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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea

1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
lunedì 23 giugno 2025
REPRESSIONE E LOTTA DI CLASSE
ATTACCO USA ALL’IRAN

U due compari
L'attacco USA all'Iran sposta pericolosamente le relazioni
internazionali in un momento di grande difficoltà: oggi uno scontro a livello
planetario è molto più realistico rispetto a prima.
Premessa la necessità di un quadro europeo, la situazione
italiana è questa:
Siamo in prima linea, considerata la presenza di basi USA in
Italia.
In frangenti simili è necessario reclamare che la politica
estera sia restituita al Parlamento e non delegata al Governo (lo esigono
l'art.1 e l'art.11 Costituzione: la sovranità appartiene al popolo e l'Italia
ripudia la guerra).
È assolutamente necessaria un'azione immediata a tutti i livelli
perché i rami del Parlamento siano convocati con all'ordine del giorno la
posizione dell'Italia in un contesto di tale drammaticità.
Analoga
iniziativa va portata avanti anche presso il Parlamento UE.
Questa è la
priorità assoluta in questa fase immediata: l’Italia vanta una solida
tradizione di oscuramento parlamentare nei casi di conflitto, che va
interrotta.
Serve una
fortissima mobilitazione dal basso, di cui il movimento dei lavoratori dovrebbe
farsi interprete.
Le
associazioni di cultura politica possono svolgere un’efficace opera di
sensibilizzazione ed elaborazione condivisa.
Un grande
contributo può venire anche dai livelli locali di governo e rappresentanza, dai
Comuni alle Regioni.
Nello
specifico, chiediamo:
Cessate il
fuoco immediato su tutti i fronti di guerra
Protezione
internazionale per la popolazione civile
Convocazione
urgente di una conferenza internazionale di pace e stabilità per il Medio
Oriente, sotto l’egida ONU e libera dal ricatto delle potenze militari
Chiediamo,
infine, che il Governo si impegni espressamente a non lasciarsi coinvolgere in
un conflitto dalle conseguenze imponderabili.
Non c’è
futuro possibile nella guerra.
La sicurezza si costruisce
con la giustizia, la libertà dei popoli e la pace.
ARS -
Associazione per il Rinnovamento della Sinistra
Sinistra XXI

domenica 22 giugno 2025
ESTATE
di
Zaccaria Gallo
Raccontare.
Arriva con il passo pesante
quest’estate, le scarpe chiodate, lo sferragliare dei carri armati, il crepitio
di migliaia di proiettili … (ah, dove il ronzio dei calabroni e delle api
attorno ai fiori?). Solstizio d’estate, momento folgorante del sole. Le
giornate, le più lunghe dell’anno. Non sono soldati quelli che, a Stonehenge,
celebrano l’arrivo di questa stagione, davanti alle pietre erette dagli
antenati neolitici, allineate verso i raggi del sole, quando sorge nell’alba.
S’apre, anche qui, nella mia città, la porta del Dolmen della Chianca e il suo
corridoio, un abbraccio all’astro che s’appresta a regnare sovrano per i prossimi
mesi. Non sono lamenti e grida di feriti, sepolti sotto le macerie delle loro
case, che stridono dai rami degli alberi, ma cicale, che cantano ubriache nelle
sere d’estate, quando il colore dell’ambra di interminabili crepuscoli,
nonostante il caldo, riempiono di vita i viali lungo il mare, le ville
comunali, i vicoli del Centro Storico, e i rossi e le rose e i verdi dei campi
sono ridondanti negli occhi di chi guarda. Quanti sogni, e quanti ricordi, nei
lunghi pomeriggi di siesta, dopo il pranzo, mentre ci assale il sonno
digestivo, e s’assopisce la mente nella penombra di una camera da letto! “E l’estate appoggia le chiome sulle mensole
/ le membra stende tra le luci sparse” (Rocco Scotellaro).
Raccontare.
Estati, passate, dopo cena, seduti al balcone, avvolti in un buio silenzioso, che oggi non c’è più, perché allora erano lampadine sottopiatti, rivolte verso il basso, e tu potevi guardare in alto, il cielo, ed enumerare le stelle e riconoscere l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore e la Stella Polare. E stupirsi, se veloci meteore attraversavano l’alto, confondendo le loro luci con quelle degli astri (Esprimi un desiderio, diceva mia madre). No! No, non erano missili o droni, le nuove stelle cadenti che portano morte sugli uomini, le donne, i bambini, sugli ospedali, sulle scuole. Sì, si guardava in alto, anche quando le nuvole passavano basse, e s’annunciavano le battaglie estive, fatte di improvvisi temporali o rovesci di pioggia, e lampi e tuoni, ma che erano altra cosa dagli accecanti e assordanti boati delle bombe. Si benediva l’acqua, che cadeva a ristorare la terra assetata delle vigne e dei campi attorno alle città del nostro Sud, quella stessa acqua che viene, oggi, negata ai bambini di Gaza: era altra acqua, altra cosa! Poco prima, erano rientrate le nostre donne, che si erano messe a sedere sulle panche, davanti alle abitazioni, a raccontare storie di famiglia, salute e lavoro.
Rientravano in casa quando, da sud, si alzava quel vento che se soffia alza le onde del mare all’incontrario e le placa: lo scirocco che “dà l’impressione di essere ubriachi” (Antonio Gramsci). Vento che attraversa la nostra campagna, che la spalanca, e gli uliveti, allora, mostrano l’amore dei contadini pugliesi per la propria terra e che vedi bene, perché c’è una geometria perfetta, tramandata da generazione a generazione. Soffia quel vento, ad accarezzare le foglie appuntite degli ulivi, vecchi eroi che vestono le corazze, piene di cicatrici rugose, per le lunghe lotte sostenute contro leinsidie del tempo; vecchi eroi che, sopravvivono a testa alta, nel corso dei secoli agli uomini, quelli di pace e quelli di guerra, aprendo sempre i loro pugni verdi, con una gioventù eterna, abbracciata ai rosolacci e alle stoppie bagnate dalla luce della luna. Estate serena, che si vive ancora oggi in un borgo disperso nelle campagne attorno alle città di Giovinazzo e Molfetta: il Borgo delle Sette Torri, che si eleva su una collinetta alta 120 metri sul livello del mare, e da cui si può vedere il panorama di quelle due città, il mare e il Gargano, lontano. Erano le nostre case di villeggiatura, ville di campagna, nate findall’Ottocento, costruite attorno ad una piazzetta deliziosa, che su un lato ha una chiesetta antica, con campanile a vela e un pergolato che ne protegge l’apertura. Sul selciato della piazzetta si mettevano ad asciugare al sole le mandorle, dopo essere state raccolte ancora con il loro mallo verde: un tappeto meraviglioso. Oggi si aspetta il Ferragosto, il giorno dell’Assunta: ci si riunisce, si assiste alla Messa, si porta in processione la Madonna con le fiaccole, si fanno fuochi pirotecnici e si sente qui altro vento, il vento del Sacro. Nelle ville vicine, ci si incontra con gli amici, che si pensavano perduti: ritrovati, dopo tanto tempo, si brinda, con il vino primitivo, alla vita e non alla morte, come altri esseri umani stanno facendo nello stesso momento. La vita, che capita di vedere, bellissima, quando sulla panchina sotto l’uva, accanto alla chiesetta, un ragazzo e una ragazza, venuti sul calesse con i loro genitori, si scambiano i primi baci d’amore. Tracce di una umanità che non deve perdere l’umanità. E l’estate di San Giovanni: si andava a cogliere noci sulla strada per Castel del Monte o fra gli uliveti degli amici. Le noci! Offerte da quei grandi alberi, che pur gravati da cattiva fama, per essere gli alberi delle streghe, danno un liquore meraviglioso, nero, intenso: il nocino.
Le
nonne lo conservavano, allora, nelle cristalliere, per poi poterlo offrire, in
occasione delle visite di amiche e famigliari, nelle sere d’inverno. Estate di
pace, non di guerra, estate d’amore come quella cantata da William Shakespeare:
Dovrei paragonarti a un giorno d’estate? / Tu sei più amabile e più
tranquillo. / Impetuosi venti scuotono le tenere gemme di Maggio, / e il corso
dell’estate ha fin troppo presto una fine. / Talvolta troppo caldo splende
l’occhio del cielo, / e spesso la sua pelle dorata s’oscura; / e ogni cosa
bella la bellezza talora declina, / spogliata per caso o per il mutevole corso
della natura. / Ma la tua eterna estate non dovrà svanire, / Né perdere la
bellezza che possiedi, / né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua
ombra, / quando in eterni versi nel tempo tu crescerai, / finché uomini
respireranno o occhi potran vedere, / queste parole vivranno, e daranno vita a
te.
MONTALE: OSSI DI SEPPIA
di Filippo Ravizza
Eugenio
Montale nasce a Genova nel 1896, il 12 ottobre. Genova era una città ricca e
industriosa, con un porto e un'attività commerciale di spicco tra le
conurbazioni del Sud Europa. Anche la famiglia Montale appartiene alla
borghesia cittadina ed era una famiglia di agiati commercianti di vernici
(specie sottomarine) e solventi chimici. Il padre Domenico, detto Domingo per
essere stato più di dieci anni emigrante in America Latina,era un uomo
pragmatico e attivo. I Montale dunque vivevano a Genova; erano però originari
di Monterosso, la prima delle "Cinque Terre", almeno venendo dal
capouogo ligure; qui la famiglia Montale nel 1905 aveva costruito una propria
casa delle vacanze, una villa dove si trascorrevano, tutti insieme, le estati e
le principali festività dell'anno. Eugenio era l'ultimo di cinque fratelli; gli
studi furono irregolari, per motivi di salute cagionevole che lo costrinsero
anche a studiare privatamente. Si conclusero
nel 1915 con il diploma di ragioniere di cui poi non saprà mai cosa
fare. Dirà molti anni più tardi: " I miei fratelli andavano in ufficio,
l'unica mia sorella frequentava l'Università, per me, ultimo di sei figli, non
era nemmeno il caso di parlarne". Negli anni tra il 1915 e il 1917
però Montale si scopre melomane appassionatissimo, e si mette a studiare canto
andando a lezione di musica dal baritono
Ernesto Sivori. Insieme alla sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia,
inizia a studiare i filosofi (Boutroux e Bergson e il russo Sestov) e
naturalmente poeti, in particolare Dante Alighieri, e gli allora quasi
contemporanei Carducci e Pascoli, e Gabriele D'Annunzio.
Le sue letture divennero imponenti, mentre cominciò a collaborare alle riviste, la prima delle quali fu "La Riviera Ligure", una pubblicazione finanziata da commercianti di olio di oliva, che raccoglieva firme letterarie come Giovanni Boine e l'allora giovane poeta Camillo Sbarbaro. Nel 1917, sottotenente di fanteria (158° reggimento Brigata Liguria) partecipa alla prima guerra mondiale in Trentino, sul fronte della Vallarsa (scriverà la poesia "Valmorbia"). La sua prima pubblicazione poetica appare nel 1922, sulla rivista "Primo Tempo". Ma già nel 1916, a soli 20 anni, aveva scritto "Meriggiare pallido e assorto". Il testo ci porta alla prima celebre raccolta del nostro, quegli Ossi di seppia che usciranno nel 1925 per le edizioni di Piero Gobetti. Montale, negli anni che vanno dal 1915 al 1925, approfondisce anche la cultura europea del "negativo" (poetica del "male di vivere") portandosi dietro la sensazione dirà "di vivere sotto una campana di vetro". In questi anni che poi sfoceranno in Ossi di seppia, Montale si interessa alla poesia che cerca di uscire dai limiti della realtà e del linguaggio già dato.
La poesia francese (allora) moderna, a
partire da Baudelaire, ma anche a quella di poeti anglosassoni come Robert Browning
(1812 - 1889) sino ai contemporanei Eliot ed Ezra Pound. Date queste premesse
teoretiche non stupirà notare come Montale, in Ossi di seppia si muova
alla ricerca di un varco che metta in comunicazione il piano immutabile dell'essere
con quello precipitoso ed implacabile del tempo. Prende forma e sostanza
proprio in Ossi di seppia quella forma eretica e peculiare di
"esistenzialismo montaliano" dove il varco, "l'anello che non
tiene" [...talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il
punto morto del mondo, l'anello che non tiene,/... 'I limoni'] la
"maglia rotta", sono irruzione di una possibile libertà dall'ordine
precostituito delle cose.
Dirà
Montale stesso, nella Intervista Immaginaria, pubblicata nella rivista
"La rassegna letteraria", numero 1, gennaio 1946 "forse negli
anni in cui composi Ossi di seppia (tra il 20 e il 25) agì in me la 'filosofia
dei contingentisti francesi', del Boutroux. Il 'miracolo' era per me evidente
come la necessità, ubbidii ad un bisogno di espressione musicale. Volevo che la
mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto
[...]" .
Montale innerva la propria poesia della polarità necessità-libertà-contingente e per lui poesia sarà logos-musica-mnème, un impasto cioè di pensiero e musica, memoria, l'unità di suono e significato, non solo quella di suono e di senso. La poesia di Montale sarà dunque raffinata a livello metrico-stilistico e timbrico; però giocata sul piano della quotidianità e sul miscelare parole "alte" e parole comuni. Compare in Ossi di seppia il famoso "tu" montaliano, i versi si rivolgono in modo colloquiale a un tu che resta indeterminato, se si vuole, o invece, se lo si desidera, può indicare Montale stesso, se non direttamente il lettore, cioè noi.
SCAFFALI
di Alida Airaghi

Gilberto Squizzato
Il sovversivo di Nazareth.
Gilberto
Squizzato (Busto Arsizio, 1949) ha iniziato la carriera giornalistica dirigendo
un periodico del dissenso cattolico della provincia di Varese. Come assistente
cinematografico, ha collaborato con Mario Amendola, José Luis Merino in Spagna,
Alberto Lattuada e Carlo Lizzani. Assunto in RAI, ha lavorato per vari TG,
mettendosi in luce come autore di trasmissioni e inchieste televisive, per
passare poi alla regia con alcuni importanti docufilm sulla rete diretta da
Angelo Guglielmi. Dal 2007 è stato docente sia all’Università Statale sia al
Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Tra i suoi libri: La tv che
non c’è (Minimum Fax, Roma, 2010), Libera Chiesa (Minimum Fax, Roma,
2012), Il Dio che non è ‘Dio’ (Gabrielli, Verona, 2012), Il miracolo
superfluo (Gabrielli, Verona, 2014), Se il cielo adesso è vuoto
(Gabrielli, Verona, 2018), Sussurri e grida. Salmi laici e cristiani per il
nostro tempo” (Gabrielli, Verona 2021). Sempre per l’editore veronese
Gabrielli ha da poco pubblicato un nuovo volume di argomento teologico Il
sovversivo di Nazareth. La conversione dell’operaio che non voleva essere il
Messia.
Il suo appassionato interesse per la
teologia si esprime anche nei numerosi interventi registrati su YouTube, volti
a liberare l’immaginario religioso tradizionale attraverso l’adesione a una
fede laica, consapevole e liberante.
Una lettura, se non sovversiva,
certamente polemicamente atipica e coraggiosa, quella che Squizzato propone di
un Gesù lontano da canoni religiosi e accademici, da molti travisamenti
moralistici, e da rozze deformazioni sedimentate nei secoli. La sua rigorosa
indagine storica, suffragata da un ingente apparato di note e citazioni,
contesta la dottrina del monofisismo (IV secolo d.C.), secondo cui la
natura divina di Cristo avrebbe completamente assorbito e subordinato le sue
caratteristiche più specificamente umane, e quella del duofisismo
(Concilio di Calcedonia del 451) che sosteneva la coesistenza in Gesù Cristo di
entrambe le nature, umana e divina. Rivendica invece l’autentica e concreta
realtà dell’uomo Gesù: “Se non fosse stato perfettamente e compiutamente uomo,
tutta la sua vicenda si sarebbe ridotta alla pura messa in scena di un copione
deciso prima dell’inizio dei tempi nell’alto dei cieli”. Non avrebbe infatti
sofferto, dubitato, pregato come ci raccontano i Vangeli.
A proposito dell’originalità e
affidabilità dei quali, l’autore non nasconde la propria diffidenza. Scritti
tra i quaranta e i settanta anni dopo la morte di Gesù, da redattori che non si
conoscevano tra loro, essi sono hypomnemata, semplici appunti,
promemoria fluidi e aperti, che dovevano servire come sommari per la
predicazione, essendo destinati a comunità differenti e geograficamente
lontane, spesso da tutelare politicamente attraverso censure, utilizzando
addirittura stratagemmi drammaturgici per invogliare all’ascolto masse
semianalfabete. Nelle diverse narrazioni evangeliche Squizzato sottolinea
discrepanze, illogicità, ridondanze, rimaneggiamenti ed errori di traduzione
dall’aramaico al greco (valga l’esempio del termine Dio che proviene dal
sanscrito “dv”, “esperienza di luce”, tramutato nel “theòs” greco che indica “il
divino”): gli episodi dell’uccisione di Giovanni Battista, della chiamata dei
dodici apostoli, del Discorso della Montagna fino alla moltiplicazione dei pani
risultano, insieme a molti altri, incoerenti e discutibili.
Nei quattro Vangeli e in seguito
nell’interpretazione paolina, ripresa in toto da Agostino, l’umanità di Gesù fu
progressivamente eclissata per consegnarci una figura a-storica, avulsa dalla
sua vicenda terrena davvero rivoluzionaria, e assorbita in una dimensione
esclusivamente metafisica. L’esaltazione del valore sacrificale della croce
diede vita alla dottrina dell’espiazione come nucleo portante di tutta la
predicazione gesuana, al fine di ottenere la redenzione dell’umanità dal
peccato attraverso l’immolazione dell’Agnello di Dio, decontestualizzando tutta
la portata storica del suo agire e circondando di un’aura magica e
soprannaturale la sua creaturalità già a partire dal concepimento virginale. “Sarebbe
parziale, insufficiente e perfino falsa anche una lettura dei vangeli che li
riducesse a un messaggio esclusivamente etico”, e la puntuale disamina filologia
dell’autore mira infatti a ricostruire la realtà personale, familiare,
culturale, religiosa del carpentiere di Nazareth, ambientandola nel contesto e
nel momento temporale precisi in cui essa ha preso corpo: la Galilea e la
Giudea dell’inizio del I secolo.
![]() |
Gilberto Squizzato |
Viene rivisitata così tutta la storia
di Israele già dalla dominazione assira fino al periodo ellenistico e romano
nel turbolento, caotico fervore apocalittico che agitava la religiosità
popolare di allora. Più di duecento pagine del corposo volume sono dedicate a
una minuziosa esplorazione delle vicende e della geografia dell’intera regione,
con un ricco apparato iconografico e la comparazione delle fonti bibliche e
letterarie. Particolarmente interessante risulta il resoconto dell’occupazione
romana, determinata da motivi più logistico-militari che economici: il
territorio palestinese non risultava infatti produttivo come quello spagnolo,
siculo o nord africano, ma andava sorvegliato in quanto corridoio obbligato per
raggiungere l’Egitto, da poco assoggettato, e le rotte più orientali del
Mediterraneo. La presa di potere da parte dei dominatori fu da subito avversata
dagli ebrei che, rigidamente monoteisti, mal sopportavano le molte divinità romane,
né le fastose celebrazioni imperiali da sostenere con imposte esose, e il
rancore verso gli occupanti si espresse non solo in una resistenza ostile, ma
anche attraverso azioni terroristiche messe in atto da bande di zeloti.
Lo spaccato della vita quotidiana nell’
Israele del I secolo viene raccontato dall’autore con dovizia di particolari:
dal lavoro contadino e artigianale alla condizione delle donne, dalla vita
familiare (alimentazione, educazione dei figli, situazione edilizia) ai severi rituali
religiosi imposti dai Sacerdoti. In questo ambiente politicamente teso, animato
da forti dissidi sociali tra latifondisti aristocratici e salariati sfruttati,
si situa l’infanzia, la cerchia parentale, il lavoro manuale, il percorso
religioso, le amicizie, la scelta dei discepoli, l’ideologia e soprattutto l’azione
politica di Gesù, a cui Gilberto Squizzato offre precipua attenzione, rivelandoci
un profilo del Galileo molto più concreto, determinato e combattivo di quanto
normalmente si creda: un autentico sovversivo che, prendendo risolutamente le
parti degli esclusi, dei discriminati, di chi subisce violenza, propose ai suoi
conterranei una radicale rivoluzione antropologica da cui potesse scaturire un
nuovo assetto economico, sociale e politico del suo paese. Gesù esprime “una
visione per il futuro, un’autorità morale di cui Scribi, Farisei e Sacerdoti
non dispongono, un carisma che gli deriva da una straordinaria capacità di
empatia per i sofferenti: e, oltre a questo, egli dispone di un coraggio unico
che gli
viene dalla sua fiducia assoluta e indiscutibile nel Signore Jahvè, che ha
perso i tratti del Dio punitivo a cui si inchina il Battista e ha assunto, ai
suoi occhi, quelli di una misericordia sconfinata”.
Di questa missione più umana che
religiosa del carpentiere di Nazareth, così spesso sottovalutata o volutamente
taciuta, i lettori possono trovare nelle quasi cinquecento pagine del vivace e arditamente
innovativo volume di Gilberto Squizzato numerose, documentate e inattese testimonianze.
Gilberto Squizzato
Il sovversivo di Nazareth
Gabrielli 2025, pagine 448
CINEMA
di Marco Sbrana
The Master di Paul
Thomas Anderson - Potere e dialettica
Joaquin Phoenix sembra Gulliver, in una delle prime scene di The Master, quando Paul Thomas Anderson lo inquadra dall’alto, sulla barca, con l’equipaggio, presso la base dell’albero, che si agita. Il mare è in fermento sotto il cielo terso che annuncia la fine della guerra. Cosa vedono, nelle macchie di Rorschach, i reduci? La scena che raggiunge il maggior grado di sintesi formale nel film di PTA è quella dove Quell (Phoenix) costruisce una scultura di sabbia, una donna, tra le cui gambe crea un varco da penetrare. E che penetra, per poi stendersi accanto all’imago e guardarla con tenerezza mentre il sole declina. Il reduce, al test psicologico, risponde: “Un cazzo”, “Una figa” o, alternativamente, “Un cazzo che entra in una figa”. Quell è il disadattato novecentesco, spaurito dopo la fine della guerra che gli ha conferito un ruolo sociale e che, concludendosi, gliel’ha anche tolto, dandolo in pasto alle fauci del mondo, conficcandogli coltelli nella psiche. Seguiamo il corpo magro e curvo di Joaquin Phoenix tentare la carriera di fotografo. Ma, attaccabrighe forse reso tale dalla guerra, fa rissa con un cliente e subito la possibilità si frantuma. È poi nel niente di qualche campagna quando prepara un intruglio alcolico che dà a un vecchietto orientale. L’uomo lo beve e muore, sicché Quell scappa (un carrello orizzontale maestoso: campagna al crepuscolo, corpo che corre), e raggiunge la nave di Lancaster Dodd, l’ultimo grande personaggio del compianto Philip Seymour Hoffman.
Il testo indaga la loro relazione. Da una
parte, un disadattato, un inetto, un perdente, un abbandonato; dall’altra, il
capo di una setta. L’iniziazione è forse tra i dialoghi più memorabili del
ventunesimo secolo. Dodd ha preso in simpatia Quell, anche per via
dell’intruglio che questi preparerà per l’equipaggio. Ma deve accedere alla
setta, pungersi per entrare nella cosca, perché di quello, capiremo, si tratta:
di mafia che agisce sulle menti, di una mafia del plagio mentale. Senza
sbattere le palpebre (se le sbatte, si ricomincia daccapo), Joaquin Phoenix
deve rispondere alle secche domande di P. S. Hoffman: nome, cognome, e se ha
mai avuto rapporti sessuali con membri della sua famiglia. Domanda cui Quell dà
risposta affermativa: con sua zia, più volte, perché? Perché era bella. Ma qual
è l’amore della sua vita? Una ragazza molto più giovane da cui la guerra lo ha
separato. Perché non è da lei? Dodd ripete: Perché non è da lei? Perché sono un
idiota! sbraita Phoenix.
Martello sul cranio, palpeggiamento della
materia grigia, plagio, tortura psicologica, ricatto. Questi i metodi di
Lancaster Dodd. La cui teoria è semplice: viviamo più vite e c’è un modo per
ricordarle, cosa che può appianare la sofferenza emotiva. Un modo per
ricordarle è, innanzitutto, pagare per una seduta di reminiscenza, e magari
acquistare il libro di Dodd. Che ha una moglie, Amy Adams, forse la vera mente,
di certo più evoluta di Hoffman, animale evirato che, nell’impossibilità
strutturale di aprirsi a un rapporto dialettico, si fa masturbare dentro un
lavandino.
E di dialettica si parla. Quella hegeliana,
puramente hegeliana. Ma, meglio ancora, dell’impossibilità del rapporto
dialettico, del rimanere incastrati nel gioco di potere servo-padrone
unidirezionale. E di quanto il rovesciamento dei ruoli, che a tratti si
intuirà, sia evento cataclismatico. The Master risulta essere una
preziosa pellicola sull’ossessione di tutto il cinema di Anderson, ossia,
appunto, la dinamica di potere: l’assoggettamento de Il petroliere; i
capovolgimenti, per chi sta sopra e chi sta sotto (ma a letto, forse, solo alla
fine), in Licorice Pizza; il rapporto filiale nel cui uno, tra padre e
figlio, si deve inchinare (Magnolia, dove è anche il padre che abusa).
Relazioni disfunzionali all’interno di una società sporca di capitalismo
tardoindustriale dove la dialettica per la sintesi è esautorata e c’è solo
spazio per il dominio, per l’ossessione del dominio sull’altro, oggetto di cui
disporre, non all’interno del quale perdersi. Conflitto eterno senza risoluzione.
Così, e forse più esplicitamente che negli
altri titoli, in The Master.
Quell e Dodd vivranno accanto per
pubblicizzare la setta di questi, tra tentativi di confutazione (tanto sono
assurde le teorie del capo, del maestro); un soggiorno in prigione; letture;
sedute dove donne ricche pagano per fingere di ricordare vite precedenti,
annuendo alle interpretazioni infondate di Dodd; esercizi spirituali
consistenti nel chiudere gli occhi e camminare avanti e indietro, toccando,
mani tese, i lati della stanza; potere, e di nuovo potere. Finché Quell non si
stanca, e fugge. Finché Quell, incarnando la tesi (perché è un film a tesi,
manifesto di una poetica intera) del testo, non capisce che non può rinunciare
alla guida di un maestro, e torna da Dodd implorando, ma viene rifiutato.
L’ultima scena vede Quell fare sesso con una
ragazza e, quasi per attizzarsi, chiederle di non sbattere le palpebre mentre
le farà delle domande: Come si chiama? No, ha sbattute le palpebre, la ragazza.
Come ti chiami? Come ti chiami? Perché forse, solo l’altro sa dirci il nostro
vero nome. Ma solo se l’altro è vera alterità, e non un totem a cui
genuflettersi. Ci sarà rapporto, ci sarà politica e, forse, nel mondo, più
pace, quando l’Io e l’Altro si specchieranno, si riconosceranno, senza ridursi
a merce di scambio. Perché, cantava De André, “bisogna farne di strada da una
ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso
della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non
riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.
LA POESIA
di Laura Margherita Volante

Marc Chagall: Compleanno
21 giugno*
In un pellegrinaggio eterno
ritrovarsi con le fragilità del
tempo... che non c’è
respirando inesorabile
sull’oscillazione del pendolo
e l’uscita del cuculo
a ricordare il passaggio
tuo breve...
nel soffio d’un battito.
*Compleanno
della poetessa alessandrina.
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Marc Chagall: Compleanno |
sabato 21 giugno 2025
APOGEO E DECLINO DEL
SISTEMA DEI PARTITI
di Franco Astengo
1975 - 1976 - 1978
Nel momento in
cui l’esito referendario dello scorso 8-9 giugno ha riaperto la discussione
sulla partecipazione elettorale intesa quale elemento non secondario della
periclante qualità della democrazia mi permetto un ricordo, a 49 anni di
distanza dal 20 giugno 1976 quando il “bipartitismo
imperfetto” raggiunse il suo culmine (DC e PCI assommarono all’incirca
il 73% dei voti validi) e si avviò il declino di quella che Pietro Scoppola
definì “Repubblica dei Partiti”.
In diverse occasioni per il sistema politico italiano il mese di
giugno ha rappresentato momenti di appuntamento elettorale dall'esito
"critico" , come nel caso del 7 giugno 1953 quando fu respinto il
progetto democristiano di legge elettorale con premio di maggioranza o il 10
giugno 1979 allorquando si votò per la prima volta per i rappresentanti
dell'Italia al Parlamento Europeo facendo registrare una evidente incrinatura
nella partecipazione al voto (già segnalata nei referendum del giugno 1978) che
fino ad allora aveva registrato in ogni pur diverso frangente elettorale lo
stesso intensissimo dato di presenza alle urne. È
stato nell'arco di dodici mesi tra il giugno 1975 e il giugno 1976 che si
consumò il momento storico della massima espansione del sistema dei partiti
nella versione egemone del "partito a integrazione di massa" e
dell'inizio dell'irreversibile declino dello stesso modello: declino che poi,
concomitanti diverse cause, avrebbe portato nel giro di un quindicennio ad un
drastico mutamento nella struttura politica del nostro paese: mutamento poi
suffragato dalla trasformazione della formula elettorale sia al riguardo delle
elezioni amministrative (con l'elezione diretta del Sindaco) sia rispetto le
elezioni politiche con l'adozione di un sistema misto a liste bloccate (per il
75% fondato su collegi uninominali e per il 25% in quota proporzionale).
15 giugno 1975 - 20
giugno 1976: due date da segnare con un circolo rosso nella
nostra memoria.
15 giugno 1975: si svolgono le elezioni nelle 15 regioni a statuto ordinario,
nelle province e nella gran parte dei comuni (allora le "sfasature"
nelle date di scadenza dei diversi Consigli erano molto rare).
Elettrici ed elettori
erano chiamati per la seconda volta alle urne per le elezioni regionali (la
prima occasione era stata quella del 7 giugno 1970).
Si trattò di un vero
e proprio terremoto: non a caso l'Unità titolò (e a ragione) "L'Italia è cambiata davvero".
Il PCI fece
registrare un'avanzata impetuosa: con una partecipazione al voto superiore al
90% i comunisti conquistarono la maggioranza in Piemonte (33,91%), Liguria
(38.70%), Emilia Romagna (48,39%), Toscana (46.47%), Umbria (46.13%), Marche
(36,88%), Lazio (33,52%), oltre a risultati eclatanti in tutte le principali
città sia del centro - nord sia al Sud (mancavano all'appello Genova e Roma dove
le elezioni comunali si sarebbero svolte nel 1976). Vale la pena ricordare, almeno sommariamente, il quadro
dell'epoca: il PCI aveva avanzato, tramite l'elaborazione del suo segretario
Enrico Berlinguer, la proposta di "compromesso storico" che partiva
dalla constatazione che, nel quadro della rigida divisione in blocchi attorno
alle due superpotenze, le sinistre non potessero governare con il 51% ma
servisse una base di consenso molto più ampia realizzabile appunto soltanto
attraverso un'operazione di compromesso realizzata dalle grandi forze di natura
popolare. La DC, principale interlocutrice
della proposta, aveva risposto nella vaghezza morotea della "terza
fase" mentre, proprio all'indomani del voto del 15 giugno 1975, la borghesia
italiana ne aveva invece riaffermato in maniera molto pesante, da destra, la
funzione "pivotale".
In quel 15 giugno il
PCI aveva raccolto i frutti non tanto della proposta di compromesso storico ma
soprattutto di un lungo processo di modernizzazione della società italiana, avviato
con il "boom economico" e la formazione dei governi di centro -
sinistra: processo di modernizzazione che aveva suscitato pesanti reazioni
esplicitatesi con l'affermazione del terrorismo stragista e golpista di matrice
fascista e alimentato dai servizi segreti e contrastato, da sinistra, da
impazienze rivoluzionarie che avevano anche dato origine a fenomeni di lotta
armata coinvolgenti anche settori legati a una visione pauperistica
dell'impegno sociale cattolico. Quel processo di
avanzamento politico e sociale delle grandi masse aveva trovato due punti di
saldatura: quello dell'esponenziale crescita del peso sindacale confederale
all'interno di una struttura economica ancora imperniata sulle grandi
concentrazioni industriali in particolare a Partecipazione Statale e nel
settore manifatturiero di beni di consumo (con l'egemonia dell'auto) con un
grande peso della speculazione edilizia e quello della nuova stagione dei
diritti sociali che aveva trovato un vero e proprio "momento magico"
il 13 maggio 1974 con l'esito del referendum che approvava la legge sul
divorzio, passata qualche anno prima in Parlamento. L'esito elettorale del 13
maggio 1974 era stato ottenuto principalmente per il distacco di parte delle
masse cattoliche affrancate dalle indicazioni della Chiesa e, di conseguenza,
della DC.
L'esito del 15 giugno
1975 fornì però un'altra indicazione che risultò in allora considerata
secondaria: nelle grandi città, allo scopo di arrivare a formare giunte di
sinistra per le quali il PSI (che alle elezioni regionali e comunali aveva
conservato una quota rilevante di voti) manteneva un'opzione privilegiata
superando il cosiddetto "preambolo Forlani", si verificarono
spostamenti verso sinistra da parte di settori dell'area socialdemocratica e perfino
liberale: accadde a Torino e a Milano oltre in altri comuni di grande
importanza e sarebbe poi accaduto a Genova l'anno successivo. Anche a Napoli si
formò, per la prima volta, una giunta di sinistra.
Questi due elementi:
lo smottamento dell'area cattolica con la crescita di un forte movimento di
dissenso e i fermenti nell'area laica non causarono alcuna flessione
dall'impostazione egemonica portata da avanti dal PCI con il compromesso
storico e dalla DC sulla base dell'unità politica dei cattolici e della diga
anticomunista (anzi, dal punto di vista della diga anticomunista, ampi settori
del padronato e della rendita rafforzarono, come vedremo, la loro convinzione
di sostegno al partito democristiano). L'esito,
inevitabile, del risultato elettorale del 15 giugno 1975 fu rappresentato dalle
elezioni legislative generali anticipate: "il casus belli" fu dovuto
ad un articolo del segretario socialista De Martino pubblicato sull'Avanti il
31 dicembre 1975, con il quale si dichiarava il rifiuto dei socialisti a partecipare,
in futuro, ad un governo che non comprendesse il PCI (in quel momento era in
carica il governo Moro - La Malfa imperniato sull'alleanza tra DC e PRI poi
sostituito a febbraio 1976 da un altro governo Moro ma composto da un
monocolore democristiano in una fase di vuoto del centro - sinistra organico).
L'articolo di De
Martino aveva però rappresentato soltanto una sorta di "escamotage":
in realtà era evidente come fosse dominante il tema del deficit di
rappresentanza del Parlamento rispetto al Paese ben evidenziato, appunto,
dall'esito delle elezioni regionali amministrative.
Si arrivò così al
voto anticipato, fissato al 20 giugno 1976 senza che nessuna delle principali
forze politiche delineasse un'alternativa al quadro fissato, da un lato dal
"compromesso storico" e dall'altro delle necessità di far fronte
attorno alla DC come "diga anticomunista" (una posizione questa
emblematizzata dalla frase di un intellettuale inorganico come Indro Montanelli
che, dalle colonne del "Giornale" proclamò: "Turatevi il naso e
votate DC").
Il risultato di
quella tornata elettorale rappresentò il massimo dell'estensione del sistema
dei partiti nella storia repubblicana e l'esaltazione dello schema del
"bipolarismo imperfetto" coniato a suo tempo da Giorgio Galli.
Rileggere i dati, a
distanza di tanti anni e nella situazione attuale, fa ancora impressione: la
partecipazione al voto raggiunse il 93,39%, su di un totale di 36.707.578 voti
validi la DC ne totalizzò 14.209.519 e il PCI 12.614.650 per un totale di
26.824.159 (con una percentuale del 66,35% sul totale degli aventi diritto che
assommava a 40.426.658 unità e del 73,07% sul totale dei voti validi). Il PSI si fermò a 3.540. 309 mentre i partiti laici
risultarono prosciugati dall'appello montanelliano (2.700.000 voti circa tra
PSDI, PRI, PLI con quest'ultimo ridotto ai limiti del quorum). Unico segnale in
controtendenza rispetto al blocco della situazione il superamento della soglia
minima per la presenza in Parlamento del cartello di Democrazia Proletaria
(comprendente i principali gruppi residui della ventata sessantottesca e del
dissenso comunista: Pdup, AO, MLS, Lotta Continua) e del Partito Radicale
arrivato per un soffio alla meta dei 4 seggi. Nelle
settimane successive il dibattito risultò soffocato dalla prospettiva
dell'incontro tra DC e PCI. A differenza del 1975 non si raccolsero segnali
d'alternativa, anzi dall'area laico - socialista partì in allora un movimento
verso quel terzaforzismo che alla fine sarebbe sfociato nel pentapartito: fu
allora che il sistema dei partiti a integrazione di massa cominciò ad
incrinarsi mentre l'idea del "governo della sinistra" presentata (con
forti differenziazioni interne) dal Pdup all'interno del cartello di DP risultò
elaborata in misura del tutto insufficiente. L'esito di quella stagione fu un
monocolore democristiano guidato da Andreotti con alle spalle l'ombra pesante
della massoneria segreta e con l'astensione di tutti gli altri partiti, tranne
il MSI (che aveva mantenuto una quota superiore ai 2 milioni di voti e che
sarebbe stato poi sottoposto a una duplice pressione: golpista e stragista da
destra e andreottiana per un ingresso nell'area di governo che avrebbe poi
provocato l'effimera scissione di Democrazia Nazionale), DP e PR.
Ben prima del
rapimento e dell'uccisione di Moro il "compromesso storico" era stato
così declinato in una forma spuria di "solidarietà nazionale" al di
là della quale non si intravedeva alcuna ipotesi alternativa: si inaugurò la
politica economica dei "due tempi" adottata dal sindacato con la
cosiddetta "Linea dell'EUR" e anche verso il fermento portato avanti
dagli Enti Locali il governo rispose con un decreto di austerità firmato dal
ministro Stammati (iscritto alla P2). Sicuramente
furono realizzati alcuni importanti punti di riforma: equo canone, servizio
sanitario nazionale, legge 285 sulla disoccupazione, la legge 194 sull'aborto
che registrò il formarsi di una maggioranza di sinistra e laica convergendo
PSI, PLI, PSDI, PCI, PRI, PR e Pdup ma si trattò di un episodio isolato, pur
molto importante senza che si prefigurasse una possibile ipotesi di governo
alternativo. È nota a tutti la situazione che
si verificò al momento del rapimento Moro, avvenuto in un momento di
particolare irrigidimento della situazione internazionale: il PCI e il PSI si
apprestavano a entrare nella maggioranza che sosteneva il monocolore Andreotti
superando il quadro delle "astensioni" ma la DC aveva già replicato
conservando intatto il quadro dei ministri in carica senza fornire alcun
segnale di apertura; al momento della strage di via Fani il PCI stava per
dichiarare il proprio distacco dalla maggioranza ma il precipitare della
situazione costrinse i dirigenti comunisti e quelli socialisti a votare la
fiducia.
Il sistema imperniato
sui grandi partiti di massa si era però già incrinato al di là dell'esito
drammatico dei 55 giorni che seguirono, nel corso dei quali si determinò una
"faglia" politica di grande importanza per gli anni a venire: quella
tra "fermezza" e "trattativa" attraverso la quale il nuovo
segretario del PSI Craxi introdusse una dinamica sistemica affatto diversa da
quella precedente. A ricostruire un
disegno di equilibrio non servì neppure l'elezione di Pertini, principale
riferimento morale del "partito della fermezza", a Presidente della
Repubblica. Concludo con alcune cifre che
dimostrarono subito che quella crisi verticale era iniziata e procedeva
spedita.
L'11 giugno 1978 si
svolsero due referendum abrogativi, promossi dal PR, riguardanti le leggi speciali
di ordine pubblico varate a suo tempo dal ministro repubblicano della giustizia
Oronzo Reale e la legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvata nel
1974 per fronteggiare lo scandalo dei petroli scoperto dai "pretori
d'assalto" di Genova (Sansa, Almerighi, Brusco) e voluta soprattutto dal
segretario repubblicano La Malfa.
Per entrambi i
quesiti la stragrande maggioranza delle forze politiche aveva chiesto a
elettrici ed elettori di votare No allo scopo di mantenere inalterato il quadro
legislativo esistente. Prima di tutto si
registrò un forte calo nell'afflusso alle urne: andarono al voto poco meno di
33.500.000 unità, con una flessione di circa 7.000.000 di elettrici ed elettori
rispetto al 20 giugno 1976 con una percentuale complessiva dell'81,19%. Si
tenga conto che nell'occasione del referendum sul divorzio del 1974 la
percentuale dei votanti era stata dell'87,72%. In
secondo luogo si registrò una fortissima disaffezione rispetto all'indicazione
del voto data dai maggiori partiti. Nel computo
dei voti riguardanti il referendum sulle leggi di ordine pubblico ben 7.400.619
votanti si pronunciarono per l'abrogazione della legge mentre soltanto il
cartello di DP e il PR si erano pronunciati in quella direzione (cioè più o
meno 1.000.000 di voti raccolti il 20 giugno 1976). Ancor più netto il presentarsi di una vasta area contraria
al finanziamento pubblico per il quale era favorevole l'intera area della
maggioranza salvo il PLI: la legge si salvò a stento perché ben 13,691.900
elettrici ed elettori si pronunciarono per la sua abolizione.
Segnali di crisi del
sistema si erano già avuti nel corso di alcune tornate amministrative svolte
tra il 1977 e il 1978 (celebre quella di Castellamare di Stabia: l'esito di
quelle elezioni amministrative determinò il coniarsi del termine giornalistico
"sindrome di Castellamare" per indicare, con preciso riferimento al
PCI, l'espandersi nel partito di una quasi rassegnata convinzione negativa
circa l'esito elettorale della fase di solidarietà nazionale: nel caso, infatti,
sembrava essersi davvero esaurita una "spinta propulsiva").
Si era avviata così
la fase del disincanto che presto si sarebbe trasformata in
"antipolitica" nel corso della cui fase di espansione si svilupparono
via via i fenomeni della personalizzazione, della crescita esponenziale della
volatilità elettorale, della perdita di peso del voto di appartenenza, della
crisi dei partiti a integrazione di massa trasformati dapprima in "partiti
pigliatutto" poi in partiti "azienda" o "personali"
fino all'approdo alla democrazia recitativa all'interno delle cui coordinate ci
stiamo trovando in una fase di superamento del concetto di rappresentanza
politica e di costante slittamento del potere istituzionale dal Parlamento
(inopinatamente ridotto anche nel numero dei suoi componenti) all'esecutivo e
al condizionamento del peso delle lobbies mentre si è radicalmente modificato
il fenomeno della cessione di sovranità dello "Stato - Nazione". Al frantumarsi della società in isole corporative e
nell'egemonia assunta dal fenomeno dell'individualismo competitivo i nuovi
partiti usciti dallo scioglimento delle vecchie soggettività politiche hanno
risposto con un adeguamento di tipo populista esaltando operazioni pericolose
per la democrazia come quelle rappresentate dalla riforma costituzionale per
fortuna bocciata dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016 e quelle delle vere e
proprie "avventure dell'effimero" rappresentate dalla meteore M5S e
Lega nella versione Salvini . Il fenomeno del
populismo senza principi ha attraversato e sta ancora attraversando l'intero
arco istituzionale causando danni all'apparenza irreversibili. Naturalmente al formarsi di questo stato di cose hanno
concorso una molteplicità di fattori che in questa sede l'economia del discorso
non ci consente di analizzare in profondità e che, comunque, sono stati e sono
oggetto di studi approfonditi espressi in una quantità di pubblicazioni cui si
può utilmente rimandare.
Lo scopo di questa
nota era soltanto quella di ricordare la ricorrenza ciclica di quei mesi di
giugno: quello del 1975, del 1976 e anche quello del 1978.
Un arco di tempo in
cui si consumò la storia dell'egemonia dei grandi partiti di massa che in
Italia aveva avviato il suo percorso con la fase post-resistenziale (durante la
quale era stata stritolata, con la sconfitta del Partito d'Azione, l'idea di
una forma politica "d'opinione" che avrebbe potuto essere espressa da
quella che poi sarebbe stata definita "borghesia riflessiva" e che in
quel momento fu risucchiata a destra dalla retorica anticomunista) e l'esito
delle elezioni per l'Assemblea costituente del 2 giugno 1946, quando i tre
grandi partiti (DC, PSIUP, PCI) avevano raggiunto oltre il 70% dei voti validi,
mentre la partecipazione aveva sfiorato il 90% (89,08%) dimostrando un fortissimo
radicamento sociale che poi il PCI avrebbe condotto a suo vantaggio nel
riequilibrio tra i due partiti PCI e PSI
verificatosi con la formazione del Fronte Popolare sconfitto dalla DC il 18
aprile 1948.
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