DÈI
E IMMORTALITÀ
di Angelo Gaccione
Vorrei
richiamare l’attenzione su un aspetto su cui non si è riflettuto abbastanza, a
proposito del rapporto uomo-divinità: divinità intesa nelle sue varie formule
linguistiche, così come ci sono state tramandate dalle numerose tradizioni
elaborate dalla fantasia dei popoli e dai loro indovini, sciamani, stregoni,
sacerdoti, profeti, aedi, filosofi e pensatori vari. Questo aspetto riguarda il
concetto di immortalità. Sin dalle sue origini (da quando cioè si è reso conto,
ha preso coscienza attraverso la ragione e la constatazione empirica di essere
mortale come qualsiasi altro elemento del mondo naturale) l’uomo si è trovato
davanti a questa dismisura, a questo orrore della sparizione definitiva, della
sua uscita definitiva dal mondo, della separazione dolorosa dai suoi affetti e
dai suoi cari, dalla comunità dentro cui era integrato. Gli si è aperto davanti
questo baratro e ne ha avuto paura. Era una paura comprensibilissima,
umanissima. Davanti a questa scoperta così ultimativa egli si è visto perduto,
si è sentito misero, impotente, vulnerabile. Come accettare un destino così
terribile? Come sopportare il peso tremendo di una separazione così ultimativa
dai propri figli, dai visi più amati, dai beni faticosamente acquisiti?
Così come la
notte e la paura lo avevano spinto a raffigurarsi un’entità, o più di una, in
grado di proteggerlo, allo stesso modo l’incommensurabile spaventosa perentorietà
della morte, lo ha spinto a proiettare fuori di sé, in un luogo beato ed
eterno, un luogo di risarcimento, un’entità immortale che a sua volta lo
rendesse immortale. Gli dèi immortali avrebbero reso immortali gli uomini; il
Dio eterno e immortale avrebbe reso eterna e immortale l’anima di colui che lo
aveva creato a sua immagine e somiglianza. Senza queste illusioni l’uomo delle
varie epoche non avrebbe potuto sopravvivere. Senza questa illusione la vita di
milioni di uomini contemporanei sarebbe oggi inutile e insensata; terribile da
sopportare. Senza un fantastico luogo del risarcimento o, per dirla
filosoficamente, della beatitudine eterna, non ci si potrebbe fare esplodere
con una carica legata alla cintura, accettare la morte prematura di un figlio,
le disgrazie quotidiane e le umiliazioni che la vita ci impone. È necessario
che da qualche parte vi sia un luogo del ricongiungimento, un luogo dove ogni
male e affanno abbia fine, un luogo dove un padre benigno accoglie per
l’eternità. L’uomo dunque, si è creato un Dio immortale per poter rimanere
immortale; un luogo eterno per poter vivere in eterno.
La paura della
morte, del resto, sta all’origine di ogni fede, di tutte le fedi che
conosciamo. Si tratta di una paura ancestrale, sedimentata nei recessi
dell’uomo sin dal suo apparire ed è divenuta chimicamente consustanziale alla
sua biologia e dunque ineliminabile. La ragione è impegnata da secoli per
vincere questa dura battaglia, ma il suo sforzo resta vano; i suoi adepti sono
tuttora agguerrite minoranze, ma comunque minoranze.
I fautori della metempsicosi e della trasmigrazione delle
anime in altri corpi (reincarnazione) hanno dovuto, a loro volta, ricorrere a
questo rassicurante espediente per potere, in qualche modo, venire a patti con
la perentorietà ultimativa della morte. La convinzione che si potrà continuare
a vivere, seppure in altra forma o in un altro corpo, mitigava e mitiga lo
spettro spaventoso dell’annientamento, della cancellazione definitiva, della
polvere restituita alla polvere.
L’unico vantaggio di queste culture, è che non esiste
nella loro visione, come per il mondo pagano e le religioni teiste, un Aldilà
doloroso di espiazione che necessita di un faticoso viaggio di purificazione
prima di conseguire la meta agognata.
Da queste
poche battute, si può evincere come dèi, divinità e luoghi dell’immortalità,
siano stati, e sono, un bisogno umano creato dall’uomo per l’uomo stesso e
dunque comprensibile, giustificabile.
Meno giustificabile appare invece la speculazione
“razionale” e fideistica di filosofi (grandi e meno grandi) e teologi teisti.
Entrambe queste due categorie di ragionatori, hanno contribuito non poco a
intorbidare le acque. Su che cosa potevano basare la loro speculazione e il loro
ragionamento se gli uomini avevano dal nulla creato un nulla, seppure rassicurante? Pensatori del nulla i filosofi teisti
e studiosi e affabulatori del nulla i teologi; essi si sono arrogati il diritto
di dire sull’indicibile, rappresentare l’irrappresentabile, dimostrare
l’indimostrabile, dare sostanza a ciò che sostanza non aveva.
E con questo ridicolo e vano esercizio intellettuale,
hanno posto le basi dottrinarie di tutto il male e di tutto il sangue che la
stupidità degli uomini ha commesso, e continua a commettere, nel nome di un
nulla che, da rassicurante, si è fatto tragico.