L’ANNO DELLE BOMBE
di Fortunato Zinni
Sopravvissuto all’esplosione della bomba della Banca
Nazionale dell’Agricoltura dentro cui si trovava, in quanto impiegato, il 12
dicembre del 1969 in Piazza Fontana, Fortunato Zinni in questo lungo racconto
ci mostra la criminalità e la vergogna di quella che fu, a tutti gli effetti,
una strage di Stato, la cui finalità era di cancellare ogni conquista operaia,
civile e democratica, e di assassinare con un colpo di stato militare, le
libertà nel nostro Paese.
Dal 3 gennaio al 12
dicembre se ne conteranno 145, una ogni tre giorni. Per 96 di queste bombe, la
responsabilità accertata è dell’estrema destra. La strage di Piazza Fontana
costituisce senza alcun dubbio una svolta nella storia italiana, al culmine del
secondo biennio rosso (1968-1969) in un paese nel quale, come in seguito è
apparso chiaro, anche a seguito degli esiti della seconda guerra mondiale e agli
equilibri geo strategici che ne sono derivati, la sovranità nazionale ha subito
pesantissimi condizionamenti. Episodio senza alcun dubbio apicale ma inserito
in un contesto inaugurato dall’ assassinio mirato dei sindacalisti siciliani da
parte della mafia a partire dall’immediato dopoguerra (34 vittime nel corso
degli anni) e dalla strage di Portella delle Ginestre il 1/5/1947 (11 vittime)
e proseguito nell’interminabile stagione della cosiddetta strategia della
tensione, del terrorismo e delle grandi stragi “politiche” di mafia.
Sono un bancario in pensione, per un decennio sono
stato segretario nazionale della Fisac Cgil il Sindacato dei Bancari e degli
Assicurativi e per venti anni pubblico amministratore e sindaco di Bresso, la
mia città di adozione dove da circa sessant’anni vivo con la mia famiglia.
Orfano di guerra, mio padre è caduto sul fronte greco albanese nella primavera
del 1941, sono entrato in orfanotrofio a cinque anni e ne sono uscito con un
diploma conseguito presso l’ITCG F. Galiani di Chieti. A diciotto anni sono
emigrato in Svizzera, a Lucerna, dove ho fatto l’operaio e sostenuto una decina
di esami universitari. Assunto come orfano di guerra a fine 1961 in BNA presso
la filiale di Monza e all’inizio del 1963 approdo in Piazza Fontana.
Il 12 dicembre 1969 sono in banca. È un venerdì
prenatalizio, una giornata nebbiosa e buia. Pioviggina e fa freddo; la nebbia e
una cappa opprimente di smog, attenuano le luci dei lampioni e nascondono le
guglie del Duomo e il cielo sopra i tetti. Da Piazza Fontana non si scorge più
la rassicurante figura della Madonnina. Non ci sono le tradizionali luminarie
natalizie del Comune. Il Consiglio Comunale infatti ha deciso di devolvere lo
stanziamento di trecento milioni a favore delle famiglie in difficoltà, per le
decine di ore di sciopero che ha caratterizzato “l’autunno caldo” per il
rinnovo dei contratti di lavoro. I cronisti hanno battezzato questo malinconico
dicembre: Black Christmas.
Il salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura è
pieno di gente. Gli sportelli, in base ad una deroga che risale agli anni
venti, rimarranno aperti fino alle 18,30 come tutti i venerdì, per il mercato
degli agricoltori. Le contrattazioni si svolgono all’interno della banca e
negli attigui locali del Consorzio Agrario Provinciale, di fronte
all’Arcivescovado. Sotto il grande tavolo ottagonale al centro dell’emiciclo,
vi sono borse e pacchetti contenenti qualche modesto regalo. La folla è
composta di coltivatori diretti, fittavoli e piccoli imprenditori agricoli,
provenienti dai paesi della cintura milanese, ma anche dal vicino Piemonte e
dalla parte settentrionale dell’Emilia. Una mano deposita una valigetta, la
spinge con il piede occultandola sotto un tavolo dove i clienti si affollano.
Il brusio si perde nei tanti dialetti, riecheggiano espressioni come: maggesi,
pertiche, sementi, foraggio, erba medica, mangimi, pascoli, frumento, marcite,
granturco, allevamenti, concimi, macchine agricole, mungitura, vigneti,
frutteti e argini.
Da qualche mese lavoro allo sportello quindici, quello
principale dell’Ufficio Riscontro. Ho appena passato una richiesta di bonifico
ad un collega; il rumore dell’Underwood (la macchina per scrivere Olivetti) si
confonde con le tante voci che si rincorrono tra l’Ufficio della Cassa Centrale,
sotto l’orologio, la cui foto diventerà famosa perché fermo all’ora dello
scoppio, e gli altri uffici del pian terreno che dalla parte interna del
bancone si affacciano sul salone.
Arriva una telefonata e mi dicono che mi aspettano
alla saletta del primo piano per la riunione della Commissione Interna di cui
sono il Presidente. La sera prima (dopo l’orario di lavoro, lo Statuto dei
Lavoratori era stato approvato in prima lettura al Senato proprio quel giorno)
si era tenuta l’assemblea del personale per discutere l’ipotesi d’accordo del
rinnovo del CCNL di 110.000 bancari, siglata nella mattinata dopo ventotto ore
ininterrotte di trattative e settantadue ore complessive di sciopero.
L’assemblea del personale si era espressa, con una larga maggioranza, a favore
dell’accordo. Quel pomeriggio dovevamo scrivere il comunicato.
Attraverso a fatica la folla che riempie il salone. Li
conosco quasi tutti, molti mi salutano con battute in dialetto. Un cliente
abituale di Rho, mi blocca per farmi sottoscrivere i moduli di conferma di una
transazione che ha appena concluso con un agricoltore di San Donato. I due si
stringono la mano che sciolgo con il taglio della mia mano destra e dichiaro
conclusa la trattativa. Guardo l’orologio della “Cassa centrale”: sono le 16,35.
Chiamo il funzionario di sala addetto al rapporto con
gli agricoltori, e lo prego di perfezionare la transazione. “Scusatemi ma devo
proprio andare; magari più tardi berremo un caffè insieme!”. Due minuti dopo
raggiungo gli altri colleghi della Commissione. Sono seduti attorno ad un
tavolo: rimango in piedi e appoggio le spalle alla vetrata che dà sul salone.
In quel preciso istante una spaventosa deflagrazione squarcia l’aria. Il boato
è tremendo, lo spostamento d’aria mi manda lungo disteso fino alla porta
d’ingresso della saletta, poi un silenzio tombale. Mi rialzo a fatica tutto
dolorante. Due colleghi hanno il volto insanguinato dalle schegge della vetrata
andata in frantumi. Inconsciamente imbocco la breve rampa di scale, diretto
verso il pian terreno. Incrocio molti colleghi che corrono verso l’uscita;
tanti sono feriti. Passando vicino al bancone del portiere istintivamente alzo
la cornetta del telefono che squilla all’impazzata. È la Questura che chiede
spiegazioni: è scattato il segnale di allarme.
Il dialogo con l’agente all’altro capo
dell’apparecchio è concitato; cerca di tenermi al telefono e di calmarmi,
continua a chiedermi della caldaia.
“La caldaia... ma cosa centra? È dall’altra parte
dello stabile, piuttosto non vedo più il lampadario - dico quasi a me stesso -.
è strano intravedo le ombre dei colleghi negli ammezzati che si affacciano sul
salone... non c’è molta luce. Feriti, morti? Oh, mio Dio! Non lo so. ma qui c’è
tanto sangue. C’è anche un bracc... ”. Non termino la frase. Comincio a
rendermi conto dell’orrore attorno a me. Quasi come un automa riattacco la
cornetta che riprende a squillare. Lo scenario che si apre davanti a me è
terribile. Sono come paralizzato, vorrei muovermi, fare qualcosa, ma il corpo
si rifiuta di rispondere agli impulsi del cervello. L’orologio sulla parete di
fondo segna le 16.37: rimarrà così per anni. Quello che vedo è spaventoso. Quel
fotogramma resterà stampato nella mia memoria per sempre. Tra il fumo acre e i
gemiti dei feriti qualcuno si muove barcollando tra pezzi di suppellettili,
vetri, cambiali, tabulati, banconote, una sedia miracolosamente intatta, il
buco dove c’era l’ordigno e corpi maciullati, tronconi di cadaveri. Le grandi
vetrate, che dividono gli uffici dei piani superiori dalla cupola a volta, si
sono volatilizzate; l’esplosione ha triturato oltre al pesante tavolo
ottagonale con le borchie di ferro, il bancone, gli armadi, le macchine
calcolatrici e quelle da scrivere, i box di cassa, le cassette metalliche
contenenti le banconote. Ogni cosa è stata scaraventata in tutte le direzioni
trasformandole in proiettili mortali o in schegge che hanno ferito persone,
sfondato pareti, bruciato documenti. Nella penombra mi sembra di scorgere un
sacerdote che benedice un fagotto informe e un uomo in divisa che esce di
corsa. Un collega ha un idrante in mano e cerca di spegnere un principio
d’incendio. Un altro ha preso un rotolo dei grossi fogli per i tabulati e copre
pietosamente i corpi più martoriati. Ancora l’odore terribile di carne bruciata
frammista a quello, di mandorle amare, di
polvere esplosiva.
“Mi aiuti, la prego!” Un uomo si aggrappa alla mia
giacca con una mano insanguinata. Mi chino su di lui. I miei ricordi si fanno
confusi, l’uomo ha una gamba tranciata di netto, perde molto sangue, sto per
vomitare e poi... non ricordo più niente. Forse inorridito, ho rimosso tutto. Due
mesi dopo si presenta allo sportello un cliente; ha con sé un pacchetto, si
appoggia a un paio di stampelle, è senza la gamba destra.
“È per lei!” mi dice salutandomi. Sorpreso, lo guardo
in modo interrogativo. “Lo apra”, m’incoraggia. Dentro il pacchetto c’è la mia
cinghia da alpino, un caro ricordo del nonno. “Questa è la mia cinghia; come fa
ad averla lei?” “Non ricorda? Mi bloccò l’emorragia il giorno dello
scoppio della bomba”. “No, non ricordo. Forse si sbaglia: non sono capace
di fare una cosa simile. Sarà stato qualche altro che mi ha chiesto la
cinghia”. “In effetti, era un po’ inesperto e tremava, ma l’ho guidato io
e alla fine ha fatto un buon lavoro: la ringrazio ancora”.
Arrivano i primi soccorsi. Alcuni infermieri stanno
portando via un ferito: ha una brutta lesione al torace. Mi avvicino. È un
collega. Appena mi vede, cerca di sollevarsi, ma non ci riesce. “Mia moglie...
- dice tra i gemiti - avverti mia moglie”.
Con i soccorsi arrivano anche i fotografi, gli
operatori televisivi, i giornalisti. Poco dopo fa il suo ingresso in banca il
Sindaco Aniasi, seguito dal cardinale Giovanni Colombo. Il sindaco appena mi
scorge si avvicina e mi abbraccia. Lo conosco da anni. Quasi contemporaneamente
allo scoppio della bomba in Piazza Fontana, un ordigno viene scoperto nella
sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in Piazza della Scala. Sarà
fatta esplodere in un cortile interno con una fretta sospetta in serata. Alle 16.55 una bomba esplode nel passaggio
sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro a Roma, quello che collega
l’entrata di via Veneto con quella di via San Basilio: tredici feriti. Alle
17.22 e alle 17.30 sempre a Roma, scoppiano altri due ordigni di elevata
potenza, all’Altare della Patria, all’ingresso del Museo del Risorgimento, in
Piazza Venezia. Quattro feriti. Incontro il direttore della Filiale anche lui
ferito e insieme decidiamo di andare nel suo ufficio al piano superiore.
Il suo ufficio brulica di autorità: il Prefetto, il
Questore, molti uomini in divisa, il Sindaco, il Cardinale, il Comandante dei
Vigili. Vi sono anche alcuni civili dai modi sbrigativi: sono agenti in
borghese della sezione politica. Il clima è molto teso; arrivano notizie
allarmanti. Altre bombe sono state piazzate dagli stragisti. Con il direttore
ci spostiamo in un altro ufficio e insieme decidiamo che dobbiamo fare tutto
quello che possiamo per aiutare le famiglie delle vittime. Mi prendo l’onere di
identificarle, tornando nel salone per fare un elenco, prima che siano rimosse.
Lo guardo un po’ frastornato. Poi comincio a capire che nulla sarà come prima.
Fino alle 16.37 ero un impiegato come tanti altri. Ora vengo coinvolto a
prendere decisioni inimmaginabili.
Quanto torno con l’elenco, due gruppi di colleghi sono
già al lavoro; il primo sta stilando un elenco dei feriti per avvertire le
famiglie, il secondo comincia a telefonare per convocare i lavoratori in banca
il mattino dopo. Abbiamo lavorato ininterrottamente per due giorni e due notti.
Le retribuzioni delle ore straordinarie prestate, saranno devolute dai
lavoratori, con il raddoppio della cifra da parte della banca, a favore dei
figli minori delle vittime. Un solo neo in questa gara di solidarietà: la
direzione della banca e qualche collega si oppongono alla mia proposta di
includere nel beneficio anche i figli dell’anarchico Pinelli. È la conseguenza
della forsennata campagna alla ricerca del mostro, scatenata dai maggiori
organi d’informazione che ha creato nel Paese un clima di “caccia alle streghe”
contro gli anarchici e la sinistra extraparlamentare.
Si conteranno diciassette morti. Non berrò mai quel
caffè con Gerolamo Papetti (morirà la mattina del sabato al Fatebenefratelli) e
con Paolo Gerli, i due clienti che avevo salutato prima di andare nella sala
della Commissione Interna. I loro corpi giacciono dilaniati nell’indescrivibile
caos dell’emiciclo del salone. Accanto a loro sono morti per “fratture
scheletriche molteplici, imponenti fatti emorragici collegati a gravissime
lesioni di organi interni e vitali, spesso detroncazione degli arti inferiori”
come burocraticamente si legge nella sentenza della Corte di Assise di
Catanzaro del 23 febbraio 1979: Arnoldi Giovanni, quarantadue anni
commerciante, da Magherno; China Giulio, cinquantasette anni, commerciante,
Novara; Corsini Eugenio, cinquantacinque anni, Milano; Dendena Pietro,
cinquantacinque anni, commerciante Lodi; Gaiani Carlo, perito agrario,
cinquantasette anni, Milano; Garavaglia Carlo, sessantasette anni, Corsico;
Meloni Luigi, cinquantasette anni commerciante, Corsico; Pasi Mario,
cinquant’anni, Milano; Perego Carlo Luigi, settantaquattro anni, Usmate Velate;
Sangalli Oreste, commerciante, Milano; Silva Carlo, settantuno anni,
rappresentante di commercio, Milano; Valè Attilio, cinquantadue anni, Moirano
di Noviglio, ricoverato agonizzante al Fatebenefratelli, muore nella serata.
Nei giorni successivi, a causa delle gravissime ferite
riportate, muoiono altre due persone: Scaglia Angelo e Galatioto Calogero. I
clienti feriti saranno quarantacinque tra i quali i fratelli adolescenti Enrico
e Patrizia Pizzamiglio, che stavano pagando una cambiale. Trentatré i
dipendenti feriti. Inoltre nell’ottobre del 1983 muore a causa di una delle
tante implicazioni dell’attentato Vittorio Mocchi che aveva il 12 dicembre del
1969 33 anni.
Da quel maledetto giorno la mia vita è cambiata, come
quella dei familiari delle vittime, della città di Milano e dell’intero Paese. Tutto
questo l’ho raccontato, come involontario testimone della strage, nel libro Piazza
Fontana: nessuno è Stato distribuito finora per decine di migliaia di
copie, gratuitamente, grazie al contributo di piccoli imprenditori (siamo alla
quinta edizione) nelle scuole, nei circoli culturali e nelle istituzioni
pubbliche che ne fanno richiesta. Il libro non è in vendita, non voglio ritorni
economici dalla mia testimonianza umana e civile.
A cinquantaquattro anni di distanza, dopo sei
istruttorie, otto processi, più di cinquecento udienze dibattimentali, è
doloroso constatare il fallimento della giustizia, perché accanto alla verità
storica sulla responsabilità di Ordine Nuovo e di Freda e Ventura non c’è la
verità giudiziaria. La verità storica appare incontrovertibile ma finora non
sono stati individuati i colpevoli. In tutti questi anni un’allucinante parodia
della giustizia ha assicurato l’impunità ai “burattinai delle stragi”; ed ha
messo in evidenza la sconcertante connivenza di una parte della Magistratura
con il potere politico ed il servilismo della stragrande maggioranza della
stampa supina nei confronti dei potenti e delle loro verità ufficiali. Ci sono
state anche le eccezioni e le coscienze oneste. Giudici coraggiosi, inquirenti
scrupolosi, cronisti pistaroli. La Cassazione ha irriso il diritto dei
familiari, delle vittime della strage a seguire i primi processi, spostandoli a
più di mille chilometri di distanza dalle loro residenze. Nel tempo i processi
sono divenuti atti giudiziari da destinare agli archivi. È venuta meno, dopo la
straordinaria risposta del giorno dei funerali sul Sagrato del Duomo di Milano,
la grande presa della coscienza popolare, nonostante l’impegno dei famigliari
delle vittime e pochi altri.
Se non sono stati individuati i colpevoli, se “Nessuno
è Stato” vuol dire che gli strateghi del terrore e i loro complici sono
riusciti con il tempo ad affievolire la rabbia sacrosanta e a spegnere
nell’oblio dei più la sete di verità. Da più parti, negli anni scorsi, è stato
chiesto, con supponenza, ai familiari delle vittime, non senza un certo
fastidio, di piantarla con il rito delle commemorazioni ed accettare il
responso della Giustizia. Si può e si deve mettere nel conto che la giustizia
umana può fallire; ma per i processi sulle stragi, il fallimento è stato
programmato dalle continue ed intollerabili ingerenze di settori importanti
dello Stato. Fu Strage di Stato, non solo quello di cinquant’anni fa, ma in
sconcertante continuità, quello della decisione della Commissione Inquirente
(agosto1982) e del Parlamento in seduta congiunta (marzo 1983) che hanno negato
l’autorizzazione a processare i ministri sostituendo alla giustizia, la
politica. E anche Lo Stato di oggi, non solo per il principio di continuità. Tutti
possono constatare che le schegge delle bombe delle stragi non sono state
affatto rimosse.
Ho visto, il 15 dicembre 1969, centinaia di migliaia
di milanesi partecipare ai funerali in Piazza Duomo, senza uno striscione,
senza cartelli, senza simboli di partito o di associazioni, senza slogan,
stretti tutti a contatto di gomito, raccolti in un dignitoso e rispettoso
silenzio. Un silenzio tanto più assordante perché… muto. Quelle donne e quegli
uomini hanno eretto un invalicabile muro umano per fermare il palese disegno
degli attentatori di intimorire la città ed il Paese. Ho sentito i principali
esponenti di Governo promettere ai famigliari una rapida giustizia regalando
loro una lacrima ed un abbraccio.
Li ho rivisti a Catanzaro esibirsi in una lunga ed
umiliante litania di “non ricordo”. Ho visto effettuare gli arresti degli
anarchici nei giorni successivi alla strage, salvo poi costringere il
Parlamento ad approvare una legge per fare uscire dal carcere il principale
imputato Pietro Valpreda per il superamento dei termini di carcerazione preventiva,
di fronte all’assenza di prospettiva dell’inizio del processo. Il ferroviere
anarchico Pino Pinelli, fermato dalla Polizia, è entrato la sera del 12
dicembre, con il proprio motorino in Questura ed è uscito moribondo nella notte
del 15 dicembre. Il reato per illegittimo fermo è stato prescritto, la
richiesta della moglie di avere giustizia non ha avuto seguito e la morte
dell’anarchico, secondo il Giudice D’Ambrosio è dovuta a “un malore attivo”.
Ho visto la Suprema Corte umiliare la città di Milano, con la richiesta del
Procuratore della Repubblica Enrico De Peppo del trasferimento del processo per
motivi di ordine pubblico e per legittimo sospetto sostenendo tra le
motivazioni “c’è il pericolo che presunti gruppi eversivi facciano evadere gli
imputati anarchici” nella completa indifferenza dell’opinione pubblica e della
stampa. Ho visto che invece ad evadere e fuggire all’estero sono stati gli
imputati neofascisti aiutati dai Servizi Segreti.
Il processo, di fatto è iniziato nel gennaio del 1977
con rinvii della Suprema Corte, con lo scoperto obiettivo, suggerito dai
potenti di turno dell’epoca di processare gli opposti estremismi e dare così
consistenza alla strategia della tensione. Ho visto l’opposizione dell’Avvocato
dello Stato Gullo alla costituzione parte civile del Consiglio d’Azienda dei
lavoratori della Banca Nazionale dell’Agricoltura, nell’indifferenza delle
altre parti civili, contro il S.I.D. (Servizio d’Informazione Difesa)
anticipando così la decisione della Suprema Corte di annullare la Sentenza
della Corte d’Appello di Catanzaro, trasferendo il processo a Bari, non senza
aver cura di far uscire dal processo Guido Giannettini, i Servizi segreti, i
Presidenti del Consiglio, i Ministri, i vari Aloja, Henke, Miceli, Maletti, La
Bruna, che si sono aggiunti ai Guida, Provenza, Catenacci e Allegra. Ho visto
avvocati di parte civile passare dal patrocinio legale delle vittime a quello
degli imputati. Ho visto deferire al CSM da parte delle Procure di Milano,
Venezia e Bologna il giudice Guido Salvini che aveva riaperto le indagini e
consentire il ritorno a Milano del processo. Ho visto la Corte d’Assise di Catanzaro (1979)
condannare all’ergastolo i nazifascisti di Ordine Nuovo, Freda, Ventura e
Giannettini.
Nella
sentenza, mai riformata dai successivi gradi di giudizio: quella assolutoria
della Corte d’Appello di Catanzaro (1981), della Cassazione 1982, di Bari
(1985) in sede di rinvio e della Cassazione (1987), confermare la condanna in
via definitiva di Freda e Ventura per
gli attentati del 25 aprile e dell’otto e nove agosto 1969. Ho visto la Corte
d’Assise di Milano condannare all’ergastolo i nazifascisti Delfo Zorzi, Carlo
Maria Maggi e Giancarlo Rognoni e nella sentenza mai riformata della Corte
d’Appello di Milano (2004) e quelle della Cassazione (2005) ammettere
testualmente che “più implicitamente che esplicitamente i responsabili della
strage del 12 dicembre 1969 sono Freda e Ventura non più condannabili perché
assolti in precedenza per quel reato dalla stessa Cassazione”.
Giuseppe Pinelli
La magistratura italiana non ha mai cercato il movente
delle stragi, a partire proprio da quella di piazza Fontana del 12 dicembre
1969. Per comprendere l’evento va necessariamente inquadrato nel contesto dello
scontro in corso in quegli anni, fra apparati segreti dell'Ovest e dell'Est, i
primi impegnati in Italia a sbarrare la strada al Partito Comunista Italiano. Se
è vero che il disordine può essere scatenato dal basso è altrettanto vero
che l’ordine può essere ristabilito solo dall’alto, da coloro che detengono il
potere e gli strumenti esecutivi dello stesso: forze armate e di polizia,
servizi segreti, magistratura.
In tutti questi anni, con i suoi discussi e reiterati
interventi è stata la Cassazione a costruire la verità storica. Un compito che
spettava agli storici, ma lo Stato non ha consentito e non consente tuttora il
completo riversamento all’Archivio centrale di tutti i documenti classificati,
promesso, allo stato dei fatti, solo a parole, dal decreto Prodi e dalla
Direttiva Renzi dell’aprile 2014. Non sono tra quelli che cercano le condanne a
tutti i costi. In uno Stato di diritto, la verità processuale, è determinata
dalle prove esibite durante il processo. Si può e si deve accettare la
sconfitta nel processo, ma per Piazza Fontana il fallimento della giustizia è
principalmente colpa dello Stato che non ha saputo, potuto, voluto processare sé
stesso. Alla magistratura spetta il compito dell’accertamento della verità
giudiziaria consapevole che i delitti per stragi sono imperscrittibili,
l’azione penale è obbligatoria e l’impegno a continuare a cercare la verità
deve essere incessante fino a quando esiste un frammento di verità inesplorata.
Se il sangue della storia asciuga in fretta la sete di verità, è
inestinguibile.