UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 23 giugno 2025

REPRESSIONE E LOTTA DI CLASSE
di Franco Astengo


 
L'episodio di Bologna con la tangenziale bloccata dallo sciopero dei metalmeccanici sfidando il DL Sicurezza e i camionisti che suonano il clacson in segno di solidarietà con gli operai rappresenta un segnale che non può essere trascurato in questa Italia dove sembrerebbe tutto egemonizzata dall'individualismo proprietario e dal qualunquismo menefreghista che rappresentano la cifra etica e la collocazione sociale di questo governo.
L'applicazione del "DL sicurezza" ha riportato alla nostra memoria il cupo scenario degli anni’50, ai tempi di feroce repressione poliziesca.
Gli anni ’50: quelli della polizia di Scelba davanti alle fabbriche o ai campi occupati dai contadini, quando il proletariato contava i suoi morti e lottava per affermare una diversa condizione di vita da Modena a Melissa, da Montescaglioso a Battipaglia.
Chi ha attraversato quel periodo, ad esempio abitando in una città operaia, ha ancora nelle orecchie il suono lacerante delle sirene, lo stridore delle gomme delle camionette che salivano sui marciapiedi dove i manifestanti cercavano di ritirarsi, il Natale trascorso sotto le ampie volte di una fredda fabbrica occupata oppure in piazza attorno a falò improvvisati, il commissario con la fascia tricolore che ordina la carica, la miseria nelle case dove ci si radunava per cercare di dare sostegno a chi proprio non riusciva più a cucire il pranzo con la cena ma anche la solidarietà dei commercianti che facevano credito e tiravano giù le saracinesche quando c’era lo sciopero. L’Italia del boom nacque in quel modo, attraverso i sacrifici immensi delle lavoratrici e dei lavoratori passati attraverso una temperie straordinariamente pesante, nel periodo - è bene ricordarlo -immediatamente  seguente alla guerra, all’invasione nazista, alle deportazioni, alle fucilazioni, alla Resistenza. Chi ha vissuto sulla propria pelle quei tremendi anni’50 ha la sensazione del ritorno all’indietro, ma anche di un peggioramento secco della capacità collettiva di capire la condizione nella quale ci si sta trovando alle prese con l’arroganza schiavistica di una multinazionale dal volto e interessi ignoti. Ma i clacson di solidarietà suonati dai camionisti di Bologna ci riportano anche al senso della solidarietà di classe: l'unica strada possibile da seguire per i lavoratori, per l'affermazione dei loro diritti, per lottare verso un futuro migliore.

ATTACCO USA ALL’IRAN


U due compari
 
  
L'attacco USA all'Iran sposta pericolosamente le relazioni internazionali in un momento di grande difficoltà: oggi uno scontro a livello planetario è molto più realistico rispetto a prima.
Premessa la necessità di un quadro europeo, la situazione italiana è questa:
Siamo in prima linea, considerata la presenza di basi USA in Italia.
In frangenti simili è necessario reclamare che la politica estera sia restituita al Parlamento e non delegata al Governo (lo esigono l'art.1 e l'art.11 Costituzione: la sovranità appartiene al popolo e l'Italia ripudia la guerra).
È assolutamente necessaria un'azione immediata a tutti i livelli perché i rami del Parlamento siano convocati con all'ordine del giorno la posizione dell'Italia in un contesto di tale drammaticità.
Analoga iniziativa va portata avanti anche presso il Parlamento UE.
Questa è la priorità assoluta in questa fase immediata: l’Italia vanta una solida tradizione di oscuramento parlamentare nei casi di conflitto, che va interrotta.
Serve una fortissima mobilitazione dal basso, di cui il movimento dei lavoratori dovrebbe farsi interprete.
Le associazioni di cultura politica possono svolgere un’efficace opera di sensibilizzazione ed elaborazione condivisa.
Un grande contributo può venire anche dai livelli locali di governo e rappresentanza, dai Comuni alle Regioni.
Nello specifico, chiediamo:
Cessate il fuoco immediato su tutti i fronti di guerra
Protezione internazionale per la popolazione civile
Convocazione urgente di una conferenza internazionale di pace e stabilità per il Medio Oriente, sotto l’egida ONU e libera dal ricatto delle potenze militari
Chiediamo, infine, che il Governo si impegni espressamente a non lasciarsi coinvolgere in un conflitto dalle conseguenze imponderabili.
Non c’è futuro possibile nella guerra.
La sicurezza si costruisce con la giustizia, la libertà dei popoli e la pace.

ARS - Associazione per il Rinnovamento della Sinistra
Sinistra XXI


domenica 22 giugno 2025

ESTATE
di Zaccaria Gallo
 


Raccontare.


Arriva con il passo pesante quest’estate, le scarpe chiodate, lo sferragliare dei carri armati, il crepitio di migliaia di proiettili … (ah, dove il ronzio dei calabroni e delle api attorno ai fiori?). Solstizio d’estate, momento folgorante del sole. Le giornate, le più lunghe dell’anno. Non sono soldati quelli che, a Stonehenge, celebrano l’arrivo di questa stagione, davanti alle pietre erette dagli antenati neolitici, allineate verso i raggi del sole, quando sorge nell’alba. S’apre, anche qui, nella mia città, la porta del Dolmen della Chianca e il suo corridoio, un abbraccio all’astro che s’appresta a regnare sovrano per i prossimi mesi. Non sono lamenti e grida di feriti, sepolti sotto le macerie delle loro case, che stridono dai rami degli alberi, ma cicale, che cantano ubriache nelle sere d’estate, quando il colore dell’ambra di interminabili crepuscoli, nonostante il caldo, riempiono di vita i viali lungo il mare, le ville comunali, i vicoli del Centro Storico, e i rossi e le rose e i verdi dei campi sono ridondanti negli occhi di chi guarda. Quanti sogni, e quanti ricordi, nei lunghi pomeriggi di siesta, dopo il pranzo, mentre ci assale il sonno digestivo, e s’assopisce la mente nella penombra di una camera da letto! “E l’estate appoggia le chiome sulle mensole / le membra stende tra le luci sparse” (Rocco Scotellaro). 



Estati, passate, dopo cena, seduti al balcone, avvolti in un buio silenzioso, che oggi non c’è più, perché allora erano lampadine sottopiatti, rivolte verso il basso, e tu potevi guardare in alto, il cielo, ed enumerare le stelle e riconoscere l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore e la Stella Polare. E stupirsi, se veloci meteore attraversavano l’alto, confondendo le loro luci con quelle degli astri (Esprimi un desiderio, diceva mia madre). No! No, non erano missili o droni, le nuove stelle cadenti che portano morte sugli uomini, le donne, i bambini, sugli ospedali, sulle scuole. Sì, si guardava in alto, anche quando le nuvole passavano basse, e s’annunciavano le battaglie estive, fatte di improvvisi temporali o rovesci di pioggia, e lampi e tuoni, ma che erano altra cosa dagli accecanti e assordanti boati delle bombe. Si benediva l’acqua, che cadeva a ristorare la terra assetata delle vigne e dei campi attorno alle città del nostro Sud, quella stessa acqua che viene, oggi, negata ai bambini di Gaza: era altra acqua, altra cosa! Poco prima, erano rientrate le nostre donne, che si erano messe a sedere sulle panche, davanti alle abitazioni, a raccontare storie di famiglia, salute e lavoro.



Rientravano in casa quando, da sud, si alzava quel vento che se soffia alza le onde del mare all’incontrario e le placa: lo scirocco che dà l’impressione di essere ubriachi (Antonio Gramsci). Vento che attraversa la nostra campagna, che la spalanca, e gli uliveti, allora, mostrano l’amore dei contadini pugliesi per la propria terra e che vedi bene, perché c’è una geometria perfetta, tramandata da generazione a generazione. Soffia quel vento, ad accarezzare le foglie appuntite degli ulivi, vecchi eroi che vestono le corazze, piene di cicatrici rugose, per le lunghe lotte sostenute contro leinsidie del tempo; vecchi eroi che, sopravvivono a testa alta, nel corso dei secoli agli uomini, quelli di pace e quelli di guerra, aprendo sempre i loro pugni verdi, con una gioventù eterna, abbracciata ai rosolacci e alle stoppie bagnate dalla luce della luna. Estate serena, che si vive ancora oggi in un borgo disperso nelle campagne attorno alle città di Giovinazzo e Molfetta: il Borgo delle Sette Torri, che si eleva su una collinetta alta 120 metri sul livello del mare, e da cui si può vedere il panorama di quelle due città, il mare e il Gargano, lontano. Erano le nostre case di villeggiatura, ville di campagna, nate findall’Ottocento, costruite attorno ad una piazzetta deliziosa, che su un lato ha una chiesetta antica, con campanile a vela e un pergolato che ne protegge l’apertura. Sul selciato della piazzetta si mettevano ad asciugare al sole le mandorle, dopo essere state raccolte ancora con il loro mallo verde: un tappeto meraviglioso. Oggi si aspetta il Ferragosto, il giorno dell’Assunta: ci si riunisce, si assiste alla Messa, si porta in processione la Madonna con le fiaccole, si fanno fuochi pirotecnici e si sente qui altro vento, il vento del Sacro. Nelle ville vicine, ci si incontra con gli amici, che si pensavano perduti: ritrovati, dopo tanto tempo, si brinda, con il vino primitivo, alla vita e non alla morte, come altri esseri umani stanno facendo nello stesso momento. La vita, che capita di vedere, bellissima, quando sulla panchina sotto l’uva, accanto alla chiesetta, un ragazzo e una ragazza, venuti sul calesse con i loro genitori, si scambiano i primi baci d’amore. Tracce di una umanità che non deve perdere l’umanità. E l’estate di San Giovanni: si andava a cogliere noci sulla strada per Castel del Monte o fra gli uliveti degli amici. Le noci! Offerte da quei grandi alberi, che pur gravati da cattiva fama, per essere gli alberi delle streghe, danno un liquore meraviglioso, nero, intenso: il nocino.

 


Le nonne lo conservavano, allora, nelle cristalliere, per poi poterlo offrire, in occasione delle visite di amiche e famigliari, nelle sere d’inverno. Estate di pace, non di guerra, estate d’amore come quella cantata da William Shakespeare: Dovrei paragonarti a un giorno d’estate? / Tu sei più amabile e più tranquillo. / Impetuosi venti scuotono le tenere gemme di Maggio, / e il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine. / Talvolta troppo caldo splende l’occhio del cielo, / e spesso la sua pelle dorata s’oscura; / e ogni cosa bella la bellezza talora declina, / spogliata per caso o per il mutevole corso della natura. / Ma la tua eterna estate non dovrà svanire, / Né perdere la bellezza che possiedi, / né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra, / quando in eterni versi nel tempo tu crescerai, / finché uomini respireranno o occhi potran vedere, / queste parole vivranno, e daranno vita a te.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POETI
di Adam Vaccaro


 
Supernova  
 
Ed esplose improvvisa
una supernova accecante
materna accesa da magia 
di clessidra di buio ricolma
di luce di verità fino a quel
momento invisibile di chi
si dipingeva come il suo
più fedele amico e che
invece ne era il suo
più letale nemico. 
 
[13 giugno 2025]

MONTALE: OSSI DI SEPPIA
di Filippo Ravizza


 
Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896, il 12 ottobre. Genova era una città ricca e industriosa, con un porto e un'attività commerciale di spicco tra le conurbazioni del Sud Europa. Anche la famiglia Montale appartiene alla borghesia cittadina ed era una famiglia di agiati commercianti di vernici (specie sottomarine) e solventi chimici. Il padre Domenico, detto Domingo per essere stato più di dieci anni emigrante in America Latina,era un uomo pragmatico e attivo. I Montale dunque vivevano a Genova; erano però originari di Monterosso, la prima delle "Cinque Terre", almeno venendo dal capouogo ligure; qui la famiglia Montale nel 1905 aveva costruito una propria casa delle vacanze, una villa dove si trascorrevano, tutti insieme, le estati e le principali festività dell'anno. Eugenio era l'ultimo di cinque fratelli; gli studi furono irregolari, per motivi di salute cagionevole che lo costrinsero anche a studiare privatamente. Si conclusero  nel 1915 con il diploma di ragioniere di cui poi non saprà mai cosa fare. Dirà molti anni più tardi: " I miei fratelli andavano in ufficio, l'unica mia sorella frequentava l'Università, per me, ultimo di sei figli, non era nemmeno il caso di parlarne". Negli anni tra il 1915 e il 1917 però Montale si scopre melomane appassionatissimo, e si mette a studiare canto andando a lezione di musica  dal baritono Ernesto Sivori. Insieme alla sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia, inizia a studiare i filosofi (Boutroux e Bergson e il russo Sestov) e naturalmente poeti, in particolare Dante Alighieri, e gli allora quasi contemporanei Carducci e Pascoli, e Gabriele D'Annunzio. 



Le sue letture divennero imponenti, mentre cominciò a collaborare alle riviste, la prima delle quali fu "La Riviera Ligure", una pubblicazione finanziata da commercianti di olio di oliva, che raccoglieva firme letterarie come Giovanni Boine e l'allora giovane poeta Camillo Sbarbaro. Nel 1917, sottotenente di fanteria (158° reggimento Brigata Liguria) partecipa alla prima guerra mondiale in Trentino, sul fronte della Vallarsa (scriverà la poesia "Valmorbia"). La sua prima pubblicazione poetica appare nel 1922, sulla rivista "Primo Tempo". Ma già nel 1916, a soli 20 anni, aveva scritto "Meriggiare pallido e assorto". Il testo ci porta alla prima celebre raccolta del nostro, quegli Ossi di seppia che usciranno nel 1925 per le edizioni di Piero Gobetti. Montale, negli anni che vanno dal 1915 al 1925, approfondisce anche la cultura europea del "negativo" (poetica del "male di vivere") portandosi dietro la sensazione dirà "di vivere sotto una campana di vetro". In questi anni che poi sfoceranno in Ossi di seppia, Montale si interessa alla poesia  che cerca di uscire dai limiti della realtà e del linguaggio già dato.



 La poesia francese (allora) moderna, a partire da Baudelaire, ma anche a quella di poeti anglosassoni come Robert Browning (1812 - 1889) sino ai contemporanei Eliot ed Ezra Pound. Date queste premesse teoretiche non stupirà notare come Montale, in Ossi di seppia si muova alla ricerca di un varco che metta in comunicazione il piano immutabile dell'essere con quello precipitoso ed implacabile del tempo. Prende forma e sostanza proprio in Ossi di seppia quella forma eretica e peculiare di "esistenzialismo montaliano" dove il varco, "l'anello che non tiene" [...talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,/... 'I limoni'] la "maglia rotta", sono irruzione di una possibile libertà dall'ordine precostituito delle cose.
Dirà Montale stesso, nella Intervista Immaginaria, pubblicata nella rivista "La rassegna letteraria", numero 1, gennaio 1946 "forse negli anni in cui composi Ossi di seppia (tra il 20 e il 25) agì in me la 'filosofia dei contingentisti francesi', del Boutroux. Il 'miracolo' era per me evidente come la necessità, ubbidii ad un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto [...]"



Montale innerva la propria poesia della polarità necessità-libertà-contingente e per lui poesia sarà logos-musica-mnème, un impasto cioè di pensiero e musica, memoria, l'unità di suono e significato, non solo quella di suono e di senso. La poesia di Montale sarà dunque raffinata a livello metrico-stilistico e timbrico; però giocata sul piano della quotidianità e sul miscelare parole "alte" e parole comuni. Compare in Ossi di seppia il famoso "tu" montaliano, i versi si rivolgono in modo colloquiale a un tu che resta indeterminato, se si vuole, o invece, se lo si desidera, può indicare Montale stesso, se non direttamente il lettore, cioè noi.

SCAFFALI
di Alida Airaghi


Gilberto Squizzato

Il sovversivo di Nazareth.   
 
Gilberto Squizzato (Busto Arsizio, 1949) ha iniziato la carriera giornalistica dirigendo un periodico del dissenso cattolico della provincia di Varese. Come assistente cinematografico, ha collaborato con Mario Amendola, José Luis Merino in Spagna, Alberto Lattuada e Carlo Lizzani. Assunto in RAI, ha lavorato per vari TG, mettendosi in luce come autore di trasmissioni e inchieste televisive, per passare poi alla regia con alcuni importanti docufilm sulla rete diretta da Angelo Guglielmi. Dal 2007 è stato docente sia all’Università Statale sia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Tra i suoi libri: La tv che non c’è (Minimum Fax, Roma, 2010), Libera Chiesa (Minimum Fax, Roma, 2012), Il Dio che non è ‘Dio’ (Gabrielli, Verona, 2012), Il miracolo superfluo (Gabrielli, Verona, 2014), Se il cielo adesso è vuoto (Gabrielli, Verona, 2018), Sussurri e grida. Salmi laici e cristiani per il nostro tempo” (Gabrielli, Verona 2021). Sempre per l’editore veronese Gabrielli ha da poco pubblicato un nuovo volume di argomento teologico Il sovversivo di Nazareth. La conversione dell’operaio che non voleva essere il Messia.
Il suo appassionato interesse per la teologia si esprime anche nei numerosi interventi registrati su YouTube, volti a liberare l’immaginario religioso tradizionale attraverso l’adesione a una fede laica, consapevole e liberante.
Una lettura, se non sovversiva, certamente polemicamente atipica e coraggiosa, quella che Squizzato propone di un Gesù lontano da canoni religiosi e accademici, da molti travisamenti moralistici, e da rozze deformazioni sedimentate nei secoli. La sua rigorosa indagine storica, suffragata da un ingente apparato di note e citazioni, contesta la dottrina del monofisismo (IV secolo d.C.), secondo cui la natura divina di Cristo avrebbe completamente assorbito e subordinato le sue caratteristiche più specificamente umane, e quella del duofisismo (Concilio di Calcedonia del 451) che sosteneva la coesistenza in Gesù Cristo di entrambe le nature, umana e divina. Rivendica invece l’autentica e concreta realtà dell’uomo Gesù: “Se non fosse stato perfettamente e compiutamente uomo, tutta la sua vicenda si sarebbe ridotta alla pura messa in scena di un copione deciso prima dell’inizio dei tempi nell’alto dei cieli”. Non avrebbe infatti sofferto, dubitato, pregato come ci raccontano i Vangeli.
A proposito dell’originalità e affidabilità dei quali, l’autore non nasconde la propria diffidenza. Scritti tra i quaranta e i settanta anni dopo la morte di Gesù, da redattori che non si conoscevano tra loro, essi sono hypomnemata, semplici appunti, promemoria fluidi e aperti, che dovevano servire come sommari per la predicazione, essendo destinati a comunità differenti e geograficamente lontane, spesso da tutelare politicamente attraverso censure, utilizzando addirittura stratagemmi drammaturgici per invogliare all’ascolto masse semianalfabete. Nelle diverse narrazioni evangeliche Squizzato sottolinea discrepanze, illogicità, ridondanze, rimaneggiamenti ed errori di traduzione dall’aramaico al greco (valga l’esempio del termine Dio che proviene dal sanscrito “dv”, “esperienza di luce”, tramutato nel “theòs” greco che indica “il divino”): gli episodi dell’uccisione di Giovanni Battista, della chiamata dei dodici apostoli, del Discorso della Montagna fino alla moltiplicazione dei pani risultano, insieme a molti altri, incoerenti e discutibili.
Nei quattro Vangeli e in seguito nell’interpretazione paolina, ripresa in toto da Agostino, l’umanità di Gesù fu progressivamente eclissata per consegnarci una figura a-storica, avulsa dalla sua vicenda terrena davvero rivoluzionaria, e assorbita in una dimensione esclusivamente metafisica. L’esaltazione del valore sacrificale della croce diede vita alla dottrina dell’espiazione come nucleo portante di tutta la predicazione gesuana, al fine di ottenere la redenzione dell’umanità dal peccato attraverso l’immolazione dell’Agnello di Dio, decontestualizzando tutta la portata storica del suo agire e circondando di un’aura magica e soprannaturale la sua creaturalità già a partire dal concepimento virginale. “Sarebbe parziale, insufficiente e perfino falsa anche una lettura dei vangeli che li riducesse a un messaggio esclusivamente etico”, e la puntuale disamina filologia dell’autore mira infatti a ricostruire la realtà personale, familiare, culturale, religiosa del carpentiere di Nazareth, ambientandola nel contesto e nel momento temporale precisi in cui essa ha preso corpo: la Galilea e la Giudea dell’inizio del I secolo.




Viene rivisitata così tutta la storia di Israele già dalla dominazione assira fino al periodo ellenistico e romano nel turbolento, caotico fervore apocalittico che agitava la religiosità popolare di allora. Più di duecento pagine del corposo volume sono dedicate a una minuziosa esplorazione delle vicende e della geografia dell’intera regione, con un ricco apparato iconografico e la comparazione delle fonti bibliche e letterarie. Particolarmente interessante risulta il resoconto dell’occupazione romana, determinata da motivi più logistico-militari che economici: il territorio palestinese non risultava infatti produttivo come quello spagnolo, siculo o nord africano, ma andava sorvegliato in quanto corridoio obbligato per raggiungere l’Egitto, da poco assoggettato, e le rotte più orientali del Mediterraneo. La presa di potere da parte dei dominatori fu da subito avversata dagli ebrei che, rigidamente monoteisti, mal sopportavano le molte divinità romane, né le fastose celebrazioni imperiali da sostenere con imposte esose, e il rancore verso gli occupanti si espresse non solo in una resistenza ostile, ma anche attraverso azioni terroristiche messe in atto da bande di zeloti.
Lo spaccato della vita quotidiana nell’ Israele del I secolo viene raccontato dall’autore con dovizia di particolari: dal lavoro contadino e artigianale alla condizione delle donne, dalla vita familiare (alimentazione, educazione dei figli, situazione edilizia) ai severi rituali religiosi imposti dai Sacerdoti. In questo ambiente politicamente teso, animato da forti dissidi sociali tra latifondisti aristocratici e salariati sfruttati, si situa l’infanzia, la cerchia parentale, il lavoro manuale, il percorso religioso, le amicizie, la scelta dei discepoli, l’ideologia e soprattutto l’azione politica di Gesù, a cui Gilberto Squizzato offre precipua attenzione, rivelandoci un profilo del Galileo molto più concreto, determinato e combattivo di quanto normalmente si creda: un autentico sovversivo che, prendendo risolutamente le parti degli esclusi, dei discriminati, di chi subisce violenza, propose ai suoi conterranei una radicale rivoluzione antropologica da cui potesse scaturire un nuovo assetto economico, sociale e politico del suo paese. Gesù esprime “una visione per il futuro, un’autorità morale di cui Scribi, Farisei e Sacerdoti non dispongono, un carisma che gli deriva da una straordinaria capacità di empatia per i sofferenti: e, oltre a questo, egli dispone di un coraggio unico che gli viene dalla sua fiducia assoluta e indiscutibile nel Signore Jahvè, che ha perso i tratti del Dio punitivo a cui si inchina il Battista e ha assunto, ai suoi occhi, quelli di una misericordia sconfinata”.
Di questa missione più umana che religiosa del carpentiere di Nazareth, così spesso sottovalutata o volutamente taciuta, i lettori possono trovare nelle quasi cinquecento pagine del vivace e arditamente innovativo volume di Gilberto Squizzato numerose, documentate e inattese testimonianze.


 

Gilberto Squizzato
Il sovversivo di Nazareth    
Gabrielli 2025, pagine 448
 

 

 

 

 

 

CINEMA
di Marco Sbrana
 


The Master di Paul Thomas Anderson - Potere e dialettica

Joaquin Phoenix sembra Gulliver, in una delle prime scene di The Master, quando Paul Thomas Anderson lo inquadra dall’alto, sulla barca, con l’equipaggio, presso la base dell’albero, che si agita. Il mare è in fermento sotto il cielo terso che annuncia la fine della guerra. Cosa vedono, nelle macchie di Rorschach, i reduci? La scena che raggiunge il maggior grado di sintesi formale nel film di PTA è quella dove Quell (Phoenix) costruisce una scultura di sabbia, una donna, tra le cui gambe crea un varco da penetrare. E che penetra, per poi stendersi accanto all’imago e guardarla con tenerezza mentre il sole declina. Il reduce, al test psicologico, risponde: “Un cazzo”, “Una figa” o, alternativamente, “Un cazzo che entra in una figa”. Quell è il disadattato novecentesco, spaurito dopo la fine della guerra che gli ha conferito un ruolo sociale e che, concludendosi, gliel’ha anche tolto, dandolo in pasto alle fauci del mondo, conficcandogli coltelli nella psiche. Seguiamo il corpo magro e curvo di Joaquin Phoenix tentare la carriera di fotografo. Ma, attaccabrighe forse reso tale dalla guerra, fa rissa con un cliente e subito la possibilità si frantuma. È poi nel niente di qualche campagna quando prepara un intruglio alcolico che dà a un vecchietto orientale. L’uomo lo beve e muore, sicché Quell scappa (un carrello orizzontale maestoso: campagna al crepuscolo, corpo che corre), e raggiunge la nave di Lancaster Dodd, l’ultimo grande personaggio del compianto Philip Seymour Hoffman.



Il testo indaga la loro relazione. Da una parte, un disadattato, un inetto, un perdente, un abbandonato; dall’altra, il capo di una setta. L’iniziazione è forse tra i dialoghi più memorabili del ventunesimo secolo. Dodd ha preso in simpatia Quell, anche per via dell’intruglio che questi preparerà per l’equipaggio. Ma deve accedere alla setta, pungersi per entrare nella cosca, perché di quello, capiremo, si tratta: di mafia che agisce sulle menti, di una mafia del plagio mentale. Senza sbattere le palpebre (se le sbatte, si ricomincia daccapo), Joaquin Phoenix deve rispondere alle secche domande di P. S. Hoffman: nome, cognome, e se ha mai avuto rapporti sessuali con membri della sua famiglia. Domanda cui Quell dà risposta affermativa: con sua zia, più volte, perché? Perché era bella. Ma qual è l’amore della sua vita? Una ragazza molto più giovane da cui la guerra lo ha separato. Perché non è da lei? Dodd ripete: Perché non è da lei? Perché sono un idiota! sbraita Phoenix.



Martello sul cranio, palpeggiamento della materia grigia, plagio, tortura psicologica, ricatto. Questi i metodi di Lancaster Dodd. La cui teoria è semplice: viviamo più vite e c’è un modo per ricordarle, cosa che può appianare la sofferenza emotiva. Un modo per ricordarle è, innanzitutto, pagare per una seduta di reminiscenza, e magari acquistare il libro di Dodd. Che ha una moglie, Amy Adams, forse la vera mente, di certo più evoluta di Hoffman, animale evirato che, nell’impossibilità strutturale di aprirsi a un rapporto dialettico, si fa masturbare dentro un lavandino.
E di dialettica si parla. Quella hegeliana, puramente hegeliana. Ma, meglio ancora, dell’impossibilità del rapporto dialettico, del rimanere incastrati nel gioco di potere servo-padrone unidirezionale. E di quanto il rovesciamento dei ruoli, che a tratti si intuirà, sia evento cataclismatico. The Master risulta essere una preziosa pellicola sull’ossessione di tutto il cinema di Anderson, ossia, appunto, la dinamica di potere: l’assoggettamento de Il petroliere; i capovolgimenti, per chi sta sopra e chi sta sotto (ma a letto, forse, solo alla fine), in Licorice Pizza; il rapporto filiale nel cui uno, tra padre e figlio, si deve inchinare (Magnolia, dove è anche il padre che abusa). Relazioni disfunzionali all’interno di una società sporca di capitalismo tardoindustriale dove la dialettica per la sintesi è esautorata e c’è solo spazio per il dominio, per l’ossessione del dominio sull’altro, oggetto di cui disporre, non all’interno del quale perdersi. Conflitto eterno senza risoluzione.
Così, e forse più esplicitamente che negli altri titoli, in The Master.



Quell e Dodd vivranno accanto per pubblicizzare la setta di questi, tra tentativi di confutazione (tanto sono assurde le teorie del capo, del maestro); un soggiorno in prigione; letture; sedute dove donne ricche pagano per fingere di ricordare vite precedenti, annuendo alle interpretazioni infondate di Dodd; esercizi spirituali consistenti nel chiudere gli occhi e camminare avanti e indietro, toccando, mani tese, i lati della stanza; potere, e di nuovo potere. Finché Quell non si stanca, e fugge. Finché Quell, incarnando la tesi (perché è un film a tesi, manifesto di una poetica intera) del testo, non capisce che non può rinunciare alla guida di un maestro, e torna da Dodd implorando, ma viene rifiutato.
L’ultima scena vede Quell fare sesso con una ragazza e, quasi per attizzarsi, chiederle di non sbattere le palpebre mentre le farà delle domande: Come si chiama? No, ha sbattute le palpebre, la ragazza. Come ti chiami? Come ti chiami? Perché forse, solo l’altro sa dirci il nostro vero nome. Ma solo se l’altro è vera alterità, e non un totem a cui genuflettersi. Ci sarà rapporto, ci sarà politica e, forse, nel mondo, più pace, quando l’Io e l’Altro si specchieranno, si riconosceranno, senza ridursi a merce di scambio. Perché, cantava De André, “bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.

LA POESIA
di Laura Margherita Volante 


Marc Chagall: Compleanno
 
21 giugno*
 
In un pellegrinaggio eterno 
ritrovarsi con le fragilità del 
tempo... che non c’è
respirando inesorabile
sull’oscillazione del pendolo
e l’uscita del cuculo
a ricordare il passaggio
tuo breve...
nel soffio d’un battito.
 
*
Compleanno della poetessa alessandrina.

AD ANCONA
Al Teatrino San Cosma.




 

UN ASETTIMANA A BELGRADO
Allo Spazio Gattomerlino.





sabato 21 giugno 2025

A SOMANO CON I POETI
Fondazione Sormani Prota Giurleo ETS




I PARTITI DELLA GUERRA


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VE LA RICORDATE QUANDO DICEVA QUESTO?


Falsa e bugiarda


APOGEO E DECLINO DEL SISTEMA DEI PARTITI
di Franco Astengo



1975 - 1976 - 1978
 
Nel momento in cui l’esito referendario dello scorso 8-9 giugno ha riaperto la discussione sulla partecipazione elettorale intesa quale elemento non secondario della periclante qualità della democrazia mi permetto un ricordo, a 49 anni di distanza dal 20 giugno 1976 quando il bipartitismo imperfetto raggiunse il suo culmine (DC e PCI assommarono all’incirca il 73% dei voti validi) e si avviò il declino di quella che Pietro Scoppola definì Repubblica dei Partiti”.
 
In diverse occasioni per il sistema politico italiano il mese di giugno ha rappresentato momenti di appuntamento elettorale dall'esito "critico" , come nel caso del 7 giugno 1953 quando fu respinto il progetto democristiano di legge elettorale con premio di maggioranza o il 10 giugno 1979 allorquando si votò per la prima volta per i rappresentanti dell'Italia al Parlamento Europeo facendo registrare una evidente incrinatura nella partecipazione al voto (già segnalata nei referendum del giugno 1978) che fino ad allora aveva registrato in ogni pur diverso frangente elettorale lo stesso intensissimo dato di presenza alle urne. È stato nell'arco di dodici mesi tra il giugno 1975 e il giugno 1976 che si consumò il momento storico della massima espansione del sistema dei partiti nella versione egemone del "partito a integrazione di massa" e dell'inizio dell'irreversibile declino dello stesso modello: declino che poi, concomitanti diverse cause, avrebbe portato nel giro di un quindicennio ad un drastico mutamento nella struttura politica del nostro paese: mutamento poi suffragato dalla trasformazione della formula elettorale sia al riguardo delle elezioni amministrative (con l'elezione diretta del Sindaco) sia rispetto le elezioni politiche con l'adozione di un sistema misto a liste bloccate (per il 75% fondato su collegi uninominali e per il 25% in quota proporzionale).
15 giugno 1975 - 20 giugno 1976: due date da segnare con un circolo rosso nella nostra memoria.
15 giugno 1975: si svolgono le elezioni nelle 15 regioni a statuto ordinario, nelle province e nella gran parte dei comuni (allora le "sfasature" nelle date di scadenza dei diversi Consigli erano molto rare).
Elettrici ed elettori erano chiamati per la seconda volta alle urne per le elezioni regionali (la prima occasione era stata quella del 7 giugno 1970).
Si trattò di un vero e proprio terremoto: non a caso l'Unità titolò (e a ragione) "L'Italia è cambiata davvero".
 

 
Il PCI fece registrare un'avanzata impetuosa: con una partecipazione al voto superiore al 90% i comunisti conquistarono la maggioranza in Piemonte (33,91%), Liguria (38.70%), Emilia Romagna (48,39%), Toscana (46.47%), Umbria (46.13%), Marche (36,88%), Lazio (33,52%), oltre a risultati eclatanti in tutte le principali città sia del centro - nord sia al Sud (mancavano all'appello Genova e Roma dove le elezioni comunali si sarebbero svolte nel 1976). Vale la pena ricordare, almeno sommariamente, il quadro dell'epoca: il PCI aveva avanzato, tramite l'elaborazione del suo segretario Enrico Berlinguer, la proposta di "compromesso storico" che partiva dalla constatazione che, nel quadro della rigida divisione in blocchi attorno alle due superpotenze, le sinistre non potessero governare con il 51% ma servisse una base di consenso molto più ampia realizzabile appunto soltanto attraverso un'operazione di compromesso realizzata dalle grandi forze di natura popolare. La DC, principale interlocutrice della proposta, aveva risposto nella vaghezza morotea della "terza fase" mentre, proprio all'indomani del voto del 15 giugno 1975, la borghesia italiana ne aveva invece riaffermato in maniera molto pesante, da destra, la funzione "pivotale".


 
In quel 15 giugno il PCI aveva raccolto i frutti non tanto della proposta di compromesso storico ma soprattutto di un lungo processo di modernizzazione della società italiana, avviato con il "boom economico" e la formazione dei governi di centro - sinistra: processo di modernizzazione che aveva suscitato pesanti reazioni esplicitatesi con l'affermazione del terrorismo stragista e golpista di matrice fascista e alimentato dai servizi segreti e contrastato, da sinistra, da impazienze rivoluzionarie che avevano anche dato origine a fenomeni di lotta armata coinvolgenti anche settori legati a una visione pauperistica dell'impegno sociale cattolico. Quel processo di avanzamento politico e sociale delle grandi masse aveva trovato due punti di saldatura: quello dell'esponenziale crescita del peso sindacale confederale all'interno di una struttura economica ancora imperniata sulle grandi concentrazioni industriali in particolare a Partecipazione Statale e nel settore manifatturiero di beni di consumo (con l'egemonia dell'auto) con un grande peso della speculazione edilizia e quello della nuova stagione dei diritti sociali che aveva trovato un vero e proprio "momento magico" il 13 maggio 1974 con l'esito del referendum che approvava la legge sul divorzio, passata qualche anno prima in Parlamento. L'esito elettorale del 13 maggio 1974 era stato ottenuto principalmente per il distacco di parte delle masse cattoliche affrancate dalle indicazioni della Chiesa e, di conseguenza, della DC.
L'esito del 15 giugno 1975 fornì però un'altra indicazione che risultò in allora considerata secondaria: nelle grandi città, allo scopo di arrivare a formare giunte di sinistra per le quali il PSI (che alle elezioni regionali e comunali aveva conservato una quota rilevante di voti) manteneva un'opzione privilegiata superando il cosiddetto "preambolo Forlani", si verificarono spostamenti verso sinistra da parte di settori dell'area socialdemocratica e perfino liberale: accadde a Torino e a Milano oltre in altri comuni di grande importanza e sarebbe poi accaduto a Genova l'anno successivo. Anche a Napoli si formò, per la prima volta, una giunta di sinistra.
 


Questi due elementi: lo smottamento dell'area cattolica con la crescita di un forte movimento di dissenso e i fermenti nell'area laica non causarono alcuna flessione dall'impostazione egemonica portata da avanti dal PCI con il compromesso storico e dalla DC sulla base dell'unità politica dei cattolici e della diga anticomunista (anzi, dal punto di vista della diga anticomunista, ampi settori del padronato e della rendita rafforzarono, come vedremo, la loro convinzione di sostegno al partito democristiano). L'esito, inevitabile, del risultato elettorale del 15 giugno 1975 fu rappresentato dalle elezioni legislative generali anticipate: "il casus belli" fu dovuto ad un articolo del segretario socialista De Martino pubblicato sull'Avanti il 31 dicembre 1975, con il quale si dichiarava il rifiuto dei socialisti a partecipare, in futuro, ad un governo che non comprendesse il PCI (in quel momento era in carica il governo Moro - La Malfa imperniato sull'alleanza tra DC e PRI poi sostituito a febbraio 1976 da un altro governo Moro ma composto da un monocolore democristiano in una fase di vuoto del centro - sinistra organico).
L'articolo di De Martino aveva però rappresentato soltanto una sorta di "escamotage": in realtà era evidente come fosse dominante il tema del deficit di rappresentanza del Parlamento rispetto al Paese ben evidenziato, appunto, dall'esito delle elezioni regionali amministrative.
Si arrivò così al voto anticipato, fissato al 20 giugno 1976 senza che nessuna delle principali forze politiche delineasse un'alternativa al quadro fissato, da un lato dal "compromesso storico" e dall'altro delle necessità di far fronte attorno alla DC come "diga anticomunista" (una posizione questa emblematizzata dalla frase di un intellettuale inorganico come Indro Montanelli che, dalle colonne del "Giornale" proclamò: "Turatevi il naso e votate DC").


 
Il risultato di quella tornata elettorale rappresentò il massimo dell'estensione del sistema dei partiti nella storia repubblicana e l'esaltazione dello schema del "bipolarismo imperfetto" coniato a suo tempo da Giorgio Galli.
Rileggere i dati, a distanza di tanti anni e nella situazione attuale, fa ancora impressione: la partecipazione al voto raggiunse il 93,39%, su di un totale di 36.707.578 voti validi la DC ne totalizzò 14.209.519 e il PCI 12.614.650 per un totale di 26.824.159 (con una percentuale del 66,35% sul totale degli aventi diritto che assommava a 40.426.658 unità e del 73,07% sul totale dei voti validi). Il PSI si fermò a 3.540. 309 mentre i partiti laici risultarono prosciugati dall'appello montanelliano (2.700.000 voti circa tra PSDI, PRI, PLI con quest'ultimo ridotto ai limiti del quorum). Unico segnale in controtendenza rispetto al blocco della situazione il superamento della soglia minima per la presenza in Parlamento del cartello di Democrazia Proletaria (comprendente i principali gruppi residui della ventata sessantottesca e del dissenso comunista: Pdup, AO, MLS, Lotta Continua) e del Partito Radicale arrivato per un soffio alla meta dei 4 seggi. Nelle settimane successive il dibattito risultò soffocato dalla prospettiva dell'incontro tra DC e PCI. A differenza del 1975 non si raccolsero segnali d'alternativa, anzi dall'area laico - socialista partì in allora un movimento verso quel terzaforzismo che alla fine sarebbe sfociato nel pentapartito: fu allora che il sistema dei partiti a integrazione di massa cominciò ad incrinarsi mentre l'idea del "governo della sinistra" presentata (con forti differenziazioni interne) dal Pdup all'interno del cartello di DP risultò elaborata in misura del tutto insufficiente. L'esito di quella stagione fu un monocolore democristiano guidato da Andreotti con alle spalle l'ombra pesante della massoneria segreta e con l'astensione di tutti gli altri partiti, tranne il MSI (che aveva mantenuto una quota superiore ai 2 milioni di voti e che sarebbe stato poi sottoposto a una duplice pressione: golpista e stragista da destra e andreottiana per un ingresso nell'area di governo che avrebbe poi provocato l'effimera scissione di Democrazia Nazionale), DP e PR.


 
 
Ben prima del rapimento e dell'uccisione di Moro il "compromesso storico" era stato così declinato in una forma spuria di "solidarietà nazionale" al di là della quale non si intravedeva alcuna ipotesi alternativa: si inaugurò la politica economica dei "due tempi" adottata dal sindacato con la cosiddetta "Linea dell'EUR" e anche verso il fermento portato avanti dagli Enti Locali il governo rispose con un decreto di austerità firmato dal ministro Stammati (iscritto alla P2). Sicuramente furono realizzati alcuni importanti punti di riforma: equo canone, servizio sanitario nazionale, legge 285 sulla disoccupazione, la legge 194 sull'aborto che registrò il formarsi di una maggioranza di sinistra e laica convergendo PSI, PLI, PSDI, PCI, PRI, PR e Pdup ma si trattò di un episodio isolato, pur molto importante senza che si prefigurasse una possibile ipotesi di governo alternativo. È nota a tutti la situazione che si verificò al momento del rapimento Moro, avvenuto in un momento di particolare irrigidimento della situazione internazionale: il PCI e il PSI si apprestavano a entrare nella maggioranza che sosteneva il monocolore Andreotti superando il quadro delle "astensioni" ma la DC aveva già replicato conservando intatto il quadro dei ministri in carica senza fornire alcun segnale di apertura; al momento della strage di via Fani il PCI stava per dichiarare il proprio distacco dalla maggioranza ma il precipitare della situazione costrinse i dirigenti comunisti e quelli socialisti a votare la fiducia.
Il sistema imperniato sui grandi partiti di massa si era però già incrinato al di là dell'esito drammatico dei 55 giorni che seguirono, nel corso dei quali si determinò una "faglia" politica di grande importanza per gli anni a venire: quella tra "fermezza" e "trattativa" attraverso la quale il nuovo segretario del PSI Craxi introdusse una dinamica sistemica affatto diversa da quella precedente. A ricostruire un disegno di equilibrio non servì neppure l'elezione di Pertini, principale riferimento morale del "partito della fermezza", a Presidente della Repubblica. Concludo con alcune cifre che dimostrarono subito che quella crisi verticale era iniziata e procedeva spedita.

 
 
L'11 giugno 1978 si svolsero due referendum abrogativi, promossi dal PR, riguardanti le leggi speciali di ordine pubblico varate a suo tempo dal ministro repubblicano della giustizia Oronzo Reale e la legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvata nel 1974 per fronteggiare lo scandalo dei petroli scoperto dai "pretori d'assalto" di Genova (Sansa, Almerighi, Brusco) e voluta soprattutto dal segretario repubblicano La Malfa.
Per entrambi i quesiti la stragrande maggioranza delle forze politiche aveva chiesto a elettrici ed elettori di votare No allo scopo di mantenere inalterato il quadro legislativo esistente. Prima di tutto si registrò un forte calo nell'afflusso alle urne: andarono al voto poco meno di 33.500.000 unità, con una flessione di circa 7.000.000 di elettrici ed elettori rispetto al 20 giugno 1976 con una percentuale complessiva dell'81,19%. Si tenga conto che nell'occasione del referendum sul divorzio del 1974 la percentuale dei votanti era stata dell'87,72%. In secondo luogo si registrò una fortissima disaffezione rispetto all'indicazione del voto data dai maggiori partiti. Nel computo dei voti riguardanti il referendum sulle leggi di ordine pubblico ben 7.400.619 votanti si pronunciarono per l'abrogazione della legge mentre soltanto il cartello di DP e il PR si erano pronunciati in quella direzione (cioè più o meno 1.000.000 di voti raccolti il 20 giugno 1976). Ancor più netto il presentarsi di una vasta area contraria al finanziamento pubblico per il quale era favorevole l'intera area della maggioranza salvo il PLI: la legge si salvò a stento perché ben 13,691.900 elettrici ed elettori si pronunciarono per la sua abolizione.
Segnali di crisi del sistema si erano già avuti nel corso di alcune tornate amministrative svolte tra il 1977 e il 1978 (celebre quella di Castellamare di Stabia: l'esito di quelle elezioni amministrative determinò il coniarsi del termine giornalistico "sindrome di Castellamare" per indicare, con preciso riferimento al PCI, l'espandersi nel partito di una quasi rassegnata convinzione negativa circa l'esito elettorale della fase di solidarietà nazionale: nel caso, infatti, sembrava essersi davvero esaurita una "spinta propulsiva").
 

Si era avviata così la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in "antipolitica" nel corso della cui fase di espansione si svilupparono via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in "partiti pigliatutto" poi in partiti "azienda" o "personali" fino all'approdo alla democrazia recitativa all'interno delle cui coordinate ci stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento (inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all'esecutivo e al condizionamento del peso delle lobbies mentre si è radicalmente modificato il fenomeno della cessione di sovranità dello "Stato - Nazione". Al frantumarsi della società in isole corporative e nell'egemonia assunta dal fenomeno dell'individualismo competitivo i nuovi partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose per la democrazia come quelle rappresentate dalla riforma costituzionale per fortuna bocciata dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016 e quelle delle vere e proprie "avventure dell'effimero" rappresentate dalla meteore M5S e Lega nella versione Salvini . Il fenomeno del populismo senza principi ha attraversato e sta ancora attraversando l'intero arco istituzionale causando danni all'apparenza irreversibili. Naturalmente al formarsi di questo stato di cose hanno concorso una molteplicità di fattori che in questa sede l'economia del discorso non ci consente di analizzare in profondità e che, comunque, sono stati e sono oggetto di studi approfonditi espressi in una quantità di pubblicazioni cui si può utilmente rimandare.



Lo scopo di questa nota era soltanto quella di ricordare la ricorrenza ciclica di quei mesi di giugno: quello del 1975, del 1976 e anche quello del 1978.
Un arco di tempo in cui si consumò la storia dell'egemonia dei grandi partiti di massa che in Italia aveva avviato il suo percorso con la fase post-resistenziale (durante la quale era stata stritolata, con la sconfitta del Partito d'Azione, l'idea di una forma politica "d'opinione" che avrebbe potuto essere espressa da quella che poi sarebbe stata definita "borghesia riflessiva" e che in quel momento fu risucchiata a destra dalla retorica anticomunista) e l'esito delle elezioni per l'Assemblea costituente del 2 giugno 1946, quando i tre grandi partiti (DC, PSIUP, PCI) avevano raggiunto oltre il 70% dei voti validi, mentre la partecipazione aveva sfiorato il 90% (89,08%) dimostrando un fortissimo radicamento sociale che poi il PCI avrebbe condotto a suo vantaggio nel riequilibrio tra i due partiti  PCI e PSI verificatosi con la formazione del Fronte Popolare sconfitto dalla DC il 18 aprile 1948.
 



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