DEMOCRAZIA E VERITÀ PUBBLICA
di Fulvio Papi
I filosofi Fulvio Papi e Roberta De Monticelli a destra con in mano "Odissea" il sociologo Nando Dalla Chiesa |
La crisi della democrazia, almeno in
Italia, è in atto da almeno vent’anni. Capisco tuttavia che gli elementi della
crisi che sono evidenti a livello teorico, possano essere tenuti in ombra dalla
pratica politica che continua ad agire secondo gli spazi storici e
istituzionali che pure ormai fragili continuano ad esistere perché non hanno
alternative serie e accettabili. Non mi piace disprezzare il lavoro di
chiunque, ma non riesco a superare l’idea che la riforma del Senato sia un
pasticcio, e, in generale, sia un sintomo ovvio che un ceto politico,
strutturato com’è strutturato, non può riformare se stesso. Lo può fare un
ipotetico potere esterno, come per esempio l’ottimo Tito Boeri sul tema delle
pensioni, subito bloccato dalle considerazioni che le decisioni toccano al
governo, il quale deve tener conto dei poteri diffusi, di potenti corporazioni
privilegiate di cui non può (e non vuole) perdere il consenso. Il cambio
generazionale, oltre a mutare le apparizioni televisive, non ha cambiato e non
poteva cambiare quasi nulla perché, magari in forma critica molto in
superficie, era all’interno del medesimo modello di cultura. Poteva dire il
contrario di un costume, ma il negativo è nella stessa relazione del positivo,
è solo la differenza che si costruisce materialmente a cambiare la scena. Ma
questa è un’impresa difficile, spesso drammatica, e comunque tale che nessuna
istituzione può progettare per se stessa, dato che, insegna la sociologia, ogni
istituzione ha nella sua stessa natura, il presupposto della sua sopravvivenza.
Così accade che si sopravvive con la decadenza culturale rovinosa del ceto
politico (dove il discorso approda rapporto tra gravidanza e incarico di
sindaco, a livello di chiacchiera domenicale, laddove è ovvio che ciascuno è
misura di se stesso). Si considera il malaffare che ormai è intrinseco alla
riproduzione sociale come una serie di episodi circoscritti. Si può parlare di
innovazione tecnologica, di investimenti, di occupazione, di consumo come fosse
un discorso di una evidenza lineare, come se fosse la lettura di un manuale, e
non l’analisi, molto più difficile, di una situazione sociale. E capisco anche
perché questo accada. Nel primo caso si riesce a mantenere un rapporto
“persuasivo” con la dimensione del consumo, cioè della fiducia e della speranza
che latitano non poco, ma di cui vi è bisogno. La seconda situazione è in
direzione, almeno intenzionale, della verità, che qui è una moneta fuori corso.
Non c’è nessuno che, politicamente, possa evadere del tutto da questa
condizione. La politica della verità pubblica (che tanto piaceva a Kant) o è
teoria, oppure si manifesta in condizioni del tutto particolari, quando non si
può evadere dal peso della verità. Noi non siamo in una situazione del genere,
quindi proseguirà il nostro ascolto della retorica d’occasione, delle scelte
non ben ponderate, dell’apparire e del credere. La realtà effettuale è anche
questo. E tuttavia, anche in questa situazione, vi è il peggio e il meglio che
si possono riconoscere, ad esempio, con elementari criteri di giustizia e con
la misura del possibile. Direi che è il sistema della piccola verità che è
stato selezionato dalla nostra storia. Ma almeno su queste cose, ogni politica
verrà giudicata per quello che è, non per quello che dice.