riforma
protestante) come fucina della modernità capitalistica, in virtù di peculiarità
- assenti in altre religioni - che avrebbero partorito il “miracolo europeo”. È vero
semmai il contrario, osserva l’autore: le religioni, tutte, si sono conformate
alle esigenze del modo di produzione capitalistico, ma lo hanno fatto in modo
diverso, come Amin illustra nella ricostruzione del rapporto fra le tre
religioni monoteiste e il contesto politico-economico dell’epoca.
Gramsci |
Perché l’Europa ha rotto con il modo di produzione tributario e il mondo musulmano no? A questa domanda, gli occidentali rispondono puntando il dito contro le specificità della religione islamica: un tema agitato anche da quello che Amin chiama islam politico, espressione che raggruppa tanto i moderati quanto i fondamentalisti; tra i due gruppi l’autore non scorge distinzioni sostanziali, imputando a entrambi una forma di “eurocentrismo rovesciato”. Il motivo per cui la modernità (capitalistica) non si è realizzata nei paesi musulmani, come nelle altre aree del sud del mondo, è che il capitalismo esige l’esistenza di un centro e di periferie subordinate. Manovrati da borghesie nazionali complici, e succubi, delle classi dominanti europee e nordamericane, i fondamentalisti (inclusa la Repubblica islamica dell’Iran) addebitano il degrado dei loro paesi all’Occidente, senza mettere mai in discussione la vera causa della loro subalternità, il capitalismo. Quanto al cristianesimo, esso non ha creato la società borghese; piuttosto, si è rivelato più adattabile, in virtù di due assenze, rispetto alle altre due religioni: la rinuncia a costruire il regno di Dio sulla terra e la mancanza di una traduzione giuridica dei principi del Vangelo. In breve, “i due discorsi del capitalismo mondializzato e dell’islam politico non sono in conflitto, ma perfettamente complementari” (p. 95). Entrambi neutralizzano le contraddizioni di classe spostando il piano dello scontro sull’incompatibilità di presunte “identità” collettive. L’élite occidentale e in particolare quella statunitense hanno quindi tutto l’interesse a fomentare il fondamentalismo islamico (come si è ben visto in Afghanistan): esso non solo garantisce che i popoli periferici rimangano subalterni al capitalismo mondiale, ma può sempre essere addotto come pretesto per legittimare interventi militari all’estero e pugno di ferro contro i musulmani in casa.
P. Da Volpedo Il Quarto Stato (part.)
Nel Capitolo II, Per una teoria della cultura. Critica
dell’eurocentrismo, l’autore presenta la sua innovativa lettura della
storia globale. Occorre ripercorrere la storia, anzi, le storie, delle diverse
aree geografiche per capire con quali tempi, modalità e peculiarità vi si sia
affermato il capitalismo, anziché liquidare la questione con il presunto
primato culturale dell’Occidente, che ne spiegherebbe lo sviluppo precoce. Amin
prende di mira le due declinazioni della storiografia eurocentrica, che, nel
loro apparente antagonismo, condividono un approccio teleologico, sia pure con
approdi diversi. La prima è quella liberale, che istituisce una continuità fra
l’età classica (il mondo greco-romano, arbitrariamente identificato con
l’Occidente e contrapposto all’Oriente), l’età feudale (cristiana) e l’avvento
del capitalismo. La seconda è quella di matrice marxista, nota come teoria
degli stadi, presente negli scritti giovanili di Marx ed Engels
(successivamente attenti ad analisi storiche più articolate) e poi canonizzata
dai partiti comunisti e da teorici marxisti non solo ortodossi. Benché Amin non
sia certo l’unico a prendere le distanze dall’idea che la storia dell’umanità
parta da forme di comunismo primitivo, per passare poi attraverso lo schiavismo
e il feudalesimo e infine approdare al capitalismo, la ricostruzione
alternativa della storia globale che offre in Eurocentrismo racchiude una sfida
non solo al dogmatismo della vulgata marxista, ma alla storiografia tout-court.
Se già la nozione di comunismo primitivo scompare per lasciare il posto a
quella di comunitarismo (una rete di piccole comunità cementate dalla
parentela), l’operazione più dirompente è la marginalizzazione geografica e
cronologica del feudalesimo, inserito nel più ampio modo di produzione
tributario, i cui elementi caratterizzanti sono una struttura politica centralizzata
che estrae surplus economico da un’area agraria e il ruolo ideologico
legittimante delle grandi religioni. Nella categoria coniata da Amin sono
ricompresi tanto il marxiano modo di produzione asiatico (Egitto, India, Cina),
che ne costituisce il nucleo centrale, quanto il feudalesimo europeo, che del
modo di produzione tributario appare come un capitolo tutto sommato marginale
rispetto alla longevità dei sistemi tributari africani e asiatici. Se Marx si è
limitato ad abbozzare il modo di produzione asiatico, in Eurocentrismo
esso è alla base, come cuore del sistema tributario, della rottura operata con
la periodizzazione tradizionale: la cesura fra antichità e medioevo (collocata
dalla storiografia eurocentrica alla fine dell’impero romano d’occidente) viene
retrodatata all’epoca dell’unificazione ellenistica dell’Oriente (300 a.C.
circa).
Giorgio Riolo curatore del volume |
Pur mantenendo la centralità della struttura economica nell’interpretazione dei processi storici e sociali, Amin propone una tipologia dualistica dei modi di produzione che muove da un concetto di totalità a dominante: mentre nei sistemi precapitalistici lo sfruttamento delle classi subalterne è diretto, immediatamente visibile e l’istanza dominante è quella politico-ideologica, nel capitalismo lo sfruttamento è, per così dire, mascherato dal contratto fra datore di lavoro e proletario e dall’impalpabilità del plusvalore. In esso è l’istanza economica a governare direttamente le società, attraverso una mercificazione universale che ingloba perfino la forza-lavoro. Dopo aver analizzato l’evoluzione di cultura e religione (strettamente intrecciate) nelle società tributarie delle diverse aree del mondo, nel Capitolo III, La cultura del capitalismo, Amin ripercorre l’unificazione forzata del globo a opera del capitalismo, cui corrisponde una Weltanschauung (la Ragione) solo formalmente universalistica. La globalizzazione infatti non implica affatto l’omogeneizzazione: un mondo in cui nove miliardi di persone godano del tenore di vita degli occidentali è semplicemente inconcepibile; il sistema pretende anzi la polarizzazione fra centro e periferia e l’eliminazione (manu militari o tramite ricatti del Fondo Monetario Internazionale) di quei paesi che resistono alla (finta) globalizzazione. “L’ideologia dominante legittima così sia il capitalismo come sistema sociale sia la diseguaglianza su scala mondiale che lo accompagna. […] Il mito filocristiano, quello dell’antenato greco, la costruzione antitetica e artificiale dell’orientalismo connotano il nuovo culturalismo europeo ed eurocentrico, condannandolo irrimediabilmente ad accettarne l’anima dannata: il razzismo ineliminabile” (p. 165, corsivo mio). Amin si spinge oltre: il nazismo, lungi dal rappresentare un’aberrazione della storia, è una possibilità sempre attuale. Al fallimento di un’autentica globalizzazione, che per sua stessa natura il capitalismo non può realizzare, pena il suo tracollo, gli esseri umani reagiscono con salti nel vuoto identitari, in conflitto fra loro, mentre la natura viene irrimediabilmente distrutta.