Il Racconto
L’AFFRESCATO
Lisa Albertini
Orfeo,
come aveva progettato, allo scadere dell’ora di chiusura al Castello, in cui
era entrato da turista, si era nascosto non si sa come, né dove, ed era
riuscito a rimanervi all’interno dopo l’uscita del custode. Al buio. In un
castello del milleduecento sito a picco su uno sperone roccioso, pochi
chilometri fuori dalla città di Bolzano, immerso nel totale silenzio di
montagne, boschi, vallate e nella pausa notturna di qualsiasi attività.
L’uomo aveva portato con sé
macchina fotografica, pantofole ovattate e un’ottima lampada. Voleva osservare
da vicino, in tranquillità, tra decori e scene affrescate nelle stanze, una
raffigurazione cavalleresca, studiarne il genere di affresco, in voga nel
tredicesimo secolo, i materiali e la tecnica usata. Così da poterla riprodurre
nel proprio studio, in completa solitudine e all’insaputa di tutti. Restauratore
e affreschista, di quello si nutriva da anni, nel corpo e nello spirito.
L’aveva voluto chiamare
Orfeo sua madre, quel giorno in cui il bimbo stava per nascere, e lei pensava
ai sogni. Un cantore di miti, sarebbe stato. Per sé e per gli altri. Così, l’aveva
cresciuto insegnandogli a sognare davanti alle figure, disegnate o dipinte, di
scene medioevali o cinquecentesche con vicende cavalleresche, al punto da
indurgli il desiderio di riprodurle. Cui si unì, nel tempo, anche il gusto di suonare
il mandolino cantando antiche ballate, alla medesima stregua dei giullari di
corte.
Riprodurre le scene
dipinte significava per lui amarle nel profondo dell’animo, con ogni possibile
variazione di sfumatura, da qualsiasi prospettiva, in diverse gradazioni di
tinta, in relazione al loro stesso significato. Voleva dire entrarvi dentro ed
essere preso dalla vicenda che rappresentavano. . .
Quella sera si accinse
quindi a fermarsi nel salone, da solo. Identificò anche un ripostiglio dove
potersi nascondere, in caso di necessità: aveva una porta senza maniglia, una
sorta di finto quadro con una grossa cornice dai contorni a rilievo che si accostava
basculante, per chiudersi con il solo peso.
Orfeo contava di fermarsi
l’intera notte. Il giorno successivo, con un po’ di fortuna sarebbe sfuggito
nuovamente all’attenzione del guardiano, uscendo con altri turisti al cambio
del personale di biglietteria.
Nel guardare con estatica
meraviglia le sequenze di affreschi, che decoravano le pareti del salone delle
feste, ne trovò uno di particolare interesse. Prese ad osservarlo e lo fece per
lungo tempo.
Vi fu un momento in cui cercava
di cogliere al meglio il particolare di un cavaliere, poco prima eretto e fiero
e fiero sulla sella, poco dopo vittima di un duello, steso a terra perché
disarcionato da cavallo. Si era fermato di fronte al dipinto e vi aveva
proiettato la luce, osservando l’armatura, dinoccolata lungo la corporatura
prona, là dove lasciava scorgere il rosso della giubba. Il cavaliere, che si
era presentato sicuro, prestante, non era più lo stesso: la prostrazione
l’aveva colto, suo malgrado, e lasciava scorgere solo qualche traccia, del rosso
carminio che prima lo animava. Fu allora, tuttavia, che una sensazione strana
percorse corpo di Orfeo: egli lo sentì piegarsi sulle ginocchia e, senza por
tempo in mezzo, cadere. Una caduta rallentata e incruenta, ma tuttavia reale.
A terra, trasecolato dalla
sorpresa, si chiedeva come e perché. Cercò di tornare in piedi, ma senza
riuscirvi. Peraltro, non percepiva dolore di alcun genere e il resto del corpo
funzionava normalmente. Tuttavia, dalla cintura in giù, non rispondeva.
Pensò ad altri episodi, di
cui aveva avuto notizia senza tuttavia venirne a capo, tanto più che era vigile...
Si costrinse a più respiri
profondi con cui accantonare, per un poco, la paura che l’aveva invaso. Provò a
strisciare sul pavimento, aiutandosi con braccia e gomiti, ma si spostò appena.
Guardava verso la porta
finestra, che sicuramente si affacciava su un terrazzo. Forse vi sarebbe potuto
uscire, prima dell’apertura, mattiniera, della biglietteria.
Pian piano, cinque o dieci
centimetri alla volta, riuscì a raggiungerla. A una leggera pressione dal basso
si aprì uno spiraglio, da cui poté vedere un
terrazzo. A fatica si mosse verso l’esterno, e riaccostò l’anta. Sdraiato
a terra com’era, con la sua lunghezza occupava tutta la larghezza del terrazzo
che, secondo il costume altoatesino, si era rivelato lungo e stretto. Poté,
così, affacciarsi al bordo e sbirciare la valle che si apriva sotto di lui, in
un verde continuo di boschi, già facile da intuire ai primi, timidi chiarori
dell’alba. Verso sinistra, vide in lontananza stendersi l’abitato con le forme
aguzze del Duomo gotico e dei campanili, i tetti rossi dei palazzetti intorno
alla piazza, sonnolenta nel silenzio della valle e la stretta via Portici, con
i negozi ancora chiusi. Ancor più a sinistra, la cabinovia che aveva iniziato
le sue salite verso l’altipiano del Renon, il quale si stendeva ridente davanti
a una catena di montagne, lasciando in
fondo valle la città.
Lo solleticava l’aria
pungente e profumata dell’aroma dei pini; tuttavia non sarebbe potuto rimanere più
a lungo in quel luogo, dove il guardiano non avrebbe inteso facilmente che si
era fermato per errore. Tanto più con quell’incapacità a camminare che ora lo
tormentava, dalla quale doveva intanto distogliere il pensiero, per non
disperarsi.
Decise di rientrare,
adesso che aveva trovato un modo per strisciare più celere, puntando entrambi i
gomiti a terra e facendo scattare il corpo all’indietro.
Provò a ritornare sotto il
‘suo’ affresco. Lo colpì la scena seguente, del cavaliere di prima ritornato in
sella, in procinto di avviare un nuovo percorso. Riuscì a scattare una foto,
anche se dal basso, con le braccia alzate al massimo. Ma subito, investito dalla
sia pur debole luce del primo mattino che filtrava dai tendaggi, nel timore
dell’arrivo di un sorvegliante strisciò come poteva sino al vecchio
ripostiglio. Con gran fatica, grazie a un movimento delle scarpe, riuscì a
spingere la pesante porta a cornice e ad
aprirsi una breccia. Fece scivolare
dentro, poco alla volta, le lunghe gambe. Arrivò al busto, a un braccio e alla
testa, immersi nel buio del piccolo ambiente, e infine all’altro braccio,
quando si sentirono dei passi nel salone retrostante. Fece appena in tempo a
lasciar scivolare la porta sul battente e si accesero le luci.
Disgraziatamente, quattro
dita di una mano, nella fretta erano rimaste imprigionate, così da essere
visibili all’esterno, vicino al pavimento. Né poteva spostare di nuovo la porta
molto pesante, sdraiato a incastro com’era, nell’abitacolo.
Rimasto al buio, ricordò
la foto che fece scorrere, per guardarla, sul piccolo schermo, subito
illuminato. Lo colpì il rosso della sella decorata, il marrone del pelo, l’oro
delle finiture. Si vide nei panni del cavaliere, prima disarcionato ma ora tornato in sella, mentre pensava al Ponte
Romano che avrebbe dovuto attraversare, una volta giunto a Merano, per
rientrare al suo accampamento sotto la montagna. Ponte che aveva percorso lui
stesso tempo addietro, in visita alla cittadina.
Udì, nel frattempo,
urletti di una voce femminile, al di là della porta.
“Guarda, una mano! Le dita
qua, vicino al pavimento... oh, cos’è? Oddio che impressione... chiamo il
guardasala...”
Sentì la donna
allontanarsi, senza vedere gli sguardi di altre persone lontane dal
comprendere, che la seguivano.
Nel frattempo, Orfeo smise
di osservare il cavaliere in foto di nuovo a cavallo, per concentrarsi su che
cosa fare. Subito, tuttavia, sentì le sue gambe che iniziavano a ritrovare energia.
Come fossero parte di un burattino che stava manovrando, anziché le proprie. Le
sentiva rianimarsi, e così il busto. Senza chiedersi il perché si risollevò a
sedere e, aiutandosi con l’altro braccio, spostò appena l’apertura della porta,
ritirando del tutto la mano.
Trasecolato, si mise in
piedi nell’angolo più nascosto del ripostiglio, dietro a un lungo drappo appeso
a un gancio.
In quel mentre tornava la
turista, con il guardasala. La signora guardò e ancora osservò, senza vedere le
dita di prima.
Il guardasala le chiedeva
che cosa avesse visto, ma lei, imbarazzata, insisteva che c’erano prima, ma ora
non più. L’altro le rivolse uno sguardo più divertito, che seccato.
“Un’allucinazione,
signora, mi permetta.”
“Ma no, si figuri, non mi
è mai successo!”
“Può capitare, prima o
poi, non si preoccupi.”, disse allontanandosi. “È un’allucinazione,
tra tutti questi affreschi. Nient’altro.
Esca a prendere un po’
d’aria.”
L’altra non seppe
rispondere. Balbettò delle scuse e, accompagnata ancora da altri sguardi,
s’avviò all’ingresso.
Orfeo ascoltò con
attenzione i passi che si allontanavano, attese il silenzio ed euforico, di
nuovo agile sulle gambe, sbirciò lo spazio libero davanti, spingendo la porta
di poco. Spinse ancora e riuscì a passarvi, senza farsi scorgere, per poi confondersi tra i gruppi in entrata e
guadagnare l’uscita.