LA SCRITTURA E LA SCENA
di Angelo Gaccione
Da sinistra: Gabriele Scaramuzza, Chiara Pasetti Angelo Gaccione, Isabelle Rome al Teatro Filodrammatici di Milano subito dopo l'incontro organizzato dall'Associazione Culturale Le Reve e la Vie |
Sono
convinto che il rapporto tra scrittura e scena è destinato a rimanere
conflittuale. Non sempre una scrittura teatrale è adatta per la scena, o quanto
meno, non lo è per qualsiasi opera. Purtroppo questa pessima abitudine di
“teatralizzare” tutto ciò su cui si posano gli occhi, è molto diffusa;
soprattutto ad opera di registi giovani e poco avveduti che si improvvisano
scrittori, e che “adattano” alle proprie esigenze sceniche e spettacolari,
quanto da altri prodotto e che non era stato assolutamente concepito a questo
scopo. Piuttosto che rendere irriconoscibile un testo altrui, basterebbe più
semplicemente elaborarsene uno in proprio e su misura, rispondente a tutte
quelle esigenze personali e spettacolari che si cercano. La marmorea fissità
della parola mal si adatta a divenire cosa diversa dalla propria natura; dalle
motivazioni che l’hanno fatta scaturire e dalle finalità che si propone. Se poi
ci troviamo davanti ad un’opera nata per essere “rappresentata”, ma dove ogni
parola, pausa, tono, ritmo è stato tuttavia organicamente definito dal suo
autore e fissato in scrittura, ancora più rigidamente se ne deve rispettare
l’ordito. Non si può, pena il suo snaturamento, operare interpolazioni,
sostituzioni, o, peggio, aggiunte. E se anche autore e regista lavorassero
assieme, la dicotomia non verrebbe comunque risolta: si potrebbero cercare
assieme soluzioni “tecniche” condivise; escamotages
legati specificatamente alla macchina teatrale, ma non vedo come si potrebbe
risolvere il problema della sostanza (frasi, parole, tipo di recitazione, corpi
da esporre allo sguardo degli spettatori), che per me autore hanno una valenza
diversa da quella di chi quella sostanza deve rappresentare. Certo resta
indispensabile il confronto: ma può darsi il caso che l’autore che ha concepito
il testo non sia più vivente. Non si può, dunque, che fare affidamento sulla
sensibilità e l’intelligenza di questo “animale” da palcoscenico; sperando che
egli si documenti a fondo sulla personalità dell’autore, sul suo pensiero -non
solamente estetico- che ne indaghi, fin dove gli sarà possibile, la sua visione
di mondo, il suo sguardo sulla vita e sull’esistenza. Non tradirne il dettato
resta in ogni caso fondamentale. Nel mio dramma corale “Pathos” ho chiuso il testo con questa raccomandazione: “In caso di
applausi nessun attore deve uscire a raccoglierli”. Se si leggono attentamente
le varie scansioni e se ne capisce il fondo, quella indicazione diventa
fondamentale. Ci sono nei miei testi pubblicati in volume, indicazioni a volte
minuziose e insistite. Non sono assolutamente trascurabili dal mio punto di
vista, anzi. Se io fisso sulla pagina i contorni di una single (vedi l’omonimo
monologo “Single”) cinica, fredda,
analitica, razionale, colta; il personaggio deve essere così sulla scena. Non
possono essere tagliati o modificati brani a piacimento che la rendono diversa
da come l’ho immaginata. Il personaggio ne uscirebbe solo banalizzato. Se
volevo renderla simpatica al pubblico avrei trovato altri modi per descriverla
e farla parlare. Poiché tutto questo si è verificato in occasione di una messa
in scena di “Single” diversi anni fa,
posso comprendere come si sia sentita l’amica Chiara Pasetti al debutto del suo
lavoro ispirato alle lettere e all’opera di un personaggio difficile e di
grande fascino come l’artista francese Camille Claudel: “Moi”, avvenuto al Teatro Filodrammatici di Milano il 14 marzo
scorso.
Ecco quanto mi scrive in
una email del giorno dopo (15 marzo) da Novara: “Ieri
sera ho assistito a una cosa spinta in una direzione che io non le ho dato mai,
né nel testo né nelle intenzioni. (…) sono
molto amareggiata e delusa… ”.
Di queste delusioni un
autore è destinato a provarne diverse se non potrà prendere in mano la propria
opera gestendone direttamente la realizzazione scenica, o quanto meno a
guidarla in accordo con un regista scrupoloso e disponibile.
Ma può un autore fare
questo? Ne ha il tempo ed i mezzi? E soprattutto: è giusto che si trasformi in
ciò che non gli compete?