DEMOCRAZIE LIBERALI
di
Franco Astengo
Nell'evidente difficoltà delle
democrazie liberali stiamo assistendo ad una cruciale fase di passaggio:
durante il dominio della televisione come mezzo di comunicazione di massa, la
"democrazia del pubblico" (teorizzata da Bernard Manin) si esplicava
giudicando l'offerta politica in una grande arena collettiva. Oggi invece il
grande stadio virtuale in cui si radunavano gli elettori per assistere al
duello elettorale non c'è più. L'area pubblica si è frammentata in una miriade
di "bolle mediatiche" sul web, assieme a sottosistemi e a
interconnessioni che alla fine costringono i politici a rovesciare il rapporto
tra offerta e domanda politica secondo le regole della pubblicità, reclamando
la verifica di un ascelta non con la bontà dell'opzione assunta, ma la sua
coerenza con la propaganda che l'ha preceduta. Così dall'opposizione si spara ad alzo zero e si fa presto a
entrare e uscire dalla scena del governo: è stata l'adozione di questo
principio il danno più grande (e per ora irrimediabile) compiuto dal M5S al
riguardo del sistema politico italiano e l'origine della scelta (del tutto
incauta) compiuta dall'elettorato nei riguardi di FdI, partito portato al
governo senza un a reale ragione che non fosse quella di eliminazione per gli
altri. FdI ha avuto pochi voti (soltanto
sette milioni per conseguire la maggioranza relativa). Voti del resto,
amplificati nel numero dei seggi parlamentari da una legge elettorale
sicuramente anticostituzionale almeno secondo i principi enunciati dall'alta
Corte nel momento in cui aveva accolto le istanze, promosse dall'avv, sen.
Besostri, di rigetto della formula elettorale del 2005 e di quella escogitata e
mai entrata in vigore dal governo Renzi nel 2015. Come abbiamo già fatto notare la crisi della democrazia
liberale si sta traducendo in un rovesciamento nel rapporto tra domanda e
offerta: è la domanda che guida il processo politico assumendo le richieste del
pubblico come prezzo del consenso (era questo il motivo per il quale il M5S
chiedeva di modificare l'articolo 67 della Costituzione sulla rappresentatività
di mandato). In questo quadro può sorgere un
nuovo "autoritarismo democratico" che punta a tenere ai margini la
partecipazione popolare coltivando con cura sia il disinteresse crescente sia
le risposte corporative allo scopo di restringere e semplificare l'arena di
ricerca del consenso.
È
risultata sicuramente colpevole la sottovalutazione (che ha coinvolto l'insieme
della politologia italiana) circa la diminuzione costante nella partecipazione
al voto a lungo scambiata per un allineamento dell'Italia alle "democrazie
occidentali mature" e la dismissione da parte dei partiti sia dei
riferimenti ideologici sia della funzione pedagogica.
Sulla
funzione pedagogica si era costruito il radicamento sociale dei grandi partiti
di massa, ma anche l'identità "forte" di quelli di più modesta
dimensione elettorale: dimensione elettorale che non rappresentava l'unico
parametro per giudicare la validità culturale e sociale della presenza di un
partito come hanno dimostrato le storie del PRI, del Partito Radicale e delle
forze collocate a sinistra del PCI (Pdup e Democrazia Proletaria).
Come
rispondere a questo pericoloso stato di cose?
L’idea
dovrebbe essere allora quella di lavorare, con tutti gli strumenti disponibili,
intorno a quel rapporto tra cultura e politica ormai ridotto all’assemblaggio
di un insieme di tecnicismi, in diversi campi da quello accademico per arrivare
a quello istituzionale.
Si tratta di partire per una
ricognizione di fondo con l’ambizione di ottenere il risultato di provocare una
riflessione complessiva tale da superare le settorializzazioni, gli schematismi
oggi imperanti che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la qualità degli
studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire politico”. Non possiamo permetterci di
interpretare il senso delle cose soltanto seguendo l'interesse immediato di
questo o quell'altro gruppo di potere recuperando la logica dell'uomo/donna che
lo interpreta direttamente senza mediazioni facendo credere che lo si faccia
nell'interesse di un "popolo" indistinto, o peggio nell'interesse
della sua parte più privilegiata e più facilmente manipolabile dai mezzi
correnti nella costruzione di una realtà presunta e illusoria. Serve legarsi a
un filo conduttore, coscienti del fatto che ciò non significa che il pensiero
politico si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime
categorie. Al contrario è necessario
prestare grande attenzione e insistenza nel mettere in luce che, se è vero che
i concetti politici sono la struttura-ponte di lungo periodo è anche vero che
solo le trasformazioni epocali, il mutare degli orizzonti di senso, il
modificarsi catastrofico degli scenari sociali e politici, oltre che
intellettuali, hanno consentito ai concetti politici di assumere di volta, in
volta, il loro significato concreto.