Il cyber-bullismo, da dove iniziare?
di Giuseppe Oreste Pozzi
Giuseppe Oreste Pozzi |
Premessa
«Se
hai mai amato il tuo tenero padre…Vendica il suo assassinio ignobile e
mostruso!» (Atto I, scena 5). Chi parla è il Ghost che torna a domandare ad
Amleto di pagare, al suo posto, il debito cha ha per il fatto di essere morto
«falciato nel pieno fiore dei [suoi] peccati». Ciò che fa di questo padre (di
Amleto) una vittima ma anche un bullo dei nostri giorni, per così dire, è il
fatto che egli, in quanto padre, domanda vendetta. Un padre che lascia in
eredità al figlio la responsabilità di una vendetta e di una rivendicazione
radicale. Il padre si presenta come castrato (è addirittura morto), ma rifiuta
di sopportarne lui stesso il prezzo di tale condizione. Lo spettro si mostra
come un io ideale, come eroe tradito che rivendica giustizia per mano del
figlio. Un eroe che non accetta i suoi limiti, i suoi peccati, i suoi sintomi,
potremmo precisare, cioè la sua condizione di soggetto che parla, di soggetto
nato come essere parlante e, quindi, come essere limitato.
Anche
Caino, molto tempo prima del Ghost di Amleto, non vuole pagare il suo debito
(di castrazione per i suoi peccati/sintomi). Preferisce, anzi, sceglie di
uccidere il fratello Abele intento nel sacrificare a Dio in quanto consapevole
del proprio limite, del proprio sintomo di essere umano e parlante, del proprio
essere di soggetto mancante di qualche cosa.
Il
nostro tempo non ha più niente a che vedere con il peccato (almeno sul piano
sociale e politico), non ha più nulla a che vedere con la mancanza e con la
privazione. La psicoanalisi potrebbe proporre di usare, al posto del termine
peccato, il termine sintomo che per Freud va a braccetto con il godimento.
Sintomo/Godimento costituiscono, quindi, il peccato sfacciato della modernità.
Rimane il fatto che, l’odio e la vendetta, sono segnali chiari e sono lì a
dimostrarci che le cose non stanno proprio così. Questo tempo non è passato
affatto. Il peccato o meglio il sintomo esistenziale che testimonia del
malessere dell’essere parlante, continua a mostrare il dis-agio della modernità
e a esistere imperterrito anche se il paradigma sociale moderno appoggia la
propria illusione sul “perché no?” per tutto quanto un tempo era proibito, non
giusto etc.. Questo mi piace, quest’azione mi dà adrenalina, questo oggetto mi
fa godere ed allora perché no?
La
salita allo zenit dell’illusione del possesso dell’oggetto, avviene di pari
passo con la salita allo zenit dell’illusione di avere tutte le libertà che si
vogliono e anche con la così detta evaporazione del Padre. Un’evaporazione che
arriva ad abolire il Sacro, arriva a far legiferare alcuni Stati che aboliscono
il reato di blasfemia. In questa prospettiva, il rispetto per il soggetto
(dell’inconscio) è già morto da tempo. Si tratta di una morte perseguita dalle
istituzioni sociali quando tendono a articolarsi attorno alle ideologie del
benessere, date dall’oggetto posseduto e/o da possedere, dagli standard, dai
protocolli, dalla materialità dei benefici e dei risultati da ottenere a
qualunque costo, al punto che sul trono c’è sempre un oggetto da volere e
possedere per una qualche soddisfazione necessaria.
Il
soggetto, totalmente fuso con il suo oggetto da consumare, rischia di venirne
alienato o sepolto. Istituzioni mortifere e tombali che non riescono a dare
spazio al soggetto pur essendo mosse dall’illusione di volerlo salvaguardare
sotto l’egida della giustizia e del benessere uguale per tutti.
Le
istituzioni stesse, per altro, offrono e costituiscono il palcoscenico, il
teatro, la palestra per l’esibizione del proprio sintomo/godimento, della
propria volontà di potenza sugli altri. L’altro è spesso il diverso da me da
vessare, da usare, da sfruttare al servizio del proprio interesse personale. Il
battito desiderante del soggetto, come strumento per la costruzione del legame
sociale e al servizio della pulsione di vita, lascerebbe il posto alla pulsione
di morte che si è insinuata in tutte le istituzioni a partire dalla famiglia.
Il principio dell’individualismo, dell’utilitarismo e del personalismo invece
di cedere il passo all’interesse e al legame sociale contamina le istituzioni a
partire dalla famiglia come istituzione che persegue in modo chiuso e radicale
il proprio individualismo istituzionale.
La questione
Il
bullismo è un fenomeno noto agli esseri parlanti dai tempi di Caino e Abele,
sempre che non si voglia andare più indietro nella storia. Come il bullo
moderno, di tale uccisione Caino non se ne fa carico, quando il Padre Eterno
gli chiede dove sia suo fratello, lui nasconde la mano “non sono io custode di
mio fratello”. Dio, diversamente dal Ghost, in questo caso, non viene a
chiedere vendetta. Chiede semplicemente a Caino dove abbia messo la sua
questione, cosa stia facendo con la sua stessa esistenza, chiede a Caino cosa
abbia fatto del suo legame fraterno, del suo legame sociale! Sulla metafora di
Caino e Abele, come struttura di base del Cyber-bullismo ci torneremo fra un
istante.
Il
Cyber bullismo sarebbe un’esperienza storica recente che si basa, tuttavia, su
vecchi schemi e antichi modelli. Schemi e modelli molto noti non solo a tutti i
sistemi mafiosi o di intelligence che, come noto, conoscono e praticano
quotidianamente tale schema. Da quando, cioè, chi comanda e ordina la violenza
contro qualcuno, non è la stessa persona che la agisce. Anche Caino nega
l’esistenza di quella parte di sé che agisce la violenza per l’invidia e la
gelosia che cova l’altra parte di sé. La rete internet favorisce questo sdoppiamento
di personalità e diventa uno strumento potente e micidiale nascondendo o
comunque tenendo nell’ombra chi schiaccia il bottone, chi preme il tasto. Un
fenomeno molto noto e verificabile anche in tutte le famiglie e non c’è bisogno
che ci siano tanti figli per capire come funziona la logica di questa
operazione distruttiva. Si tratta sempre di una logica soggettiva anche se
cerchiamo di affrontare la questione con strumenti sociali. È fin troppo noto
l’esempio che riporta lo stesso Sant’Agostino quando racconta della grande
rabbia del fratellino che ancora non parlava ma già si avventava contro il
neonato percepito usurpatore della madre, cioè del proprio bene inalienabile.
La madre come bene inalienabile nella percezione del bambino occorre che
diventi interdetta dal padre e non dal bambino piccolo geloso e invidioso del
neonato.
Questa funzione interdittiva va costruita già nell’istituzione
famiglia perché possa diventare l’elemento propulsore che, proprio nel momento
in cui riesce a separare simbolicamente il bambino dalla madre, cioè a
svezzarlo, riesce a organizzare e costruire il legame sociale. Il legame
sociale come effetto dello svezzamento/separazione tra madre e bambino.
Valorizzare la differenza tra soggetti significa proprio imparare ad andare oltre
l’invidia e la gelosia per costruire un legame simbolico e, per questo,
sociale. Dal momento in cui la madre riesce a distrarsi dal proprio bambino
come oggetto di godimento questo stesso fatto costituisce la base perché il
bambino impari a riconoscere che cosa sia un desiderio. La madre che desidera
al di là del bambino permette al bambino di imparare a giocare. Il gioco della
dialettica desiderante. Un gioco che passa dall’oggetto del desiderio,
dall’oggetto artistico in quanto oggetto inventato per esplorare il
funzionamento della dialettica desiderante. La serie infinita delle invenzioni
e delle creatività artistiche sono già l’effetto di questa abilità del bambino
al gioco simbolico.
Noi
abbiamo deciso, allora, di utilizzare, nel nostro lavoro clinico, gli strumenti
e gli oggetti messi a disposizione dall’arte.
Il
connubio arte e psicoanalisi è particolarmente fecondo. Forse più
sorprendentemente fecondo del tentativo di far dialogare tra loro scienza e
psicoanalisi, medicina e psicoanalisi. Non che queste differenti posizioni
siano in antagonismo tra loro, ma certamente la scienza o meglio lo scientismo
è molto più segregativo (come i sistemi burocratici) che non l’arte. Non è un
caso che per J. Lacan e per S. Freud l’arte è sempre aventi un passo dalla
psicoanalisi ed allora, noi psicoanalisti abbiamo deciso di fonare delle
istituzioni (rette sul sistema burocratico) ma facendo praticare ai nostri
ospiti esperienze ed incontri con l’arte, con l’espressività.
L’espressione
artistica o il gioco simbolico-espressivo permettono al soggetto di presentarsi
già con un suo discorso. “Senza l’arte ci sarebbero troppe cose da spiegare” si
legge sui muri delle case di Pavia, nel centro storico. L’angoscia e il
godimento non sono spiegabili ma testimoniabili in qualche modo perché vengono
manifestati. Il fatto stesso di poterli testimoniare ed avere un luogo ed un
tempo per poter esprimere in un atelier-laboratorio espressivo quanto si
vorrebbe dire senza avere le parole per dirlo è già una esperienza di incontro
pacificante per l’individuo.
Testimonianze di
artisti
Perché
utilizziamo l’arte anche per poter incontrare i così detti bulli ed aiutarli ad
essere in grado di misurarsi con le loro paure e con le loro difese troppo
distruttive?
Perché
l’arte ha il valore della trasparenza simbolica favorendo lo slancio
immaginario, per così dire, lo slancio creativo sia a livello delle forme sia
livello dei contenuti. Per poter aiutare i ragazzi e gli adolescenti a non
avere paura della vita e a superare i momenti di angoscia esistenziale che li
disorienta, occorre che imparino a parlarne. Là dove la parola non riesce
ancora a prendere corpo, l’azione espressiva può agevolare la domanda di aiuto,
può aiutarli a testimoniare quanto urge dentro la loro condizione esistenziale
insopportabile. Tutti i comportamenti distruttivi dei ragazzi, quelli contro sé
stessi ed il proprio corpo e quelli contro gli altri e contro le regole sono
una testimonianza evidente, attraverso i loro agiti scomposti, di una non
preparazione a sentirsi accolti e riconosciuti nel loro discorso personale e
anche perché non hanno ancora gli strumenti utili, opportuni e necessari, per
poter essere loro stessi a pronunciare o a farsi degnamente rappresentare dal
loro stesso discorso.
L’arte
o gli atelier dell’espressività sono lì a disposizione per permettere ai
ragazzi e agli adolescenti di potersi far rappresentare da un qualsiasi segno
che loro stessi, tuttavia, decidono di proporre e di offrire. Ogni segno, ogni
discorso è pur sempre una domanda rivolta all’Altro che potrà, quindi,
accoglierlo. La domanda rivolta all’Altro è già un modo simbolico per evitare
l’agito immaginario e difensivo. Quello che conta è che qualcuno sia lì ad
accogliere questa domanda. Non si tratta, allora di diagnosticare chi sa quale
bisogno da curare, ma di favorire l’espressione e la rappresentazione della
domanda che urge dentro anche se non ci sono ancora le parole per pronunciarla,
una domanda di aiuto possibile, riconoscibile e accoglibile.
Come
insegnano Freud e Lacan, l’angoscia, quella esistenziale che attanaglia i
ragazzi e gli adolescenti e non solo loro, è sempre una risposta alla libido.
Un troppo di libido ci sommerge di angoscia ed è quindi la libido che deve
essere, per così dire, negativizzata, contenuta, aggirata, limitata,
circumnavigata, presa in giro, bordando il buco stesso di tale angoscia. Sì
perché l’angoscia è un vero e proprio buco nero. Freud parlava di angoscia
senza oggetto mentre per la stessa ragione Lacan parla dell’angoscia il cui
oggetto è l’oggetto vuoto, il buco nero, appunto, l’urlo di Munch è, se
vogliamo, una testimonianza esemplare di come possa prendere forma il buco nero
dell’angoscia. L’arte è lo strumento principe per mettere al lavoro queste
operazioni di aggiramento o meglio di circumnavigazione del buco nero
dell’angoscia. Gli atelier-laboratori che organizziamo e sviluppiamo
valorizzano ovviamente gli oggetti dell’arte.
I quadri di
Michele Miotto
Un
esempio classico di come la questione soggettiva può essere messa in gioco a
partire da un’esperienza di incontro con l’arte figurativa è quella che ci
offre Michele Miotto che ha partecipato al festival dell’espressività Stanze di
Psiche del 2016 il cui titolo era “Cosa Mangio e con chi Parlo?”. Di seguito
qualche testimonianza di tale artista. Questo quadro porta il titolo “Il
tormento di Ligabue”, per esempio ed è stato donato, dall’autore ad Artelier.
Lo si può vedere, ora, esposto presso il Centro Diurno Antennina di Milano
all’interno della Società Umanitaria di Milano. Il quadro “Senza nome” rimanda
alla oscurità di un futuro ancora innominabile e, per questo, pieno di
angoscia, di terrore e di attesa non conoscibile, non pensabile, non
percepibile e, forse, ancora insostenibile.
Michele Miotto "Il tormento di Ligabue" |
Dopo
questi lavori espressivi l’autore ha capito che poteva rimettersi in viaggio e
tornare alla sua terra. Riannodare la sua vita alle sue stesse radici invece
che rimanere in Italia dove aveva potuto riprendere sì in mano la propria vita,
ma senza riuscire a sentirsi a proprio agio, senza sentirsi a casa propria. La
rabbia da esule si trasforma in energia per riprendere la propria strada nella
propria terra, in Africa.
Michele Miotto "Senza titolo" |
Autori famosi
Se
ora decidiamo di accostare i prodotti artistici di autori famosi ci potremo
rendere conto, molto semplicemente ed empiricamente, di come le questioni che
vengono messe in evidenza e che rinviano alla elaborazione personale e
soggettiva sono facilmente connesse con una modalità di elaborazione personale
dell’angoscia indipendentemente dalle latitudini e dai tempi storici.
“L’urlo”,
realizzato a Oslo, da Eduard Munch è uno ei più famosi dipinti
dell’espressionismo nordico. Angoscia e smarrimento non segnano solo il pittore
norvegese, ma la vita di tutti gli esseri parlanti, anche se un artista, forse,
è più sensibile dei comuni mortali. Potremmo usare come metafora significativa
e suggestiva una delle tante spiegazioni di questo quadro che potrebbe essere
la rappresentazione di un uomo il quale, nel vedere un tramonto rosso e così
incantevole, si mette ad urlare il suo grande stupore, la sua grande meraviglia
e la sua grande angoscia nel sentirsi troppo piccolo nell’immensità
dell’universo in cui vive.
Munch "L'urlo" |
La presenza
partecipata e trasparente degli adulti
L’effetto
pacificante delle opere, anche di quelle appena proposte, dipende
sostanzialmente dal fatto che si riescano a realizzare e ad avere qualcuno che
le riconosca, che le accetti. Accettare un oggetto realizzato da qualcuno
significa accettare e riconoscere chi lo ha fatto, chi lo ha prodotto. Quando
un’opera riesce a ben testimoniare il dramma soggettivo del suo ”artista”
allora è possibile che raggiunga un effetto educativo perché rappresentativo
del discorso del soggetto. Almeno per due ragioni:
L’autore,
il soggetto, si concentra sul suo fare e sul suo esprimere quanto sente e
questo ha già, come effetto una migliore gestione di quanto sente, di quanto
percepisce;
Il
soggetto, l’autore, realizza qualche cosa che ha a che fare con il suo
desiderio esistenziale anche se non riesce a soddisfare o tacitare o calmare
completamente quanto gli urge dentro (la pulsione che gli “urla” dentro);
Le
condizioni che gli permettono di fare quello che riesce a rappresentare lo
distraggono sia della propria angoscia sia dalla propria paranoia ed odio
esistenziale;
Le
condizioni che gli permettono di fare quello che riesce a rappresentare lo
trattengono anche dal praticare danni su di sé e sugli altri.
Il
lavoro che ci troviamo a fare è di dedicare del tempo a coloro che si rivolgono
a noi e ai loro familiari per capire meglio, non a partire da una diagnosi che
di solito bisogna fare in fretta e usando schemi preconfezionati e rischia di
diventare una grave etichetta sociale più che uno strumento clinico. Non per
sottolineare e dare troppa importanza ai sintomi che sono di solito fin troppo
evidenti, come aggressività, crisi reattive etc. Ci diamo del tempo per capire,
caso mai, da dove vengono questi disturbi, che storia personale e familiare e
sociale hanno questi sintomi. Si tratta di cogliere, allora, la questione
preliminare e soggettiva ad ogni possibile trattamento clinico. C’è sempre una
pista per cogliere una qualche congiuntura drammatica anche se negata dal
soggetto, per incominciare a costruire quella fiducia di base da cui far nascere
un percorso personalizzato e possibile. L’arte come strumento è certamente un
mezzo. Diagnosi e cura sono la cadenza temporale di un discorso unico ed
armonico e non un modo per separare il tempo ed il luogo di chi fa diagnosi da
chi fa terapia, come succede in tutte le istituzioni sanitarie e scolastiche.
Un
caro amico psichiatra, psicoanalista e organista che lavora da anni con i criminali del Carcere di massima
sicurezza di Catania ha trovato come valorizzare la musica per un lavoro
clinico efficace con loro. Sono molto interessanti i suoi racconti e i suoi
articoli che descrivono come sia riuscito a costruire, tra quelle mura e con
tali personaggi apparentemente incalliti del crimine, delle condizioni
favorevoli sul piano clinico per la riabilitazione dei condannati per pene
molto gravi. Si trova, cioè, ad ascoltare le crisi di pianto di questi
criminali incalliti che dimostrano di non avere paura a mostrarsi a piangere
davanti a brani musicali particolarmente toccanti. È, per loro, la porta di ingresso per
incominciare a testimoniare un proprio discorso soggettivo di elaborazione
possibile dei loro misfatti che né loro, né il direttore del carcere non
pensavano certo di incontrare in questo luogo.
Un breve esempio
clinico
Non
si tratta di usare un sapere valido per tutti.
Si
tratta di capire come usare il sapere al servizio del soggetto, uno per uno e
non per tradurlo in una tecnica “standard” valida per tutti.
Avendo
da gestire Comunità terapeutiche residenziali per minori e centri diurni per
minori, adolescenti e giovani adulti, dove ovviamente abbiamo dovuto installare
Pc ed internet ci troviamo anche noi esposti a questioni delicate e da gestire
nel regolamentare l’uso di tali strumenti. Il caso che vi presento tuttavia non
è preso dalla questione con internet perché credo riesca a mostrare più
facilmente il sistema come intervento clinico da pensare.
Vi
propongo, quindi, un esempio la cui dinamica è evidente agli operatori che se
ne occupano sapendo che il format di tale dinamica è analoga a quella che
stiamo ascoltando oggi sul tema del Cyber Bullismo.
Due
ragazzi uno che mostra tutta la sua forza e la sua violenza contro chiunque ed
un altro ragazzo che, invece, si presenta come pulito ben educato e
intelligente. Abbiamo bisogno di un po’ di tempo per capire che, insieme,
costituiscono una coppia devastante nei confronti del gruppo in cui si trovano inseriti,
all’interno di uno dei nostri Centri
Diurni.
1. Quando abbiamo
capito che Renzo (il ragazzo che fa il bullo) è semplicemente la mano armata di
Luciano (la mente che decide come utilizzare la mano), decidiamo che si deve
affrontare la questione con molta delicatezza ma anche con grande trasparenza e
nel rispetto di tutti. Facciamo allora una riunione con i due ragazzi
dichiarando apertamente quello che ci pare di capire che avvenga tra loro ed il
gruppo che in certi momenti sembra proprio ostaggio della coppia, benché
nessuno riesca a cogliere immediatamente il legame che c’è tra Renzo e Luciano.
2. I due ragazzi,
prima incontrati a tu per tu e poi insieme, non hanno difficoltà ad ammettere.
Con il loro assenso decidiamo che è necessario stabilire un accordo e
proponiamo loro delle ipotesi. Ci penseranno una settimana e nel frattempo
concordiamo di informare anche i loro familiari;
3. I familiari
concordano sulla proposta;
4. Incontriamo
nuovamente i due ragazzi per stabilire i termini dell’accordo che viene scritto
e sottoscritto dai ragazzi stessi: il Centro Diurno organizzerà sempre due tipi
di atelier-laboratori: mentre tutti i ragazzi potranno decidere a quale
laboratorio iscriversi per loro, la scelta, sarà obbligata nel senso che il
laboratorio frequentato dall’uno non potrà essere frequentato anche dall’altro.
Il nuovo programma avrà una durata di due mesi e poi si rifarà il punto della
situazione insieme, ragazzi ed operatori;
5. Il monitoraggio
ha subito mostrato una maggiore possibilità di gestione dei due ragazzi. I
tempi del monitoraggio sono diventati i tempi di una scansione clinica che
mostra che è possibile. Il delirio a due che si era innescato è stato spezza a
favore di una costruzione simbolica difficile ma possibile.
Per un legame
sociale costruttivo
Se
le guerre si fanno sempre in due, nel nostro caso tra una vittima e un
carnefice, la pace la si costruisce e la si raggiunge da soli, possiamo dire.
Che cosa significa?
Le
guerre sono figlie dell’immaginario che funziona come luogo della fuga in una
vita inautentica come dice Carlo Sini. La vita inautentica è una questione di
tutti, accompagna la vita di tutti. Non ho mai conosciuto una persona che possa
dire di essere completamente soddisfatta -continua Carlo Sini- Non abbiamo
ragioni molto valide per argomentare questa insoddisfazione di una vita
inautentica (1).
Peer
questo è necessario quello che chiamiamo il lavoro simbolico del soggetto, uno
per uno. Si tratta di un lavoro, appunto. Come tutti i lavori richiede impegno,
costanza, applicazione personali e si può incominciare, anzi conviene
incominciare ad esercitarsi, in questo lavoro simbolico, a partire dal un
battito desiderante che di solito si produce in tutti gli esseri parlanti! Non
si tratta di un divertimento prêt á
porter, per così dire. Si tratta di un lavoro che passa certo attraverso il
gioco, il gioco simbolico, appunto, e richiede esercizio, non una fuga.
Carlo
Sini, rivolgendosi ai giovani, li esorta in modo forte: “Prendi coscienza della
tua non originalità” (citando Sartre) “incomincia a pensare che quello che
pensi non è proprio affare tuo – la rivoluzioni che pensi di essere l’originale
interprete non è proprio tutta tua etc.”
La
prima forma di vita inautentica è il furore e l’odio di vivere, sottolinea
Carlo Sini. L’odio e il furore che vengono tramandati e che non vengono
elaborati sarebbero la prima forma di vita inautentica per l’essere parlante.
L’effetto delle
bugie dei grandi
“La
lotta per il diritto ad avere dei segreti non condivisi dai genitori è uno dei
più importanti fattori della formazione dell’Io, della delimitazione e
realizzazione di una volontà propria” (2), scrive Viktor Tausk, 1879,
psicoanalista morto nel 1919 giovane e poco noto e anche forse un po’ scomodo
per quello che scopriva con le sue ricerche ma non meno importante nel
movimento del pensiero psicoanalitico, scrive un testo straordinario sulla
schizofrenia descrivendo il funzionamento della così detta “macchina
influenzante”. In una nota a pag. 163, del testo citato, arriva a puntualizzare
come avviene il passaggio dall’epoca in cui il bambino non dubita ancora del
fatto che i genitori e gli educatori siano onniscienti all’epoca invece in cui
scopre l’importanza del diritto alla bugia. La prima bugia riuscita segna uno
spartiacque importante e il periodo delle bugie inizia molto presto, fin dal
primo anno di vita. “Le ho osservate soprattutto in bambini che resistono alla
rigida regolamentazione dell’attività escretoria... preferendo fare i loro
bisogni nel letto piuttosto che nel vaso. Quando un bambino ha interesse a
mentire per difendere un piacere proibito, l’educatore, che in questo caso si
lascia ingannare, per salvare la propria autorità e costringere il bambino a
dire la verità, può appellarsi soltanto all’onniscienza divina (siamo tra l’800
e i primo del ‘900). L’introduzione di un Dio onnisciente nel progetto
educativo diventa tanto più necessaria in quanto i bambini imparano a dire
bugie proprio dagli educatori”. L’alibi della divinità che sa tutto non esiste
più da molto tempo ma anche allora i bambini anche molto piccoli riuscivano a
“smascherare in Dio il fantasma del potere genitoriale detronizzato, prima di
tutto quello paterno.”
Il
fatto che prima il bambino crede che i grandi possano conoscere i suoi pensieri
e poi che lui stesso riesca a imbrogliare i grandi avendo imparato da loro
appartiene al fatto di essere soggetti di parola e figli di esseri parlanti. È
proprio il ricorso alla parola, tuttavia, che può sempre offrire una via di
uscita all’impasse esistenziale a condizione che si tratti di parola svelante
l’azione e il pensiero del soggetto anche se è impossibile poter conoscere
tutta la verità soggettiva. Anche se è impossibile contenere con la parola le
pulsioni che agitano il soggetto, anche se è impossibile eliminare, con la
parola, il godimento mortifero di certe azioni del soggetto. Pur non avendo, la
parola simbolica un potere così grande da contenere tutte le pulsioni e
pacificare definitivamente il soggetto è pur vero che l’arte come forma
simbolica educabile ha un valore ed una potenzialità clinico-culturale
significativa. È importante allora, come educatori, come clinici, come genitori,
essere alla ricerca delle condizioni che permettono l’incontro con l’oggetto
dei propri interessi, quanto meno per contribuire a far nascere quel battito
desiderante che può dare uno scopo ed un orientamento alla pulsione. Un
orientamento che può trasformare l’energia della pulsione da distruttiva a
costruttiva di un legame sociale possibile.
L’insegnamento
dei fratelli Caino e Abele e Amleto con suo padre
Platone
definisce l’uomo Mortale e parlante. L’essere di linguaggio si definisce per la
sua finitezza, per il suo limite mortale. I miti di Caino e Abele e anche
quello di Amleto sono rappresentazioni drammatiche di tale realtà. Il
desiderio, come forma di vita e di speranza per l’essere parlante, per il
soggetto, rischiano come insegnano questi miti, di soffocare e di non produrre
gli opportuni effetti di piacere esistenziale a causa della pulsione di morte
che attacca il desiderio alla radice. Il desiderio vitale di ciascuno è
attraversato costantemente dalla pulsione di morte, a meno che il soggetto non
incominci a lavorare con sé stesso, per elaborare la propria condizione di
essere mortale imparando a incontrare e accettare, in questo modo, il proprio
destino. Accettare e incontrare il proprio destino è il lavoro necessario per
pacificarsi nella propria esistenza e gioire della propria vita quotidiana.
Senza questo lavoro utile e necessario si è più facilmente esposti all’eredità
della vendetta personale, familiare e sociale. Una vendetta che assieme alla
noia esistenziale troppo spesso sono alla base dei fenomeni di bullismo che
invadono scuole e strade di ogni città. Ogni forma di aggressione può essere
considerata come un modo per difendersi illusoriamente della mancanza
strutturale che ci appartiene fin dalla nascita. L’illusione di onnipotenza, l’illusione
di potere avere tutto quello che si vuole, sono le seduzioni più semplici e più
disastrose per ciascuno di noi. Queste illusioni sono le vere bugie che il
soggetto si racconta anche per giustificare il proprio comportamento quando non
riesce a gestirsi la propria condizione di malessere di base.
Sono
proprio questi miti che abbiamo rievocato a insegnarci la necessità di
diventare coscienti della nostra limitatezza personale e sociale, della nostra
condizione di esseri finiti e mancanti. Forse è proprio questa la prospettiva
attraverso la quale la coscienza dell’inauteticità di cui siamo affetti, può
diventare la nostra opportunità di autenticità.
Il
paradosso e la sfida più utile e opportuna sono dati dalla condizione
necessaria per diventare soggetto autentico in quanto desiderante. È a partire
da ciò che non ho, accettandolo, che occorre imparare a muoversi nel mondo. La
tentazione, invece, è quella di darsi da fare per rivendicare quello che
vogliamo, con odio e con la rivoluzione.
Meglio,
allora, trovare il modo di conquistare la propria posizione nel mondo con
invenzione e creatività, sempre incompleta e insoddisfacente ma pragmatica e
concreta. Non l’assimilazione a un modello come quello offerto dall’odio e
dalla vendetta ma la creatività soggettiva dell’uno per uno e, in questo,
l’espressività e l’arte sono strumenti, non obiettivi, ma tali da poter
finalmente offrire il modo per incontrare la propria autenticità, la propria
follia d’amore per la vita accettata e riconosciuta. Testimoni e attori del
proprio destino incontrato e incontrabile ogni giorno.
Note
1).Si possono
trovare queste questioni nella sua conferenza
“Come si diventa ciò che si è? Su YouTube
2). Tausk Victor, Scritti psicoanalitici, Astrolabio,
1979, pag. 163