AI
MATURANDI DI TUTTA ITALIA
di
Chiara Pasetti
“Nessun
continente è sessualmente così corrotto come l’Europa
a
causa del matrimonio monogamico contro natura”.
Arthur
Schopenhauer
A. Schopenhauer |
In
questi giorni migliaia di studenti affrontano gli esami di maturità.
Ricordo ancora con emozione e anche un po’ di (giusta?) ansia il
momento del tema, che ora si chiama “prima prova”, ed è per
tutti i maturandi che scrivo queste righe, come un mio personale “in
bocca al lupo” che permetta loro di conoscere meglio uno degli
autori che da sempre, sugli studenti dell’ultimo anno delle scuole
superiori che hanno studiato filosofia, esercita il fascino maggiore:
Arthur Schopenhauer.
Il «saggio di
Francoforte», detto anche «il solitario», è molto gettonato per
le tesine interdisciplinari. Le tematiche che lo chiamano in causa
sono molteplici: l’amore, la morte, il dolore, la sessualità, la
noia, argomenti che intrigano molto i diciottenni (e non solo) che in
quinta si sono trovati alle prese con il secolo dell’idealismo e
del romanticismo, del positivismo, del naturalismo e del verismo, del
simbolismo-decadentismo, e con le grandi avanguardie del ’900.
Anticipatore delle teorie freudiane, malgrado il padre della
psicoanalisi non abbia riconosciuto a sufficienza il debito contratto
nei suoi confronti, Schopenhauer ha esercitato il suo influsso su
molti artisti e filosofi, primi fra tutti Nietzsche, Wagner, Mann, ma
anche Tolstoj, Kafka, Borges, Flaubert e Maupassant, Proust, e molti
altri, tanto che il germanista Verrecchia, uno dei massimi studiosi
italiani del filosofo, in un testo a lui dedicato lo chiama «il
Musagete», e scrive: «come definire altrimenti un filosofo che ha
fornito i canoni estetici a generazioni di artisti?».
Quando si parla
di Schopenhauer tutti gli studenti ricordano la nota teoria del
pendolo, secondo la quale la vita umana è appunto un «pendolo» che
oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso
l’intervallo fugace (e comunque illusorio) del piacere e della
gioia. Questa teoria è una conseguenza della scoperta principale del
filosofo: l’essere è la manifestazione di una Volontà infinita,
una volontà di vivere che pervade ogni essere della natura,
sia pure in forme distinte e secondo vari gradi di consapevolezza, e
costituisce pertanto la radice noumenica dell’universo. Come ha
suggerito Magee, avrebbe fatto meglio a chiamarla «energia», per
liberare questo concetto dall’idea di qualcosa di umano e
consapevole e per rendere quindi più lampante come la sua scoperta
anticipasse, anche se per via puramente speculativa, una visione del
mondo cui ci avrebbe abituato solo la fisica del Novecento. Forse è
proprio questa mancanza di incisività (solo nominale!) nel concetto
base della sua filosofia che ha provocato l’insuccesso iniziale del
suo Mondo come volontà e rappresentazione, testo fondamentale
dell’Ottocento, che verrà apprezzato soltanto molti anni dopo la
pubblicazione. Sostenendo che ogni essere ha in sé un forza, cieca,
senza scopo, eterna, unica e inconscia, la Volontà appunto,
Schopenhauer dice anche che vivere
è desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato continuo
di mancanza, di assenza, di vuoto, di tensione… di
dolore, dunque.
“Il
desiderio, la privazione, sono infatti condizioni preliminari di ogni
gioia. Ma con la soddisfazione cessa il desiderio, e quindi anche la
gioia. La soddisfazione, la felicità, si riducono in fondo alla
liberazione da un dolore e da un bisogno. […] Di che s’ha una
conferma nell’arte, fedele specchio dell’essenza del mondo e
della vita: e specialmente nella poesia. Un poema epico o drammatico
conduce alla meta gli eroi, e appena raggiuntala, fa calare il
sipario. Non rimane più altro, infatti, che dimostrare come lo
splendido fine in cui l’eroe sognava di ottenere la felicità, non
fosse che un inganno; come il conseguimento non abbia reso l’eroe
più felice di prima. La felicità vera e duratura, essendo
irrealizzabile, non può nemmeno costituire l’oggetto dell’arte”.
Con i buoni
sentimenti si fa cattiva letteratura, diceva Gide. Nessun oggetto del
volere, una volta conseguito, può dare un appagamento durevole, e
assomiglia «all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga
oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento». Se il
dolore si identifica con il desiderio, che è la struttura stessa
della vita, ne consegue una visione estremamente tragica, che si
esprime nell’ultrapessimismo della «nullità dell’esistenza».
Per liberare l’uomo non dal dolore, ma dalla stessa volontà di
vivere, Schopenhauer propone un iter salvifico che si articola in tre
momenti essenziali: l’arte, la morale, e infine l’ascesi. I primi
due sono in grado di spezzare solo temporaneamente le catene della
volontà; il solo modo per estirpare totalmente il proprio desiderio
di esistere, di godere e di volere consiste nell’ascesi, che fa
capo al nirvana buddista. Ora, il primo passo dell’ascesi è la
castità perfetta, che deve liberare l’uomo dalla prima e
fondamentale manifestazione della volontà di vivere, ossia l’impulso
alla generazione e alla propagazione della specie. In uno suo
scritto, da lui stesso definito «una perla», La metafisica
dell’amore sessuale, ci dimostra che l’amore, la più
violenta e tirannica delle passioni, è un inganno della natura, alla
quale sta a cuore la specie e non l’individuo, che essa tratta come
uno strumento o un semplice «zimbello».
Non c’è
amore senza sessualità, ogni innamoramento affonda le sue radici
nell’istinto sessuale, e l’unico amore di cui il filosofo può
tessere l’elogio non è quello generativo dell’eros, ma quello
disinteressato della pietà, ma siamo sicuri che lui seguì davvero,
in pratica, quello che andava elaborando in teoria? Assolutamente no!
Questo gli studenti non lo sanno. Schopenhauer non è soltanto il
filosofo del pessimismo, del pendolo e dell’ascesi, non è il
«salice piangente della filosofia», e meno che mai un misogino,
come i passi sulle donne possono far pensare (uno per tutti, «alle
donne come ai preti non va fatta alcuna concessione»…). Ebbe
moltissime amanti, moltissime passioni, fu un donnaiolo insomma, un
«predone di alcove». Ebbe anche vari amori italiani, fra cui una
veneziana di nome Teresa Fuga, per colpa della quale mancò un
incontro con un’altra natura, al pari della sua, «demoniaca o
dionisiaca a seconda delle circostanze», ossia il grande Byron. Lui
stesso scrive che in Italia non godette «solo il bello, ma
anche le belle», predicava bene e razzolava male, dunque?
Certo è che quando afferma che «se la passione di Petrarca fosse
stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito», lascia intendere
che la cosa non valeva affatto per se stesso… «Ho insegnato che
cosa sia un santo, ma non ho detto che lo sia io», appunto! La sua
amante Teresa Fuga gli spedì una lettera in cui gli comunicava il
suo desiderio di rivederlo e riabbracciarlo; questa lettera era
indirizzata «all’Onoratissimo signor Arthur Scharrenhans» [sic!].
Il filosofo deve essere inizialmente inorridito per questa
storpiatura, lui che si rifiutava di pagare le fatture se il suo
cognome era scritto con due p! Ma a sbagliare la grafia era stata una
bella donna, che gli piaceva, e molto, se per lei attraversò
l’Italia ritornando da Roma a Venezia, e dunque fece buon viso a…
cattivo cognome!
Ragazzi, futuri
maturandi e non, almeno voi cercate di scrivere il cognome del grande
filosofo, così come quello del suo allievo più celebre, Friedrich
Nietzsche, fra i più storpiati della storia della filosofia,
correttamente!
E ancora in
bocca al lupo di cuore per gli esami di maturità, e per il
proseguimento dei vostri studi.