LA CORRETTEZZA E LO SCIOPERO GENERALE
di
Pierpaolo Calonaci
Tra
flebile lotta, elemosine, lavoro flessibile e moderatismo.
“Solo
pochissime isole sono ancora
riconoscibili,
ma si ergono come le
vette
più alte di un paese inondato
dal
mare della correttezza”.
E.
Bloch, Ateismo nel cristianesimo
Già
la correttezza, barbacane della “civiltà” del lavoro attuale e del rapporto che
la società civile, in particolare il sindacato, ha con lo stato. La correttezza
ha risuonato forte nella piazza scioperante del 17 novembre scorso a Firenze;
ha giocato simbolicamente sul doppio registro del non allontanarsi da ciò che
ci si aspetta che uno sciopero debba essere e quindi del dovere non suscitare
nessun tipo di contrapposizione, di aporia, di scontro aperto che sarebbero
state ritenute scorrette. Il termine sicurezza si accompagna all’ossequio che
le parole ufficiali detengono nell’esercizio della violenza simbolica ufficiale
(detenuta dallo stato), e quando si parla di scioperare quelle parole, la loro
ufficialità, il tipo di rapporti sociali che costruiscono grazie ai significati
e ai significanti sarebbero da considerarsi di estrema importanza affinché il
sindacato e lo sciopero non si riducano a ripetere il già detto. Il diritto al
lavoro è ridotto ad una questua. Peraltro col reale rischio di ritrovarsi
meramente ad agire con correttezza verso la rappresentazione della doxa
ufficiale che, invece di essere demistificata, continua a rafforzare quei
rapporti di forza di cui lo stato stesso necessita e che implementa grazie ad
un dato modello produttivo di lavoro.
Quando
sul palco che sovrastava la stupenda piazza gremita di ben 50.ooo persone,
alcuni rappresentanti della Gkn di Campi Bisenzio (una lotta che dura da anni
organizzata con grande passione e versatilità competente da parte dei
lavoratori coinvolti) hanno denunciato che già dai primi tavoli di
concertazione per evitare licenziamenti la fine della Gkn era da almeno cinque
anni decisa, avrebbero dovuto essere scorretti e domandare che stato sia quello
che ha permesso il licenziamento e cui bono gli effetti di questo. Visto
che erano presenti due dei suoi rappresentanti, Giani e Nardella. Per inciso,
lo stesso stato non ha voluto affatto considerare che l'autogestione creata dai
lavoratori e il sindacato avevano indicato concreti piani aziendali per
continuare la produzione.
La
parola ufficiale è oggi dunque flessibilità sinonimo di precarizzazione e i
suoi meccanismi di normalizzazione (significanti)) del modo di produzione del
lavoro odierno sono efficientissimi e spesso di difficile individuazione, tanto
che la gente che lavora vive il proprio lavoro e il salario come dato naturale,
giusto e buono; spesso ringraziando pure che sia così. Inoltre, in virtù di
questa rappresentazione ufficiale, quel dato regime produttivo si radica e si
sedimenta incuneandosi nei corpi degli individui lavoratori sostituendosi alla
loro individualità pensante, li spoglia e li “libera” dalla responsabilità
dell'agire contro le cause che fanno del lavoro alienazione, sopruso e morte
(significato).
Fratelli d'Italia, Lega, Forza Italia... ecco come difendono i lavoratori |
Certo è con amarezza e anche con un certo grado di desolazione constatare che il potere sindacale (era il 1993 quando scoccò l'ora dell'imbrigliamento da cui nacque il tavolo di concertazione) sia ridotto al gioco della riduzione del danno che la violenza ufficiale dello stato gli ha imposto per accettare il modello organizzativo della precarizzazione quale vita e lavoro. Il sindacato attuale ha introiettato il concetto di concertazione, infatti la struttura del contratto di lavoro è tutta decisa altrove (nelle delocalizzazioni in primis, e non per colpa del sindacato). Dunque sono cambiati i rapporti di forza che sono prodotti storici; ciò che non accetto è la rassegnazione che questo costrutto implica. Anche il Ventennio fu un prodotto storico e l'idea fascista dei rapporti sociali pure e che entrambi sono finiti. Ma ciò che non è morto, non è in nessun modo sconfitto e in nessun modo oggi combattuto è la violenza, l'egemonia, il dominio che ieri come oggi, in forme diverse, innervano il tessuto sociale e culturale interamente. Perciò una piazza, quale luogo eccellente di arrivo e ripartenza di determinate riflessioni che dalle case, dalla fabbrica sono partite, non dovrebbe (vorrei tanto dire non può!) rassegnarsi alla correttezza dell'accettazione consolante che i rapporti di forza siano diventati così. Perché la correttezza è il leit-motiv dell’“è così, e così deve essere”. La Tatcher lo seppe usare così bene che oggi continuiamo a respirarne i miasmi.
Con profonda amarezza solo un intervento ha rammentato il genocidio in Palestina (che non è stato chiamato così... meglio rimuovere dalle nostre tavole il sangue innocente del popolo palestinese; meglio pagare l'obolo della cecità vigliacca che i popoli occidentali, in maggioranza, stanno offrendo ai loro governi favorevoli al terrorismo governativo israeliano). Come se porre in essere un legame con cui denunciare l'ingiustizia, la povertà, la fame, lo sfruttamento (i palestinesi, lavoratori dell'esercito di riserva per i ricchi israeliani), la morte di quel popolo a causa di dati interessi economici e egemonici (che uno stato detiene contro un altro) non sia proporzionale (con i dovuti distinguo) alla condizione di precarizzazione omicida delle politiche neoliberiste che l'andare a lavorare in Occidente comporta. Invece anche qui si è scelta la correttezza, tacendo.
Pensioni da fame
“L’insicurezza
oggettiva fonda una insicurezza soggettiva generalizzata che colpisce, al cuore
di una economia altamente sviluppata, l’insieme dei lavoratori e anche coloro
che non sono o non sono ancora direttamente colpiti. I disoccupati e i
lavoratori precari, allorché sono colpiti nella loro capacità di progettarsi un
futuro, che rappresenta tutte i comportamenti razionali, cominciando dal
ragionamento economico o, in un altro ordine di cose, dall’organizzazione
politica, non sono facilmente mobilizzabili […] Pertanto la precarietà agisce direttamente
su coloro che essa tocca (e che li rende incapaci di mobilitarsi) e indirettamente
sugli altri attraverso la colpa che essa suscita e che le strategie di
precarizzazione dispiegano metodicamente; come l’introduzione della famosa
“flessibilità”, della quale si è compreso le sue ragioni politiche quanto
economiche. Cominciamo pertanto a sospettare che la precarietà è un prodotto
non di una fatalità economica, (la “natura” delle leggi economiche, processo di
naturalizzazione e di mistificazione dei fatti sociali) identificata alla
famosa “mondializzazione”, ma di una volontà politica. L’azienda “flessibile” sfrutta in qualche
modo deliberatamente una situazione di insicurezza che essa contribuisce a
rinforzare: cerca di abbassare i suoi costi anche attraverso la possibilità che
questo abbassamento avvenga mettendo in condizione il lavoratore nel rischio
permanente di perdere il lavoro. Tutto l’universo della
produzione, materiale e culturale, pubblica e privata, è quindi coinvolto in un
vasto processo di precarizzazione, attraverso, per esempio, la delocalizzazione
dell’azienda: subordinata fino ad un dato momento ad un Stato-nazione o ad un
luogo (Detroit o Torino per l’automobile), dal quale essa tende sempre
maggiormente a distaccarsi, fino a denominarla “azienda in rete”, articolandosi
fino al grado continentale o planetario collegando dei segmenti di produzione,
dei saperi tecnologici, delle reti di comunicazione, dei percorsi di formazione
dispersi fra dei luoghi distanti” (P. Bourdieu).
È proprio Bourdieu ad aver costruito un’analisi sociologica tra sistema formativo accademico - quale organo della riproduzione sociale dell’ordine dato che lo Stato abbisogna per presentarsi depositario unico di verità scientifica - nello specifico, laureati alla Magistrale in pedagogia degli adulti che andranno a “formare” i lavoratori delle aziende (mi riferisco all'ateneo fiorentino che conosco bene poiché ci ho studiato) - e le condizioni di produzione della precarizzazione che per funzionare e autolegittimarsi necessitano di ricevere dal sistema formativo accademico quel sistema di significati e significanti affinché l’oppressione divenga storia incorporata, interiorizzata da ogni lavoratore/trice. Un lavoratore che insomma abbisogna di formazione continua, quel Lifelong learning che ha il precipuo scopo di tenerlo in fasce affinché divenga complice della società flessibile, cioè precarizzata. Nel modello toyotista odierno ai lavoratori viene venduta un tipo di conoscenza e di formazione millantate da capacità di destreggiarsi nell'attuale divisione del lavoro in modo tale da diventare pieni partecipanti all’ordine costituito. E amare lo stato.
I
palazzi tremano, se tremano, non con la quantità di bandiere (fatto salvo
l'emozione di vederle garrire) ma con la parola pronunciata in modo chiaro,
forte e contrario alla doxa imperante. Niente di una parola contraria
che avesse osato denunciare la diuturna commistione tra produzione e
armamenti è stato proferito. Qui il sindacato pare proprio assecondare lo stato
para bellum che garantisce lauti salari e morte sicura di quei popoli
verso cui quelle armi sono vendute. Sarebbe stato pertinente per dare valore di
un esserci in piazza rammentare che a Empoli, ad esempio, c’è una targa
commemorativa per quelle decine di lavoratori che entrarono in sciopero (sul
finire della Seconda guerra) per bloccare la produzione bellica. Furono
deportati e uccisi. In nome della correttezza quei lavoratori sono commemorati
paradossalmente con messe, onorificenze ecc. (“... il Dio dei sacerdoti, il
Dio dei preti e i signori non deve soltanto sopprimere rosse leggende ma si
trova di fronte ad una vera rivolta”, Bloch) ma la piazza di quella rivolta
pare non debba saperne.
Non
meno scontato per un esserci in quella piazza è stato l'avere sentito, oramai
il mantra di ogni piazza cosiddetta rossa, che il governo di destra sia l'unico
e vero colpevole. Nessun dubbio che sia così, ma parimenti il discorso diventa
fideismo cacofonico e deferente verso quella “sinistra” che oramai da anni non
produce politica del lavoro, eccezion fatta per quella che instaura il
neoliberismo nel lavoro. Mi sarei oltre tutto aspettato di sentire che il
sindacato prova a recuperare autonomia dalle forze politiche. Sarebbe infine
urgente e dirimente, secondo me, migliorare la qualità delle domande da porre
al sindacato, ragionare, formulando magari ipotesi di lavoro che sappiano
destrutturare il lavoro qual è oggi e le sue infauste conseguenze sociali.
L’essenza del sindacato quale valore civico di partecipazione e responsabilità
è valida a patto che si sappia criticare la qualità della funzione sociale che
è chiamato oggi a ricoprire, come essa sia cambiata e perché. Quale isola,
infine, rimane laddove sulla terra ferma è tutto corretto, normalizzato e
moderato? Isola non per isolarsi.