UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 18 marzo 2016

SORELLA D’ANIMA
Un racconto per Francesca. 
di Vito Calabrese
Illustrato da Adamo Calabrese


  
L’anno scorso, in primavera, la più bella stagione nel deserto, Azhar è partita insieme alla sua famiglia per un lungo viaggio. Azhar è una bimba araba, una ragazzina mora, riccioluta, due occhi neri in un volto ovale color caffelatte, che vive in Africa, in un’oasi in mezzo al deserto del Sahara, nel sud dell’Algeria, a Djanet. Il papà era partito con una carovana per cercare lavoro nella capitale ma non era più tornato. La mamma aspettava ma non c’erano più soldi per comprare da mangiare a lei, a sua sorella Nadira e ai suoi due fratelli più grandi, Salem e Omar. Un giorno d’inverno sono partiti insieme alla famiglia dello zio verso il mare. Viaggiavano in carovana su dei fuoristrada. Erano in tanti. Il deserto era grande con le sue torri di roccia rossa, le dune di sabbia dorata e quel nastro d’asfalto nero, che portava lontano tutta quella gente, schiacciata dentro i cassoni dei fuoristrada.
Sono arrivati vicino al mare, ma non lo si vedeva. Il gruppo della famiglia di Azhar è stato alloggiato in una tenda dentro un campo recintato. Uomini armati sorvegliavano gli accessi. C’era poca acqua per lavarsi e per cucinare.
Azhar ricordava con nostalgia la sua terra, il verde dell’oasi e l’acqua zampillante del ruscello. Il suo nome, Azhar, significa fiori, bello come i fiori che splendono in quella terra difficile ma affascinante. Tutti i giorni scendeva al ruscello, che si allargava a formare una grande vasca, per giocare con le amiche. Invece adesso c’era solo un campo affollato, sporco, puzzolente, e si mangiava poco.
Una notte li hanno portati sulla spiaggia, davanti al mare scuro. Gli uomini gridavano e picchiavano i grandi coi bastoni. Che paura! Azhar piangeva e la mamma teneva strette le due sorelline. I fratelli avevano occhi neri pieni di rabbia e di terrore. Poi li hanno caricati su un gommone. La barca galleggiava a stento, tanta era la gente imbarcata. Azhar era bagnata. I vestiti bagnati, freddi, le davano fastidio ma non si poteva fare niente. Uomini armati comandavano il battello. Le luci della costa sparivano nella notte mentre il gommone solcava le onde con fatica. Azhar sentiva il mare come un nemico, ostile, tutto le faceva paura.
Di giorno era ancora peggio. Il sole bruciava e spaccava la pelle. La sete non dava tregua. Non c’era niente che potesse confortarla. Unico pensiero era quello di scendere prima possibile da quella barca e camminare, lavarsi, bere, mangiare. Una nave li ha avvistati e finalmente qualcuno li ha soccorsi e si è preso cura di loro. Gli uomini in divisa con le mascherine sul volto parlavano una lingua che lei non conosceva: né arabo, né francese. Li hanno trasportati sulla nave, avvolti in leggeri teli arancione come cioccolatini. Un medico l’ha visitata, stava bene. Hanno mangiato strani cibi dentro scatole di plastica, ma almeno era cibo. Finalmente c’era acqua da bere. Azhar si è lavata la faccia e ha sorriso a quelle persone. Era la prima volta dopo giorni di sofferenza. Lo sbarco nel porto è stata un’operazione complicata. Polizia, infermieri, volontari, guardiani e tanti cani che annusavano le persone. La mamma le ha detto che erano arrivati in Italia. Non sapeva dove fosse. Azhar si è trovata dentro un altro campo, fatto di palazzine e container. La mamma era riuscita a tenere la famiglia unita. Nel deserto era meglio, più pulito, e ogni famiglia aveva la sua casa. Invece qui tanta gente, troppa gente. Tutti insieme, appiccicati. Così non va.



Quella mattina tre uomini erano entrati nel container che ospitava la famiglia di Azhar e li avevano svegliati bruscamente. Erano le quattro. Uno dei tre uomini era il custode del campo. Aveva aperto la porta ed era rimasto indietro mentre gli altri due urlavano a tutti di alzarsi in piedi. La mamma aveva stretto a sé i suoi figli e stava in piedi cercando di capire cosa stesse accadendo. È stato tutto molto veloce. I due uomini, due figure scure, lunghe, visi magri con la barba non rasata e gli occhiali scuri, reclutavano persone da spedire nei campi a raccogliere i pomodori, che stavano maturando velocemente. La mamma di Azhar era stata scelta e spinta, in malo modo, nel gruppo di giovani donne che venivano caricate sul cassone di un autocarro impolverato. La bimba aveva cercato di trattenerla ma la violenza degli uomini era impossibile da vincere. Lei e i suoi fratelli si erano trovati soli, abbracciati in mezzo alla gente che urlava e piangeva dentro il container. Poi il guardiano aveva chiuso la porta e l’autocarro era partito. Venne la notte, nera e calda. La mamma non era tornata. Nessuno di quelli che erano stati portati via la mattina era tornato. I campi di pomodori erano troppo lontani. Azhar stava sdraiata in mezzo ai fratelli e pregava di poter rivedere la mamma.
Anche quella mattina, il custode spalancò la porta del container e fece entrare una coppia vestita con costumi colorati. Questa volta nessuno gridava per svegliare le persone ancora addormentate, anzi i due si muovevano svelti tra i corpi distesi e segnavano chi gli interessava, spruzzando con una bomboletta del colore rosso sulle mani o sulle braccia. Azhar ha sentito il polso bagnato e si è girata nel sonno strofinando la mano sul viso. In quel momento qualcuno l’ha sollevata da terra e le ha messo sul viso una pezza pesante che puzzava, un odore forte da far girar la testa. Poi, niente, più niente, solo buio. Si è svegliata con la testa pesante e gli occhi offuscati. Si è messa seduta e si è guardata in giro. La stanza era vasta, piena di vestiti, di coperte, di stracci colorati. Vicino a lei, una ragazza appena più grande, con i capelli lunghi neri, gli occhi neri, la guardava sorridendo.
Azhar piangeva senza gridare, le lacrime scendevano lente sulle sue guance dimagrite. Aveva capito al volo di non essere più nel campo. I suoi fratelli non c’erano. Era rimasta sola. Proprio sola no, c’era quella ragazzina che le aveva preso la mano e le parlava con una cantilena.
Con la sera sono arrivati i grandi. Una coppia di mori, lui alto e robusto, lei grossa, capelli lunghi, legati e unti, occhi vuoti in una faccia avvizzita, piena di rughe, una faccia da vecchia. Insieme a loro c’erano quattro ragazzini, probabilmente coetanei, due arabi e due neri, o meglio tre femmine e un maschio. L’uomo ha fatto cenno alla donna che le due ragazze erano sveglie, insomma che doveva occuparsene lei. Quella si è avvicinata, le ha fatte alzare in piedi e parlando un dialetto difficile, incomprensibile, dava ordini.
Non capisco quello che dici. Noi siamo arabe. Cosa vuoi da noi?- chiede Dalila, la sua amica.
Arabe? Ok. Domani lavorare. – la vecchia si fa capire in arabo.
Dove?
Strada.
Cosa facciamo in strada? – chiede Azhar.
Gli altri ragazzi che avevano assistito al dialogo hanno riso e fatto gesti e boccacce.
Silenzio! – strilla la donna, moltiplicando le rughe che le disegnano abbondantemente la faccia – Spiega tu! – e punta con il dito indice il ragazzino arabo coi capelli neri.
Ehm …
Spiega, presto.
Le due ragazzine lo guardano stupite e intimorite.
Chiedere soldi.
Che cosa? – chiede con voce tremolante, angosciata, Azhar.
Sì. Domani per strada, dove passano tante persone, voi chiedere soldi, euro – la vecchia riprende il discorso per essere sicura che le ragazze abbiano capito.
Ma, io non l’ho mai fatto.
Domani cominciare.
Ho vergogna.
Tu chiedere soldi a tutti. Se non portare soldi, la sera tu non mangiare. Capito?
Le due ragazzine si sono abbracciate piangendo. Che brutta storia! Come si fa a chiedere soldi a chi non si conosce. Nessuno nelle loro famiglie le aveva spinte a mendicare. Avevano vissuto con poco ma con dignità. Ora questi strani personaggi le avevano rapite per portarle sulle strade a chiedere l’elemosina.
Quando finito di piangere, cioè subito, venire con me a preparare da mangiare. Ricordare: domani niente soldi, niente mangiare. Capito?- la voce sgraziata di quella donna vecchia e cattiva non ammetteva né repliche né indecisioni.
Azhar e Dalila, la sua amica, erano state separate. Ogni mattina venivano trasportate in punti diversi di una città o forse in località differenti. Non sapevano neanche il nome di quei luoghi. Vivevano in un incubo. Ognuna era controllata da una donna, che spesso aveva un piccolo in braccio per intenerire i passanti. Scappare, fuggire lontano. Spezzare quella catena che le rendeva schiave ogni giorno di più. Ci avevano provato a scappare, non una ma tre o quattro volte. Le avevano sempre ritrovate e le punizioni erano state dolorose. Private della cena per giorni, percosse da quelle donne cattive, più streghe che femmine.
Azhar viveva solo nel desiderio di uscire da quel buio, di fuggire da quelle persone. Non voleva più stendere la mano per mendicare. Voleva tornare a essere una bimba, giocare, andare a scuola, stare in famiglia, insomma trovare qualcuno che le volesse bene come una volta al suo paese. La sua preghiera era incessante. Qualsiasi cosa facesse, la sua mente continuava a lanciare un pensiero, una invocazione d’aiuto. Una richiesta silenziosa che si affinava nel tempo e diventava tutt’uno con la sua anima. Si era formato un fumetto nella sua testa con dentro il suo messaggio: “aiuto, sorella, portami via con te.”
Azhar aveva perso la famiglia, tutta la famiglia a cominciare dal padre fino ai fratelli. Ora cercava una nuova sorella, non più sorella di sangue, come Nadira che aveva perso nei giorni precedenti, bensì una sorella d’anima, che sapesse riconoscere l’amore che lei era disposta a dare.
Ogni giorno, mentre mendicava nei pressi dei grandi magazzini, dei supermercati, alzava lo sguardo quando vedeva avvicinarsi l’ombra di una ragazza, e senza parlare, lanciava il suo fumetto, nella speranza d’incontrare la “sorella d’anima” che potesse capirla e fare qualcosa per aiutarla, ma aveva trovato dei visi inespressivi, come facciate con le porte chiuse. Nessuno la capiva. Qualcuno le lasciava una moneta ma poi se ne andava senza voltarsi indietro. Che fatica e che delusione tornare ogni sera in quei rifugi clandestini dove la violenza era legge.



Quella mattina di novembre, il cielo era gonfio di nuvole ma non pioveva. Anzi il vento strappava dei lembi dalle nuvole e lasciava trasparire lampi di colore inaspettati. Il capo aveva portato il gruppo di donne e ragazzine alla stazione. Azhar pensava che sarebbero state sparpagliate per fare il loro accattonaggio nella stazione e invece, sorprendentemente, salirono tutte sul treno. Non aveva mai viaggiato in treno. Sorpresa e contenta che il programma della giornata fosse diverso dal solito, si adattò a quel viaggio, che comunque la portava lontana da quei luoghi pieni della sua disperazione. Ogni cambio poteva aprire nuove possibilità. Chissà!
Le donne si erano separate nelle diverse carrozze. Stavano in piedi negli stretti corridoi davanti agli scompartimenti. Le persone che li occupavano chiudevano le porte e tiravano le tende per evitare di vederle. Tutti gesti che le facevano male. Tante piccole fitte di dolore che spegnevano la luce dei suoi occhi.
Azhar stava girata verso il finestrino, con la fronte attaccata al vetro, e osservava con interesse e avidità quei paesaggi che le passavano velocemente davanti. Non avrebbe mai smesso di guardare. Quello scorrere di montagne, prati, alberi, case, paesi, ponti e stazioni, era come un racconto, come andare al cinema. Il mare, il mare era bello come non l’aveva mai visto. Non era più in balia delle sue onde gelide, ma attenta a guardarlo da fuori, ad ammirarlo sdraiato nella sua bellezza. Le faceva dondolare la testa per seguire il movimento delle onde che si schiacciavano sulle coste producendo una spuma bianca.
Un signore col berretto a visiera, in vestito blu con una borsa a tracolla, avanzava lungo il corridoio. Le persone porgevano qualcosa che il signore controllava e passava oltre. La donna che l’aveva in custodia, ordinò alle ragazzine di spostarsi sulla piattaforma, dove c’erano le porte. Ma c’era troppa gente. Quel signore arrivò fino a loro, squadrò con disprezzo la donna e chiese i biglietti. Ecco cosa cercava, il biglietto. Loro non ce l’avevano. Il treno correva, gli altri passeggeri li guardavano con sguardi da rimprovero. La donna parlava, gridava, ma l’uomo la bloccò con la mano e le fece capire che dovevano scendere dal treno alla prima stazione.
Alla fermata erano scese tutte dal treno. Azhar era delusa. Quel viaggio in treno era stata un’esperienza interessante e per certi versi piacevole, nonostante l’atteggiamento ostile degli altri passeggeri.
Il gruppo si era riformato sulla banchina della stazione. Erano a Rimini, l’aveva letto sul tabellone azzurro della stazione. La donna più vecchia dava gli ordini alle altre. Dovevano aspettare il prossimo treno e ripartire. Se un controllore le aveva fatte scendere da un treno, loro sarebbero risalite sul prossimo e così via, finché non fossero arrivate dove quella vecchia aveva l’ordine di portarle. E tutto senza biglietti.
Il treno entrava in una grande stazione. Decine e decine di binari che si intersecavano, che le sfuggivano da sotto lo sguardo e portavano quel treno, dentro a grandi arcate di ferro e vetro. Gente, tanta gente, chi saliva, chi scendeva.
Erano arrivate a Milano. I cartelli erano dovunque. Avevano viaggiato tanto. La città doveva essere una grande città. La vecchia aveva radunato le donne e il codazzo di ragazzine. Le aveva spinte lungo il marciapiede fino ad incontrare un gruppo di uomini, facce dure, occhi pericolosi, forse ancora peggio di quelli che aveva conosciuto laggiù.
Le avevano stipate su furgoncini ammaccati e le avevano portate in un campo, pieno di roulotte. Da una parte del campo sorgevano palazzoni grigi, pieni di finestre, dall’altra parte c’era terra incolta, piena di rovi.
La mattina seguente era salita sullo stesso furgoncino e l’avevano depositata, insieme alla finta madre con bambino, davanti all’ingresso di un supermercato, neanche troppo grande, in un quartiere della grande città. Avevano cominciato subito a mendicare. Tutto il giorno a chiedere l’elemosina. Il braccio alzato centinaia di volte a tendere quel bicchiere di plastica per ricevere, il più delle volte, occhiate severe, qualche parola sbrigativa, amara, e poche monete, da far valere la sera come ricompensa per un piatto di qualcosa da mangiare.
Poi, Azhar ha visto l’ombra, snella, nervosa, saettante, ha ascoltato la voce schietta, danzante. La speranza le ha gonfiato il petto. Ha alzato lo sguardo e le è andata incontro con il suo bicchiere di plastica. Il fumetto le è uscito dal cuore più vivace che mai: “aiutami, sorella, non lasciarmi qui.”
La sua voce segreta l’ha colpita e la ragazzina coi capelli biondi, e gli occhi azzurri come il cielo, si è fermata. L’ha guardata. L’ha osservata in un modo diverso da come la guardavano gli altri. L’ha vista per quella che era. Una bimba come lei. Poteva essere sua sorella. La sua voce segreta, il suo fumetto, l’ha raggiunta. Forse lei ha aperto il suo cuore per ascoltarla: “dammi una mano, aiutami, sorella.”
Si sentiva tremare. Il cuore le ballava nel petto sfuggendole fino alla gola. Una gioia, mai provata prima, l’agitava nell’intimo e le faceva splendere gli occhi. Per la prima volta dopo tanto tempo, un sorriso apriva le sue labbra.
La ragazzina si è girata verso la donna che la seguiva, forse la mamma, che bella! e le ha chiesto una moneta, che ha lasciato cadere nel suo bicchiere. La guardava negli occhi e le ha sorriso, poi l’ha salutata: ciao. Lei, emozionata, stringeva il bicchiere fino a schiacciarlo. L’aveva salutata e le aveva donato un euro. Sì, quello era un dono, non un’elemosina.





Francesca cammina a fianco della mamma lungo via Ornato. Hanno superato l’incrocio con via Bauer e la mamma allunga il passo. Ha fretta. La bimba fatica a mantenere la sua andatura. È sera, una sera d’autunno, i lampioni e le insegne commerciali si illuminano chiazzando la strada di aloni sbiaditi. Dopo la curva che immette sul rettilineo verso l’ospedale della Ca’ Granda, si aprono diverse vetrine di negozi e supermercati, che sono l’obiettivo della corsa affannata della mamma. Il passaggio sul marciapiede si è fatto stretto. Il flusso dei pedoni che affollano quel tratto di strada, per lo più mamme, è rallentato dalla combinazione di due figure scure e allampanate, che intralciano i passanti.
Da una parte, verso il muro, un uomo col berretto di lana porta una cassetta a tracolla, piena di cover per smartphone, e ad ognuno che passa fa la mossa di porgere la sua merce colorata, sorridendo con una bocca piena di denti bianchi, che risplendono sul suo viso nero. Di fronte a lui un altro nero, più malinconico, ciondola su due piedi, allungando alle persone il suo berretto floscio e chiede sommessamente degli spiccioli.
La mamma passa, forse guarda di sottecchi, e si trascina Francesca appesa ad una mano, che si gira indietro a guardare quelle figure di poveretti.
Mamma, hai visto che belle copertine per il tuo telefono. Perché non ne prendiamo una?
Ce l’ho già.
Ce n’era una con i fiori.
Non mi serve.
Ma potevamo aiutare quel poveraccio.
T’ho detto che non mi serve. Piantala e stammi vicino.
Tre passi più in là seduto tra due vetrine c’è un uomo barbuto con i capelli lunghi che accarezza un cane di grossa taglia, sdraiato tra le sue gambe. Davanti al gruppo è posata una scodella di plastica gialla con dentro alcune monetine. L’uomo non parla, non guarda i passanti, non chiede. Aspetta. Francesca osserva, vorrebbe fermarsi ad accarezzare il cane, è davvero una bella bestia che non le fa paura, ma la mamma la tira per la mano e non le concede distrazioni. Bisogna arrivare al supermercato.
Che bel cane!
Uhm
Hai visto? Quel cane era proprio bello. Mi piace.
Uhm
Vorrei tornare indietro ad accarezzarlo. Mi dai 20 centesimi?
Piantala. Non è il caso.
Perché?
Non mi stressare, che cosa c’è stasera? Vuoi dare monetine a tutti quelli che vedi per strada?
No. Solo a quello del cane. Mi piace.
Un’altra volta.
Superato l’ostacolo, Francesca corre, saltellando, e si ferma davanti ad una figura ripiegata su se stessa, avvolta in una coperta sfrangiata e sporca. La persona è un uomo con una faccia senza colori, irta di ciuffi pelosi, seminascosto da un cappellaccio di feltro a tesa larga. Francesca quasi si accovaccia per guardare meglio e quello apre due occhi cisposi mentre continua a masticare qualcosa, senza aprire la bocca. Appoggiato alle sue gambe ha un pezzo di cartone con una scritta in stampatello, che la bimba cerca di leggere.
SONO MALATO, SENZA LAVORO, HO FAME.
In quel momento la mamma l’ha raggiunta, le prende la mano e la richiama nervosamente a seguirla. Francesca fatica a staccarsi dalla postazione del mendicante e, sollevandosi, rovescia inavvertitamente la ciotola delle elemosine. Il tipo si è subito raddrizzato, ha aperto la bocca e ha cominciato a vomitare un sacco di parole incomprensibili, scacciando la bimba che avrebbe voluto aiutarlo a raccogliere le poche monetine.
Lo vedi. Hai fatto un pasticcio.
Non è vero. Volevo leggere il cartello.
E hai rovesciato la ciotola dei soldi facendo arrabbiare il tipo.
Non ho fatto apposta e poi l’avrei aiutato, ma lui non ha voluto.
Il dialogo tra mamma e figlia si svolge sul marciapiede con le due sagome femminili che si fronteggiano guardandosi dall’alto in basso, urtate dai pedoni che incalzano e non hanno tempo per osservare quella macchietta.
Certo. Ha pensato che volessi approfittarne per rubargli la moneta.
Rubare!? Io non rubo. È stato un incidente.
Va bene. Piantala e non piagnucolare, che la vita è già difficile così.
Perché?
Non siamo ancora arrivati alla “Cooppina”- il piccolo supermercato Coop del quartiere - e continui a stressarmi con i barboni.
Ma quelli non sono barboni.
Un po’ lo sono. Adesso andiamo.
La strada per il supermercato è diventata un angolo dove la miseria viene a galla e affatica la cosiddetta gente per bene. Questa volta la mamma è decisa a guadagnare l’entrata al supermercato ma proprio davanti alle vetrate con le porte scorrevoli della Cooppina, si palesa un altro personaggio miserevole.
Una donna piccola, grassottella, avvolta in scialli, la testa fasciata nel velo azzurro, con in braccio un bimbetto che strilla, fa un passo avanti e uno indietro per ninnarlo e non lasciare la posizione. Davanti a lei c’è una ragazzina mora, riccioluta, due occhi neri in un volto ovale color caffelatte, infagottata in una tuta troppo grande, che tiene in mano un bicchiere di plastica.
Lei l’ha vista e ha fatto un passo avanti, alzando il braccio senza parlare. I loro sguardi si sono incontrati. È scoccata una scintilla di simpatia. Francesca ha sentito un prurito all’orecchio destro, sempre più intenso e molesto, man mano che si avvicinava alla figurina della bimba mendicante, e percepisce una voce:
aiutami, sorella, non lasciarmi qui.
Francesca si sgancia dalla stretta della mano di mamma e si gratta l’orecchio. Si ferma davanti alla ragazzina, potrebbe avere la sua stessa età, forse è araba come alcune delle sue compagne di scuola.
Ciao. – Francesca la saluta di slancio.
Lei sorride e la guarda con occhi splendenti mentre la voce continua:
mi riconosci, sorella?
Chi sei? Non è possibile, non capisco. Sorella? Non vedo mia sorella.
La voce riprende: non lo saprai mai se non mi cerchi col cuore.
Francesca sente che questa volta non può lasciar perdere l’occasione.
Mamma, mi servono 50 centesimi.
Ancora. Ma non la smetti più.
Mamma. Adesso mi servono davvero. Non posso farne a meno.
Come?
Ti prego. Non tradirmi.
La mamma si è fermata, si è girata ad osservare Francesca ferma davanti a quell’altra ragazzetta col bicchiere in mano. Capisce che c’è qualcosa di strano nell’aria e che forse è tempo di assecondare la figlia. Torna sui suoi passi e frugando nella capace borsa, estrae il portamonete e porge a Francesca una moneta. Lei la prende, la guarda, sorride prima alla mamma e poi alla ragazzina. La mamma è stata generosa, un euro è sceso nel bicchiere di plastica.
La bimba spalanca gli occhi, ha un sorriso. Poi si gira timorosa,  improvvisamente rabbuiata in viso verso quella donna, che vorrebbe essere sua madre, come volesse nasconderle la gioia che l’ha sorpresa.
Ehi. Dimmi come ti chiami? – Francesca la incalza.
Insomma, ti ho dato un euro, potresti almeno dirmi il tuo nome.
Perché l’hai pagato?
No. Non offenderti. È che voglio conoscerti … un po’.
Non mi sono offesa.
Allora dimmi il tuo nome.
E tu?
Io sono Francesca.
Azhar.
Che strano.
Non ti piace il mio nome?
Sì, sì. Mi piace.
E … che hai? – quegli occhi profondi dicono più di quello che le esce dalla bocca. Vuoi vedere che la voce nascosta è collegata con lei?
Aza. Da dove vieni?
Ah, Ah!?
Francesca, andiamo. – la mamma non ammette più interruzioni al suo programma.
Ti trovo sempre qui? – Francesca chiede prima di essere strappata via dalla mamma.
Sì, fino a sera.
Ci vediamo, devo andare. – Azhar si apre in un sorriso inaspettato che fulmina Francesca mentre si allontana.
Francesca attraversa l’ingresso della Cooppina e insieme alla mamma sostano davanti agli scaffali della verdura. Lei è contenta. Avrebbe tante cose da chiedere alla mamma sugli incontri di quella sera, ma sente una curiosità crescere dentro di lei per quella bimba povera.
La voce, quella voce che sembrava uscire dal cuore della bimba. Quella voce che sentiva solo lei e che la chiamava sorella. Uno strano fenomeno, una coincidenza su cui deve riflettere. Domani a scuola informerà le sue amiche.
Mamma, compriamo una melanzana.
Ma se non ti piacciono.
Voglio provare. Oggi sono diversa.
Me ne sono accorta.





Il maestro ha raccolto le ricerche sulle etichette dei prodotti alimentari fatte dai suoi alunni nello scorso fine settimana e ha deciso di commentarle facendo partecipare tutta la classe. Voleva colmare le carenze emerse dalla lettura delle varie ricerche, utilizzando tutti gli spunti e le critiche dei suoi studenti. Insomma avrebbero elaborato un’unica ricerca condivisa, sfruttando i contributi che ognuno aveva preparato.
Il maestro aveva posato sul piano della cattedra tre confezioni, un pezzo di formaggio, una bottiglia di latte e un cestino di pomodorini. Aveva chiamato al suo fianco Adriana e Luca per scrivere alla lavagna.
Francesca si era distratta. Ad un certo punto non aveva più seguito il lavoro in classe ma si era estraniata. Sentiva la voce. Dapprima ne fu sorpresa, poi ne fu contenta. Si grattò l’orecchio che le prudeva, sintomo infallibile della presenza della voce. Continuando a grattarsi l’orecchio, dondolava la testa con gli occhi chiusi e muoveva le labbra come se stesse ripetendo, senza suono, le parole che le arrivavano nella testa.
“ti prego, sono una sorella, ti cerco per uscire dal buio.”
Togo, che sedeva nella fila di banchi dietro a lei ma spostato a destra, la osservava. Si è allungato sul banco e ha scrollato la spalla di Fatou, di fianco a lui.  
Fatou. Guarda la tua amica. È imbambolata. Svegliala.
Lasciami stare. Non vedi che sto studiando?
Francesca è partita. Prova a toccarla. Magari si riprende.
Uffa! – Fatou senza guardare la sua compagna le assesta uno spintone sulla spalla, facendola sbilanciare e cadere per terra.
Il rumore provocato dalla caduta e le urla di Togo che cercava invano di acciuffare l’amica, hanno interrotto la lezione. Il maestro si è avvicinato al banco di Francesca e la solleva da terra. Lei guarda straniata i compagni attorno a sé. Non sembra cosciente di quanto è successo. Le sue labbra si muovono in silenzio. Fatou la osserva e traduce le ultime parole.
Una sorella. Sta parlando di una sorella.
Francesca, stai bene? – chiede il maestro, incurante della rivelazione della compagna.
Francesca si scuote e, con un viso che mostra delusione, lancia un’occhiataccia ai suoi amici, un rimprovero. Il maestro, appurato che la sua allieva non ha nulla di cui preoccuparsi, riprende la lezione. Gli interventi continuano ma più stancamente.
Leggiamo i prezzi delle confezioni che ho qui sul tavolo e commentiamoli. Francesca, vieni qui. – la scolara si avvicina e sente puntati su di sé gli occhi di tutta la classe.
Quanti prezzi sono indicati su questa confezione di formaggio Emmental?
Ci vogliono 2 euro e 43 centesimi per comprarla. E se uno non li ha? Cosa deve fare?
Cosa stai dicendo? Non ti ho fatto questa domanda?
Però quello è il prezzo. È caro. E se non hai i soldi perché sei povero, cosa fai? Rubi? Chiedi l’elemosina?
Ho capito. Vuoi parlare di quelli che sono poveri e non sempre possono fare la spesa. È un ottimo argomento. Lo tratteremo domani. Oggi finiamo il lavoro della ricerca.
Io conosco una ragazzina che chiede l’elemosina fuori dalla Cooppina e sta male. È povera e la costringono a domandare i soldi. Voglio aiutarla.
Francesca si gira verso la classe, mentre il maestro stupito, preso in contropiede, non riesce ad arginare la forza delle parole della sua alunna.
Volete aiutarmi? Dobbiamo ritrovare Aza e liberarla.
Sì. Sì. Siamo con te.
Le voci di Togo, Adriana e Fatou trascinano il resto della classe, che si è alzata in piedi e batte le mani sui banchi. Un fracasso di tanti tamburi scuote la calma della scuola. Il maestro, affiancato dall’altra insegnante, riesce pian piano a riportare la classe alla normalità.



La classe era uscita, in fila per due, dalla scuola per raggiungere il vicino supermercato della Coop. Il maestro conduceva la classe e la maestra Giovanna chiudeva la fila degli alunni. Francesca dava la mano a Fatou e camminava tra i primi. Adriana e Togo si erano tenuti vicini, non volevano perdersi l’incontro della compagna con la fantomatica Aza. Svoltato l’angolo la classe ha imboccato la via Ornato. L’ingresso del mercatino adesso era visibile e Francesca ha allungato il passo e alzato la testa. La voce l’ha raggiunta come una pallonata, l’orecchio ha cominciato a pizzicare di un prurito irresistibile. Mentre si grattava l’orecchio, rosso e caldo, Francesca si è fermata, strattonando Adriana. Il suo volto era sbiancato ma l’orecchio era ancor più rosso, e la voce le faceva mancare il respiro:
“sorella, vieni a prendermi. Ti ho aspettato tutti i giorni, da quando ti ho incontrata. Ho pregato di poterti rivedere.”
Francesca, cammina, siamo quasi arrivati. Ho visto anche la ragazzina. – Adriana la scuote con le sue forti braccia ma la sua amica è imbambolata.
Che fai? Ti portiamo noi in braccio. – Togo scherza per sciogliere quell’attimo di tensione.
La classe si è raggruppata attorno al gruppetto con al centro Francesca. Qualcuno spinge, altri scherzano. I due maestri si avvicinano allarmati.
Maestro. Francesca si è piantata qui e non si muove.
Francesca, sveglia. Vuoi dire qualcosa? – il maestro cerca di smuovere la piccola.
Ho visto il gruppo di mendicanti che ci hai descritto. Andiamo a parlargli. Guarda, ho preparato una moneta per loro – la maestra Giovanna le prende la mano e le accarezza il volto.
Francesca si risveglia di colpo, si rianima e mostra alla maestra di aver preparato una moneta. Anche tra i compagni, c’è qualcuno che alza la mano con una monetina tra le dita. I maestri organizzano la classe per evitare che si blocchi l’entrata del mercatino e per dare spazio a Francesca di parlare con l’altra ragazzina.
Ho sentito la voce – sussurra all’orecchio di Fatou, che la guarda sgranando gli occhi. – Sì. È lei. Mi ha chiamato sorella. Sono emozionata. Non so cosa fare.
Azhar ha seguito la scena e ha visto Francesca fermarsi, tremante. Lei ha capito di averla colpita col suo messaggio ed è ormai sicura di aver trovato la sorella d’anima che ha lungamente cercato. Ora anche lei è emozionata e cammina avanti e indietro, stringendo il bicchiere di carta. La donna col bambino in braccio, è preoccupata e la richiama.
Attenta. Visto quanti bambini? Vai avanti col bicchiere e chiedi moneta. Ti daranno soldi. Portali subito a me.
Azhar ascolta quelle parole, sconvenienti e sgradevoli, ma le scorrono via come gocce di pioggia. Fa segno di aver capito, accennando con la testa, senza guardarla. È protesa, in attesa che quella ragazzina arrivi fino a lei. Vorrebbe toccarle la mano. Sente la commozione salirle fino all’orlo delle lacrime che con fatica ricaccia indietro. Intanto continua a lanciare il suo fumetto: “ti ho riconosciuta, sorella. I miei occhi ti vedono e le mie mani ti cercano. Non lasciarmi qui. Portami via.”
Francesca si sente sostenuta dalle amiche e percepisce la forza crescere dentro di lei. La maestra Giovanna si è portata avanti e si è fermata davanti alla ragazzina mendicante, che le è andata incontro tendendo il bicchiere. Tutta la classe è arrivata a ridosso della maestra che, con un gesto della mano, li fa disporre attorno mentre lei saluta:
Ecco una moneta per te e tua mamma.
Grazie. Lei non è mia mamma - risponde dura mentre con gli occhi cerca Francesca.
No? Chi è tua sorella maggiore? – la maestra insiste.
I compagni si sono schierati attorno alla ragazzina, tagliando fuori la donna con bambino, che sgomita per avvicinarsi.
Lei mi controlla, controlla l’elemosina. Ho perso la mamma. Mia sorella è qui.
Beh, almeno hai una sorella che ti può aiutare. Come ti chiami?
Azhar. Molti mi chiamano Aza.
Sì. È lei. Aza. Noi la conosciamo.  – Togo esplode saltando sui due piedi.
Sì, sì. Finalmente l’abbiamo vista. Lei è l’amica di Francesca. – Fatou e Adriana hanno seguito Togo e sollevano le braccia ridendo.
Francesca esce dall’ombra della maestra e guarda finalmente in viso sua … sorella? Non sa come chiamarla. Le sorride e le porge la moneta che scivola sonoramente nel bicchiere. Aza ritira il braccio col bicchiere e si allunga per toccarle la mano. Ci è riuscita. Le due ragazzine sono allacciate per la mano e si sorridono. La voce si fa potente nella testa di Francesca:
“ci siamo incontrate. Non mi abbandonare, sorella.” 
Intanto i compagni stringono e infittiscono il cerchio attorno alle due amiche, vogliono porgere le monetine ad Aza e allo stesso tempo allontanare la donna che, spaventata, piano piano fa dei passi indietro.
Francesca ha ricevuto il messaggio e all’improvviso le è chiaro quello che deve fare e lo fa, coinvolgendo tutta la classe. Tiene per mano Aza e girandosi verso i maestri, che la stanno guardando meravigliati, grida:
Aza verrà con me. Anzi, starà con tutta la classe. Quella donna è una donna cattiva - indica l’altra che si sta ritirando - e la obbliga a mendicare. La dobbiamo allontanare.
È vero? –il maestro si rivolge ad Aza come fosse un’alunna della sua classe. – tu non vuoi stare con quella donna?
No. Non voglio. Lei e quelli che stanno al campo usano i bambini come me per mendicare. Mi hanno portato via dalla mamma e mi hanno costretto a chiedere soldi. – risponde Aza fiduciosa.
Fatemi parlare con quella donna. – il maestro si apre un varco per confrontarsi con la mendicante ma questa era già scappata. Aveva confermato con la fuga le parole di Aza.
Gli alunni erano entrati nel mercatino portando in mezzo a loro Aza, nascosta ma anche protetta. Francesca continuava a tenerla per mano e Aza sorrideva, felice di sentirsi finalmente una ragazzina come loro. Due lacrime le scendevano dagli occhi senza però offuscare il sorriso, che continuava ad illuminarle il bel volto africano.
Adriana e Fatou le stanno a fianco e le accarezzano i capelli.
Francesca, allora la voce che sentivi era la sua? - chiede Togo.
Sì.
Ti ho cercato con la mia voce nascosta. Se avessi parlato mi avrebbero scoperto  e punito. Sapevo che la sorella d’anima mi avrebbe ascoltato, prima o poi. – commenta Aza.
Allora, tu sei sorella d’anima di Aza? - chiede Fatou.
Sì. Sono la sua sorella d’anima. – Francesca l’abbraccia e la bacia.
Che bello! - esclama Adriana – Vorrei anch’io una sorella d’anima.
La maestra Giovanna prende per mano Aza e assieme a Francesca si fa raccontare quello che deve sapere: dove viveva, dov’è il campo, chi sono le persone che l’hanno portata lì, quanti anni ha, se è andata a scuola, insomma chi è Aza. Per il momento Aza starà con la classe ma dovranno trovare chi la possa ospitare. Poi si vedrà come fare con la polizia.
Francesca si è fatta avanti. Non ha dubbi. Aza è la sua sorella d’anima e lei deve trovare una soluzione, almeno temporanea, per ospitarla. Chiede alla maestra Giovanna di telefonare alla mamma in ufficio.
Mamma Laura è stata colta di sorpresa. Ci sono voluti gli interventi sia della maestra che di Francesca perché potesse capire che cosa le stava capitando. L’urgenza di trovare una soluzione immediata per ospitare Aza ha prevalso e Laura alla fine ha accettato di intervenire e prendersi carico, almeno per i primi giorni, della bimba.
Aza, stasera dormiremo insieme nella mia cameretta. Sei contenta? Saremo vicini, vicini.
Azhar non sapeva come fare, era intimidita e nello stesso tempo felice di esser sfuggita dalle mani pericolose della banda di trafficanti d’elemosine e di aver incontrato finalmente la sorella d’anima. Passava dalle lacrime al sorriso, distrutta dall’emozione. Francesca la teneva con sé, aiutata dalle amiche e da Togo, e ognuno le raccontava un po’ della sua storia. Aza stringeva la mano di Francesca e ascoltava col cuore in subbuglio le chiacchiere di quelle ragazzine che l’avevano salvata. Fuori il sole tiepido di novembre splendeva e illuminava una giornata davvero speciale.
 (Fine)

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