UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 30 giugno 2025

SPIGOLATURE
di Angelo Gaccione


Boris Vian
 
Il disertore.
 
Sono passati 71 anni dal quel 27 maggio del 1954 in cui il cantante francese Marcel Mouloudji eseguì, messo in musica, il testo poetico che Boris Vian aveva composto in quello stesso anno. La Francia era in guerra con l’Indocina ed il poeta aveva scritto una poesia di forte impatto dal titolo Le déserteur (Il disertore), destinata a diventare una celeberrima e orecchiabile ballata famosa in mezzo mondo. Dopo quella prima esecuzione toccò allo stesso autore, e poi vennero interpreti del calibro di Serge Reggiani, Richar Anthony, Johnny Hallyday, Claude Vinci, Dan Bigras, Leni Escudero, Dédé Fortin, e via via fino a Joan Baez che l’adoperò durante le marce pacifiste, e a tanti altri che la tradussero e l’adattarono alle loro esigenze vocali. In Italia è stata ripresa per la prima volta da Margot in lingua originale; erano gli anni di Cantacronache (1958/1960). Successivamente venne tradotta dal cantautore genovese Luigi Tenco che gli cambiò il titolo in Padroni della terra


Giorgio Calabrese

La versione approntata da Giorgio Calabrese, con delle modifiche al testo, ha ancor più esaltato lo spirito profondo del messaggio in chiave antimilitarista. A dimostrazione della sua grande fortuna, la quantità davvero numerosa degli interpreti italiani. Ornella Vanoni la incide nel 1971, Reggiani l’anno seguente, Ivano Fossati nel 1992, i Marmaja nel 2022, i Folkabbestia nel 2006, Zibba e Almalibre nel 2013. Nel 2018 Antonella Ruggiero la inserisce nell’album Quando facevo la cantante, e Luca Barbarossa la canta in piazza San Giovanni a Roma nel concertone del Primo Maggio nel 2022. Ma l’hanno eseguita anche Ricky Gianco, Alberto Patrucco, Moni Ovadia, Roberto Vecchioni, Giorgio Conte, Pan Brumisti, Juan Carlos “Flaco” Biondini, Skiantos, Gerardo Balestrieri, Luis Eduardo Aute, Paolo Simoni, Milva, Têtes de Bois, Luca Bonaffini, Massimo Ranieri, Peppe Voltarelli, Joan Isaac, Francesco Baccini, Max Manfredi, e Giovanni Block. Notevole la versione di Fiorella Mannoia accompagnata al pianoforte e particolari quelle realizzate in dialetto piemontese, ligure e in lingua occitana.
 
 
Le tragiche vicende internazionali, con i numerosi conflitti in pieno svolgimento, hanno ridato a questo testo poetico nuova vita e nuovo vigore, e non è raro ascoltarla nelle piazze, nei cortei e nei circoli in cui si discute di pace e di rifiuto della violenza. Negli ultimi tempi la voce e la chitarra del cantautore Renato Franchi sono tornate ad emozionarmi, perché ogni volta che la sento non posso fare a meno di meditarla a fondo. In questa, di cui riporto il link, Renato Franchi la canta accompagnato dalla The Kanzonaccio Band.
https://www.youtube.com/watch?v=QppWUABPECQ


The Kanzonaccio Band 

Il disertore è un testo poetico composto da dodici strofe sotto forma di lettera inviata a Monsieur le Président da parte di un uomo che, avendo ricevuto la chiamata alle armi, rifiuta di arruolarsi perché vuole vivere in pace con la sua famiglia senza uccidere ed essere ucciso. Le ultime due quartine sono un vero pugno allo stomaco ed il testo venne più volte censurato. Eccole nella mia traduzione: “Se bisogna donare il proprio sangue/andate a dare il vostro/voi siete un buon apostolo/Signor Presidente/Se mi perseguirete/avvertite i vostri gendarmi/che io non avrò armi/e che potranno spararmi. Diffusa in una molteplicità di lingue è diventata la poesia-ballata simbolo del pacifismo e della nonviolenza internazionale. 


 

La versione italiana di Giorgio Calabrese
Il disertore
 
In piena facoltà
egregio presidente
le scrivo la presente
che spero leggerà.
 
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest’altro lunedì.
 
Ma io non sono qui
egregio presidente
per ammazzar la gente
più o meno come me.
 
Io non ce l’ho con lei
sia detto per inciso
ma sento che ho deciso
e che diserterò.
 
Ho avuto solo guai
da quando sono nato
i figli che ho allevato
han pianto insieme a me.
 
Mia mamma e mio papà
ormai son sotto terra
e a loro della guerra
non gliene fregherà.
 
Quand’ero in prigionia
qualcuno mi ha rubato
mia moglie e il mio passato
la mia migliore età.
 
Domani mi alzerò
e chiuderò la porta
sulla stagione morta
e mi incamminerò.
 
Vivrò di carità
sulle strade di Spagna
di Francia e di Bretagna
e a tutti griderò.
 
Di non partire più
e di non obbedire
per andare a morire
per non importa chi.
 
Per cui se servirà
del sangue ad ogni costo
andate a dare il vostro
se vi divertirà.
 
E dica pure ai suoi
se vengono a cercarmi
che possono spararmi
io armi non ne ho.


 

 
Le déserteur
di Boris Vian
 
1
Monsieur le Président
je vous fais une lettre
que vous lirez peut-être
si vous avez le temps.
 
2
Je viens de recevoir
mes papiers militaires
pour partir à la guerre
avant mercredi soir.
 
3
Monsieur le Président
je ne veux pas la faire
je ne suis pas sur terre
pour tuer des pauvres gens.
 
4
C’est pas pour vous fâcher
il faut que je vous dise
ma décision est prise
je m’en vais déserter.
 

Depuis que je suis né
j’ai vu mourir mon père
j’ai vu partir mes frères
et pleurer mes enfants.
 
6
Ma mère a tant souffert
elle est dedans sa tombe
et se moque des bombes
et se moque des vers.
 
7
Quand j’étais prisonnier
on m’a volé ma femme
on m’a volé mon âme
et tout mon cher passé.
 
8
Demain de bon matin
je fermerai ma porte
au nez des années mortes
j’irai sur les chemins.
 
9
Je mendierai ma vie
sur les routes de France
de Bretagne en Provence
et je dirai aux gens:
 
10
Refusez d’obéir
refusez de la faire
n’allez pas à la guerre
refusez de partir.
 
11
S’il faut donner son sang
allez donner le vôtre
vous êtes bon apôtre
Monsieur le Président.
 
12
Si vous me poursuivez
prévenez vos gendarmes
que je n’aurai pas d’armes
et qu’ils pourront tirer.

  

TUTTI I DUBBI DEL DECRETO SICUREZZA  
di Guido Salvini


 
Il Decreto legge cd Sicurezza, convertito in legge il 4 giugno, non è nato affatto bene perché è frutto di una approvazione accelerata e contratta volta a “saltare” le critiche in merito al suo contenuto essenzialmente repressivo con l’introduzione di nuovi reati e l’aumento di molte pene visti come unica soluzione. Quell’insieme di norme, infatti, invece di rimanere nell’alveo di un disegno di legge che permette una ampia discussione in Parlamento, che era già iniziata, sono state trasformate in un Decreto-legge adottato dal Governo che per sua natura è immediatamente operativo ed è passibile solo di qualche ritocco al momento della sua conversione in aula. C’è stato quindi uno svilimento del ruolo del Parlamento. Il Massimario della Cassazione, forse proprio per questa ragione e cioè il modo affrettato con cui sono state redatte le numerose nuove norme, ha preparato una relazione in cui, oltre a sottolineare come mancassero requisiti della necessità ed urgenza per procedere con un Decreto-legge, sono esposte le criticità e contraddittorietà di molti articoli e il loro possibile passaggio al vaglio della Corte costituzionale.
Per non peccare di atteggiamento critico a tutti i costi vi sono nel Decreto da segnalare che alcune innovazioni certamente condivisibili. Ad esempio in tema di occupazione abusiva di alloggi, al di là dell’eccessivo aumento delle pene per questo reato, è giustamente prevista la reintegrazione immediata del possesso dell’immobile per chi ne sia stato spogliato, soprattutto quando era l’unica abitazione effettiva, con una procedura rapida che prevede l’intervento del Pubblico Ministero e del giudice. Sono anche certamente condivisibili gli interventi previsti a sostegno delle vittime di usura, in particolare nella procedura per concedere mutui agevolati in favore di chi sia stato rovinato da tale reato. E così gli interventi penali volti a fronteggiare, anche con la possibilità dell’arresto in flagranza, il fenomeno delle truffe in danno degli anziani.
Altre modifiche invece appaiono inutilmente repressive. Ad esempio per l’impedimento alla circolazione su strada ordinaria o ferrata, e cioè il cosiddetto blocco stradale, non è più prevista una semplice sanzione amministrativa ma una sanzione penale sino a 2 anni di reclusione anche se il reato rimane del tutto indefinita per cui può scattare anche a seguito dell’occupazione di una strada per brevi momenti, soprattutto in occasione di manifestazioni sindacali o comunque di protesta e con il rischio quindi di entrare in contrasto con la libertà di manifestazione. È introdotta poi la punibilità, con pene severe, anche della semplice resistenza passiva senza violenza in occasione di proteste in carcere, con il rischio di sanzionare anche il semplice rifiuto del cibo o di partecipare all’ora d’aria. Nel contempo non è affrontato in alcun modo il problema della vivibilità nel sistema carcerario. Negli ultimi 6 anni sono 23.500 i detenuti che lo Stato ha dovuto indennizzare per le condizioni inumane della vita in carcere in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.



Nel Decreto vi è anche un restringimento del trattamento in favore delle madri che dovrebbero essere detenute in carcere in esecuzione di una pena. Ora diventa solo facoltativo e non più obbligatorio non applicare ladetenzione carceraria per le madri che hanno un figlio di età inferiore a un anno, anche se la pena dovrà essere scontata in un ICAM, cioè in un Istituto di custodia in forma attenuata per le madri con figli minori, certamente più vivibile. Per le madri con figli inferiore ai tre anni la detenzione in un ICAM, invece di un carcere normale, diventa però solo facoltativa. Sul piano umanitario e dell’attenzione verso i diritti dei minori queste restrizioni danno luogo a molti dubbi soprattutto perché non si accompagnano ad un impegno ad allestire nuovi ICAM, indispensabili quando vi siano bambini in tenera età. Attualmente ce ne sono solo quattro in tutta Italia.
Anche il divieto di vendita della cd Cannabis light, e cioè le infiorescenze della pianta, appare eccessivo in mancanza di evidenze scientifiche in merito ad una loro pericolosità data la bassissima percentuale di THC, cioè la sostanza a effetto psicotropo, che contengono. Del resto in molti altri Paesi europei il divieto non esiste e quei prodotti sono in libera vendita.
Un discorso a parte meritano le modifiche in tema di “garanzie funzionali” degli appartenenti ai Servizi di sicurezza cioè, in estrema sintesi, i reati di cui essi possono essere formalmente responsabili nell’ambito della loro attività di raccolta di informazioni e di infiltrazione ma per i quali non sono punibili appunto perché avvenuti nel corso di operazioni autorizzate dalla Presidenza del Consiglio o dagli organismi di cui gli agenti fanno parte.
È una possibilità già prevista dalla legge sulla riforma dei Servizi di sicurezza del 2007 ma il Decreto ha ampliato l’elenco dei reati per i quali l’infiltrazione è possibile aggiungendo l’organizzazione di associazioni eversive interne o internazionali e la detenzione di esplosivi o di manuali per il loro uso o altro materiale eversivo anche informatico, pensato quest’ultimo soprattutto per il terrorismo internazionale. Si è detto che in questo modo vi sarebbe la “legalizzazione del terrorismo di Stato”.




Non è esattamente così. La norma, l’art. 31 del Decreto, è scritta in modo pessimo ma comunque non autorizza alcun agente dei Servizi a “creare” alcuna organizzazione terroristica ma semplicemente a infiltrarsi, anche sino ai vertici, di una organizzazione che già esiste. Finti organizzatori dunque e si è quindi sempre nel campo della simulazione come tale non punibile. Anche la detenzione di esplosivi o di manuali che insegnano il loro uso non significa certo che essi possano essere utilizzati ma serviranno solo per rendersi credibili dinanzi soggetti con cui si entra in contatto nell’ambito della raccolta di informazioni. In realtà queste operazioni non sono una novità nel settore dell’intelligence. Negli Stati Uniti e in Sudamerica infatti vi sono sempre stati agenti sotto copertura, uno era il famoso italo-americano Frank Serpico, che si infiltrano sino ai vertici delle organizzazioni dei narcotrafficanti e agli incontri ove sono decisi i traffici a livello internazionale perché non avrebbe senso spendere uomini ed energie solo per infiltrarsi tra gli spacciatori di strada. Certo il crinale è stretto. Infatti lo scopo è quello di acquisire informazioni su quello che sta accadendo, non contribuire a provocarlo. E il limite è molto sottile. Ad esempio anche la semplice presenza ad una riunione di vertice di una organizzazione in cui l’agente sotto copertura finge di essere d’accordo può rafforzare o essere determinante per la decisione del gruppo di commettere un’operazione criminale. E questo non deve accadere. In questi casi sarà spesso necessario sventare subito l’evento criminale avvisando la Polizia giudiziaria e la magistratura, anche a costo di rischiare che così l’informatore sia “bruciato” e quindi non più utilizzabile.



Non credo comunque che nemmeno con l’introduzione delle nuove norme, si rischi di tornare ai “Servizi deviati” di un tempo. Tuttavia dovrebbero essere previsti maggiori attenzioni che le modifiche ampliative rendono più che mai necessarie. Per questo vi era stata, in particolare da parte dei partiti di opposizione, la proposta, resa di fatto inattuabile dallo strumento del Decreto-legge, di prevedere per ogni singola operazione un controllo quantomeno a posteriori del Parlamento e del suo organo di vigilanza sull’attività dei Servizi, il COPASIR che è presieduto per legge da un rappresentante dell’opposizione. Un controllo che attualmente non è previsto.
Ricordando sempre che ogni attività “coperta”, anche utile per il Paese, incontra sempre precisi limiti e cioè, come spiega la stessa legge istitutiva dei Servizi di informazione, che chi agisce, autorizzato per fini istituzionali può “formalmente” commettere reati purché non metta in pericolo la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, la salute o l’incolumità delle persone.
E questi limiti devono restare invalicabili e il loro rispetto deve sempre essere sottoposto alle più attente verifiche a tutela delle istituzioni democratiche e dei cittadini.

CUPIO DISSOVI
di Luigi Mazzella


 
Individuale o collettivo.
 
 
I religiosi ritengono la fede e tutti i suoi connessi corollari “doni divini”. 
Quei laici che nutrono per i credenti la stessa diffidenza che i Troiani avevano per i Greci, temono i preti anche per i doni che portano (Timeo Danaos et dona ferentes. Virgilio, Eneide). Tra i doni possibili dell’Ecclesia deveritenersi compreso anche il cupio dissolvi che ha l’aria di essere un’espressione latina ma che, in realtà, nasce nel contesto religioso cristiano; più precisamente ha la sua origine nella prima lettera ai Filippesi di San Paolo. Il cupio dissolvi   esprime il desiderio di abbandonare la vita terrena per unirsi a Cristo. Di norma, l’uso dell’espressione è più frequente nell’ambito individuale, dove se ne registra una versione romantica imperniata sullo spleen messo in versi da Charles Baudelaire; ma il desiderio come anelito (ovviamente inconscio e senza essere espresso a chiare lettere) alla distruzione dell’ordine esistente in cui si vive può manifestarsi anche in un contesto collettivo e sociale. Di esso, ben distinto dall'anarchia,  doveva avere tenuto conto, probabilmente, Oswald Spengler quando aveva scritto della tendenza degli abitanti della parte Ovest del Pianeta alla distruzione della propria cosiddetta “civiltà democratica”.
Come per ogni processo, per così dire “in itinere”, sia sul piano individuale sia su quello collettivo, il soggetto agente (individuo o massa che sia) crea steps necessari, premesse condizionanti ed elementi che rafforzino il suo intento auto-distruttivo. 



Nel cupio dissolvi collettivo, un ruolo deleterio di grande e importante rilievo svolge la progressiva e incalzante incultura (e quindi inadeguatezza al ruolo) della classe politica di governo o altrimenti dirigenziale. In Occidente il degrado cognitivo dei vertici dei Paesi è particolarmente favorito dalla presenza maggioritaria di gente che “crede” in ciò che le viene insegnato con accenti propagandistici rispetto a ciò che “potrebbe pensare” se facesse ricorso al proprio raziocinio. Scuole concesse in gestione a preti e a speculatori (credenti ma con il pelo sullo stomaco in quanto proprietari di “diplomifici” a pagamento) completano il quadro per giungere a un inevitabile scadimento culturale. Inoltre, una vera e propria cultura non conformistica e laica dei vertici dirigenziali e di governo è impedita dalla incombenza, sul piano giudiziario, di “avvisi di garanzia” più precisi di missili e droni telecomandati nel colpire leader politici capaci che possano sbarrare il passo a quelli che Franco Continolo nel suo blog definisce i “super idioti”. La ciliegina sulla torta dell’incultura politica è data da leggi elettorali truffaldine che consentono di governare a minoranze (rissose ma interessate ai vantaggi di entrare nella stanza dei bottoni) che se infischiano del Paese vero (che non ha altra strada che astenersi). Sul terreno della concretezza e dell’attualità, gli eventi Occidentali più recenti hanno dimostrato nel senso più pieno quanto appena detto, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America che, eleggendo Donald Trump (nonostante le difficili caratteristiche del personaggio) hanno inteso sottrarsi al “cupio dissolvi” della collettività Occidentale, scaricandolo solo sugli Europei. I “super beoti” (di Francia, Germania, Inghilterra, Italia in prima linea) si sono dimostrati, grazie alla loro stupida insipienza leader pronti ad addossarsi il fardello loro imposto dal neo eletto Presidente Americano. Molto mal messi, stanchi e spossati fino al punto di articolare male frasi spesso inaspettatamente tronche e più del consueto prive di senso comune, quei “tromboni male accordati”, con le loro azioni politiche sono stati tutti, senza eccezioni, della medesima irresponsabilità per la sconsiderata politica. Meloni, Macron, Starmer, Metz, dopo avere violato (mentre la invocavano) una legge NATO che dimostravano di non conoscere, si sono cacciati in una guerra che da cobelligeranti (non avendo essi seguito l’esempio di Trump) dovranno sostenere a proprie spese, aiutando l’industria delle armi, per massima parte statunitense, a non subire perdite per la “resa” e l’uscita dal gruppo dei Nord-americani. Il fatto più grave è stato che né in Italia né negli altri Paesi Europei ci si poteva aspettare altro dagli uomini politici di diverso orientamento (In Italia la scalmanata e rissosa Elly Schlein, il velenoso e acido Calenda, l’ineffabile e inaffidabile Renzi non dicevano cose diverse, avendo la stessa macroscopica e madornale ignoranza delle norme NATO).
 

 


Post-scriptum: È anche probabile che Ursula Von der Leyen e Donald Trump (per ipotizzabili, sotterranei  accordi intervenuti con il Partito Democratico Transnazionale sconfitto degli Obama & Co.) abbiano puntato, a bocce ferme dopo lo scontro elettorale statunitense allo stesso obiettivo: lasciare un’Europa nuovamente armata di tutto punto, libera di riprendere i suoi plurisecolari scontri bellici dovuti all’uguale litigiosità di tedeschi, inglesi e francesi; affrancata dalla sua dipendenza (molto pesante per il Nord America) sia sul piano militare (a causa della NATO, che presto sarà, verosimilmente solo Europea e senza Stati Uniti) sia su quello economico (vedi politica dei dazi). Sarà ovviamente una Unione Europea: per Trump utilmente impoverita e per la Commissaria Europea nuovamente egemonizzata dalla Germania. La vittoria di entrambi, raggiunta con l’aumento delle spese militari nei Paesi Europei al 5% (percentuale distruttiva di ogni residuo di Stato sociale) potrebbe significare un clamoroso abbaglio per Giorgia Meloni, che si riprometteva di costruire un ponte che era già in piedi e fattivamente percorso.

domenica 29 giugno 2025

MUSICA
di Gabriele Scaramuzza


 
Nabucco all’Arena di Verona
 
La stagione lirica estiva è stata inaugurata con Nabucco di Verdi, opera peraltro di casa all’Arena di Verona. Mi riferisco trasmissione su Rai3 del 21 giugno, Festa Europea della Musica 2025. Tra i presenti si notavano, oltre al ministro Giuli, Angela Merkel. Ha da subito colpito il palese nazionalismo della rappresentazione: Fratelli d’Italia, inno nazionale mediocre nella musica e nelle parole, ha aperto lo spettacolo; sul proscenio c’erano tre gruppi di coristi, ognuno contrassegnato da un colore diverso: bianco, rosse e verde. Nessun cenno all’Inno europeo, di ben altra statura musicale e culturale. Quasi in gioco fossero solo gli italiani.   
Ora, Nabucco: è rappresentato per la prima volta alla Scala nel 1842. Come mi conferma Anna Foa, in quegli anni “l’emancipazione degli ebrei era in agenda”, un tema importante per tutti, contrastata dalla Chiesa. Non si può farne un’opera in cui gli ebrei sono visti solo come pallide controfigure di eroi risorgimentali o peggio, quasi il loro ebraismo fosse solo un pretesto, una pennellata di colore, in una storia al cui centro sta solo il popolo italiano. Che Verdi avesse simpatie rinascimentali, che fosse anticlericale, si sa; ma non è per nulla tutto lì. Entrambe le cose insieme dovettero portarlo a simpatizzare per l’emancipazione degli ebrei. Che in ogni caso in Nabucco sono presenti in quanto tali, anche se si tratta di ebrei di un’epoca lontana.  



Che gli ebrei nel Nabucco, mi scrive Emilio Sala, siano rappresentanti di una “patria perduta”, da essa esiliati, non risolve il problema del loro “statuto”. L’associazione “risorgimentale” con il popolo “senza patria” risolve solo metà del problema. Conclude Fabrizio Della Seta: “Quanto a Nabucco, non credo che l'alternativa sia Ebrei/Italiani del Risorgimento, e comunque una interpretazione non esclude l'altra. Penso che ciò che appassionava Verdi fosse il tema dell'oppressione e della libertà, comunque si ponesse”; “è innegabile che Verdi abbia sentito e reso il soggetto con una partecipazione non scontata, quali che fossero le sue motivazioni, che d'altronde non sono necessariamente esclusive; la causa nazionale e la questione ebraica sono strettamente collegate.



Nabucco ha da sempre profonde radici in me. I cori, gli accenti di taluni protagonisti, momenti quali - ahimè, pochi me lo perdoneranno - la marcia funebre di Fenena, di sapore bandistico (ripresa se ben ricordo anche da Testori), l’ampio respiro musicale del dramma, lo fanno emblema di una profonda liberazione. La sua conclusione ne fa un inno a profondi valori ebraico-cristiani oggi calpestati, sovvertiti con disprezzo (anche in ambienti ebraici) - assieme ai valori greco-romani che danno fondamento etico ed esistenziale alla nostra civiltà.
All’Arena la regia, le scene, i costumi, alcuni momenti musicali (senza nulla togliere alla dignità di taluni interpreti) mi risultano incomprensibili, “brutti” francamente; e tali da cooperare alla insensata distruzione di un mondo culturale, non certo alla valorizzazione dell’opera. Poche cose più indisponenti dell’intento di “rinnovare” le opere con regie attualizzanti, quasi non avessero in sé una loro sostanza musicale e culturale sufficiente a tenerle in vita.     
Certo, c’è guerra, l’aggressione iniziale di Nabucco, l’aggressività di Abigaille, il lamento cui segue l’ansia di un riscatto non affidato alle armi, ma al ritorno a profondi valori ebraico-cristiani. Ma nessun accento bellicista.


 
P. S. La recente Norma alla Scala conferma la pervasività della mania di risorgimentalizzare e nazionalizzare tutto: ai romani dell’originale sono sostituiti gli austriaci del Risorgimento, non manca un tricolore che avvolge la salma di un patriota sacrificatosi per la patria…. La scena è progettata intorno a prospettive della Scala. Le parole del libretto, le indicazioni sceniche, la musica stessa, restano ovviamente quello che sono, non si comprende come possano prestarsi a una simile trasposizione di tempi e luoghi. Certo la musica si salva grazie a Fabio Luisi, taluni cantanti sono all’altezza del loro compito. Ma l’insieme resta nella mia ottica astruso.



 
 
Temistocle Solera - Giuseppe Verdi
Nabucco
allestimento dell’Arena di Verona 2025
regia di Stefano Poda
direttore d’orchestra Pinches Steinberg
tra i molti interpreti che si alternano
Amartushin Enkhbat, Luca Salsi, Francesco Meli
Anna Pirozzi, Anna Netrebko, Maria José Siri.

  

LETTERE DAL SUD
Confronti



 
Caro Direttore,
sono mossa da un certo sentimento di rammarico rispetto alle vicende che quotidianamente investono le vite di giovani ragazzi e ragazze adolescenti in preda a gesti estremi verso sé stessi e verso persone care, forse perché io stessa mi ritrovo nel ruolo di genitrice, per cui sento tutto il peso della responsabilità nel fornire ai miei figli gli strumenti possibili per vivere in modo rispettoso e dignitoso nella nostra attuale e difficile epoca, improntata sulla virtualità e digitalizzazione. A volte, credimi, si ha la sensazione di percorrere strade tortuose e piene di insidie e per questo faticose. Mi chiedo, pertanto, in che modo, attualmente, le istituzioni, in primis la famiglia e la scuola, possano essere efficaci per i nostri giovani, pragmaticamente parlando, sul piano educativo-pedagogico. Alla ricerca di spiegazioni plausibili e razionali alle mie perplessità ho voluto fortemente assistere, la scorsa settimana, al Festival culturale di Conversazioni dal Mare che annualmente si tiene a cielo aperto nello splendente gioello adriatico della città pugliese di Giovinazzo, avendo appreso che fra gli ospiti di eccezione dell’edizione 2025, avrei potuto ascoltare il dibattito sul “Bene e il Male: educare i giovani”, condotto dal professor Galimberti. Un’ora pura di filosofia, psicologia e antropologia, per me appassionata e studiosa di questi ambiti, mista ai profumi di salsedine, di cui la brezza marina ci inondava, non sono, tuttavia, riusciti a placare quel senso di disagio che ho avvertito quando il professore ha riportato un dato davvero inquietante in merito alla stima dei suicidi adolescenziali: 400 la media raggiunta quest’anno. Quale allora l’origine del dolore esistenziale delle nuove generazioni, tale da indurli all’autoeliminazione, a cui si aggiungono comportamenti omicidi attuati nei confronti di giovanissime ragazze e ragazzi coetanei e non solo? E perché sempre più si avverte una degenerazione del rapporto, un tempo fondato sul rispetto e sulla fiducia, fra studenti e docenti? Galimberti tenta di fornire spiegazioni al pubblico, individuando, nella mancanza di risposte e di obiettivi, a danno della crescita psico-emotiva delle giovani generazioni, la possibile motivazione a tale angoscia adolescenziale. Che l’assuefazione alla virtualità nell’era digitale abbia raggiunto livelli alti di criticità è fuor di dubbio, in concomitanza, la “panta-mercificazione”, per usare un neologismo, in nome del consumismo e della tecnica, hanno conferito una impronta materialistica alle questioni della sfera spirituale, col risultato di un appiattimento emotivo mai riscontrato precedentemente e che rievoca il pensiero unidimensionale, formulato negli anni sessanta dal filosofo Marcuse nel suo libro L’uomo a una dimensione. Il professore attinge dalla lingua tedesca il verbo “fühlen/sentire interiormente-percepire”, per ammonirci, genitori e docenti, del nostro essere corresponsabili della crescita e dello sviluppo psico-emotivo dei giovani. Sarà, dunque, la risonanza emotiva nella gestione delle conflittualità relazionali delle giovani generazioni, la giusta via da intraprendere, da parte delle istituzioni familiari e scolastiche, per discernere il Bene dal Male?
Anna Rutigliano
 
 
 

Caro Direttore,
anche io ho voluto essere presente a uno degli incontri, previsti quest’anno, nel corso del Festival culturale “Conversazioni dal Mare” che, nei giorni scorsi, si è tenuto a Giovinazzo, una città già sede in passato di una importante industria siderurgica e oggi perla nel territorio della Provincia Metropolitana di Bari: incontro con lo psicologo, filosofo, saggista e antropologo, Umberto Galimberti. Tema: “Bene e male nella formazione dei giovani”. Permettimi però, innanzitutto, tu che mi conosci, fare una premessa che mi sta a cuore: ricordare, con te, il contesto in cui si è tenuto l’appuntamento con il professor Galimberti: il porticciolo della città. Vero cuore pulsante della città, là dove i pescherecci si cullano sulle onde e l’odore salmastro si mescola alle storie di tanti pescatori che, da generazioni, animano queste rive e che il tramonto nei mesi più caldi, e quindi anche in questo nostro caldo giugno, tinge di sfumature rosate le facciate alte dei grandi palazzi quando si rispecchiano da un lato e si riflettono sull’acqua, regalando uno spettacolo suggestivo e indimenticabile. Il palco, che ospita l’oratore, è quasi in riva al mare, e in una atmosfera quasi sospesa dal tempo, colpisce una lunga barca da pesca dai colori vivacissimi, posta alle sue spalle: sembra voler salpare, da un momento all’altro, e intraprendere il viaggio, per seguir virtute e canoscenza. Sì, perché il futuro ormai è un mistero, ed è fatto di parole, solo di parole, noi viviamo di parole, che sono l’anestesia del presente. Ha una specie di grido la roca voce di Galimberti, quando dice che anche le chiese sono riempite di sepolcri imbiancati. Eppure siamo chiamati a riconoscere e armarci di coraggio, per affrontare il nichilismo e la rassegnazione, e interrogarci in maniera molto precisa sul significato da attribuire al concetto di identità della persona e, per converso, alle tante identità dei nostri giovani. Con forza, il professor Galimberti afferma che è la società che crea l’identità e non l’individuo che crea la società. La società viene prima dell’individuo, e stare in società è come partecipare ad una partita di calcio, in cui ci sono delle regole e il principio base della educazione è il rispetto delle regole, quelle che ci portano a separare il bene dal male. Bene e male, potremmo anche non definirli, perché ciascuno sente naturalmente da sé che cosa è l’una e che cos’è l’altro; oggi, però, non è più vero questo, perché noi vediamo che questa distinzione tra i giovani non è più esattamente percepita come dovrebbe. Non percepire la differenza tra il corteggiare una ragazza, o stuprarla, significa che qualche cosa non ha funzionato nella educazione alla sessualità. Che cosa è accaduto in questi anni? Lo sviluppo della tecnica, quella che giustamente tu, cara Anna, chiami “assuefazione alla virtualità”, la pervasiva sollecitazione al consumismo, l’elevazione del denaro e della forza come elementi di affermazione, hanno portato alla scomparsa di quella risonanza affettiva, che “è sentire” ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è grave da ciò che non lo è”. Risonanza affettiva, che nasce dall’empatia, sentimento che abbiamo in noi appena nasciamo e che, se non coltivata e protetta dai genitori, dagli educatori, con gli anni della crescita si perde, rendendo poi estremamente possibile che i giovani non riescano più a percepire la divaricazione appunto tra ciò che è bene e ciò che è male, ponendo le basi così per una società schizofrenica (cioè scissa da freni). E c’è anche un’altra amara considerazione da fare e da non dimenticare: la società attuale, alle premesse precedenti, aggiunge lo stato di isolamento e smarrimento dei giovani, quando non dà loro il lavoro e non consente di sviluppare le grandissime potenzialità che ognuno di loro possiede. La Storia umana è stata scritta dai giovani (Leopardi, Einstein, Mozart etc.). Una società che si permette di fare a meno dei giovani è una società destinata a morire. Per questo assistiamo al tramonto dell’Occidente. Caro direttore, ben vengano altri incontri di questo immenso spessore. Auguriamocelo di cuore. 
Zaccaria Gallo
 

  

CINEMA
di Marco Sbrana
 

A proposito di Davis dei fratelli Coen - L’eterno ritorno della sconfitta.
 
Un palco. Luce di riflettore su un volto giovane e già piegato. Barba incolta, ricci capelli scombinati. Oscar Isaac, ossia Llewyin Davis, ispirato alla figura mitica del musicista folk Dave Van Ronk, canta Hang me, Oh, Hang Me col dissapore di chi, iniziando, sa già di aver finito. Dopo l’esibizione, infatti, nel retro del locale che ospita le esibizioni, Davis viene picchiato a sangue da un misterioso uomo di cui non discerniamo il volto ma solo il cappello a tesa larga che porta in testa. E ci immergiamo nella depressione funzionale di un altro freak della letteratura dei fratelli Coen.
A proposito di Davis è un film ambientato nel mondo della musica, precisamente la scena folk degli anni Sessanta newyorkesi. Lo spettro di Dylan, che vedremo, incombe; ma non è ancora il suo momento. L’eroe dei Coen è l’uomo che fallisce e che, nel fallire nuovamente, e nuovamente ogni giorno, fallisce meglio. Opera che sintetizza la poetica del perdente che attraversa Il grande Lebowski, passa per Fargo e raggiunge il bianco e nero de L’uomo che non c’era, fino al grottesco protagonista di A serious man, A proposito di Davis propone un viaggio spiraliforme nella settimana tipo del protagonista. Che un posto per dormire non ce l’ha. Dopo la primissima esibizione - e il pestaggio - lo troviamo che si cucina uova in una casa che non è la sua, e che spia, che abita da straniero, perché Davis è straniero, e lo è in ogni luogo si immetta. Il gatto degli ospiti corre fuori, sul pianerottolo, quando Davis si è chiuso la porta alle spalle. Davis dovrà tenerlo con sé, il micio.



Llewyin has the cat, dirà Davis alla segretaria del professore, amico ospite di Davis. Che, sbagliando, ripeterà Llewyin is the cat. Llewyin è il gatto senza nome che, passo felpato, si aggira nella metropoli alla ricerca di un pasto caldo e di un modo per realizzarsi. Ma la casa discografica - amministrata da un grottesco uomo che, anziché denaro, vuole pagare Llewyin con il suo cappotto - non se la passa bene; e il disco di Davis non vende. Eppure, per tutta la durata del film, Davis ripeterà, sebbene non sia vero (ma forse è vero) che la musica è ciò che fa per vivere, è ciò con cui si paga l’affitto. Pertanto, quando, ritrovato il gatto in strada, tornerà dalla coppia ospite, sbraiterà nel sentirsi chiedere di esibirsi, come se fosse un pupazzetto. Anche perché, mentre canta, la moglie ospitante esegue la parte di Mark. L’altra parte del duo. Morta suicida. Gettatasi dal Washington Bridge. Davis ha due amici: Jim e Jean, felice coppietta. Non troppo felice, forse: Davis è perdutamente innamorato di Jean, con cui ha avuto una storia e che di recente ha messo incinta. 



Oltre alla sopravvivenza, oltre alla necessità di trovare un posto caldo dove riposare, perché una casa non ce l’ha, il nostro, Davis deve anche risolvere il problema dell’aborto. Il fallimento è esistenziale, è un connotato quasi ontologico, una qualità esistentiva dell’ente, per i fratelli Coen, ossessionati da figure che si muovono a stento nel mondo, che dal mondo sono divorziati a causa della loro bizzarria, delle loro velleità, che li rendono emarginati, creature di frontiera in qualunque casa cerchino di stabilirsi. Il loser, per natura, non ha luogo dove sedere; così il nostro Davis. Indicativo è anche, nel testo dei Coen, il fatto che Davis sia un tutto tagliato a metà dal suicidio tremendo del presente-assente Mark. Dunque: il disco non vende; Jean deve abortire; le esibizioni non vanno bene; Davis non ha luogo dove dormire. E il gatto? Llewyin ha ritrovato il gatto sbagliato. Mentre prendeva un caffè con Jean, ha visto passare un sosia del felino, e l’ha preso. Ma è una femmina; il gatto fuggito, che Davis si è portato in braccio finché la bestiolina non è scappata dalla finestra di Jean, che ha ospitato Davis, ecco, il gatto fuggito è un maschio. Quello che Davis ha portato alla coppia ospite è una femmina. Where is his scroto? E si chiude così la prima parte del fallimento spiraliforme di Davis. Che, continua a dire, di musica ci vive. Anche se non è vero, anche se forse è solo una velleità che si è portato appresso dalla gioventù, a cui si è affezionato tanto da non liberarsene al momento opportuno, facendo sì che la musica diventasse interesse assorbente e condanna, roccia di Sisifo senza speranza di realizzazione. 



Sebbene Davis le tenti tutte, compreso un provino a Chicago, dove si reca in autostop, in macchina con John Goodman e il suo valletto, un poeta beat che cita a memoria Peter Orlovsky, tra eroina e sigarette che, malgrado la richiesta, a Davis non vengono offerte. E quando Davis si esibisce, così si esprime il produttore: I don’t see a lot of money here. Forse, dice il produttore, Davis dovrebbe tagliarsi la barba. Ha sempre suonato da solo? No, dice Davis, infreddolito, rattrappito, di cui sentiamo l’essenza, che è l’essenza dei cani smagriti in inverno, abbandonati sul ciglio dell’autostrada. No, dice Davis, avevo un partner. E il produttore: Ti do un consiglio. Tornate insieme.
Ironia dei Coen, che è quella di Beckett: niente di più buffo, è Beckett in Finale di partita, dell’infelicità; ma è come quella barzelletta che ci hanno raccontato tante di quelle volte che adesso non ci fa più ridere.



Altra ironia: il medico che dovrebbe far abortire Jean non fa pagare un soldo a Davis. Perché? chiede Davis. Lavora pro bono? No, è che l’ultima volta non ha fatto niente, e Davis ha pagato a vuoto. Ebbene, Davis ha anche un figlio. Ma prima ritorna dal padre, in RSA, presso cui si esibisce. Ma il padre è un corpo che secerne saliva e che, al termine della canzone Shoals of herring, libera l’intestino. E vano è il tentativo, per via di debiti accumulati, di mollare tutto e imbarcarsi.
La vita è questa? sembra chiedere Davis, con gli occhi, a un Dio silente. La vita è veramente, come diceva Céline, inchinarsi ogni giorno alla stessa muraglia? Non può essere così fallimentare qualunque cosa faccia? Sto venendo punito? Perché Dio non mi restituisce nulla in cambio del sudore che impiego affinché ciò che faccio (per vivere!) abbia un valore, in un mondo che premia solo chi è in grado di fare politica, di adulare i potenti e di produrre merce commercialmente valida e vacua artisticamente? La vita è una grande ciotola di merda, ha detto John Goodman in auto, e non ti ricordi di averne cagata così tanta, ha detto per poi sprofondare nel sonno dell’eroina.



Un’ultima esibizione prima della fine.
E il palco, dopo che Davis ha cantato, è occupato da un profilo che conosciamo tutti: quello del menestrello di Duluth, Bob Dylan.
Davis esce e, di nuovo, viene picchiato a sangue dall’uomo nell’ombra, dall’uomo nell’ombra col cappello a tesa larga. Arranca, Davis, e vede l’aggressore perdersi nel traffico. E, nell’ultima scena, si rivolge a lui e vediamo Davis fare il saluto militare e dire: Au revoir.
Composizione ad anello. Chiusura del racconto a spirale, quasi bernhardiano, che ruota su se stesso, nel quale l’inizio coincide con la fine, nel quale l’inizio dà avvio a un paesaggio identico a quello di ieri, e identico a quello di domani. Perché domani sarà uguale, ritorneranno le stesse fitte ai reni, ritorneranno le stesse botte, nell’eterno ritorno del fallire, il fallire di chi ha investito il sangue nelle sue velleità, e che adesso soffre il freddo perché di velleità non si può vivere. Ma in qualche modo, facendosi ospitare, scroccando, intrufolandosi, creando brecce di sopravvivenza laddove nessun vincitore riuscirebbe a crearle, perché troppo abituato, il vincitore, all’opulenza, ecco, in qualche modo si farà.
E si fallirà di nuovo, come dice Beckett, e si fallirà meglio.

 

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