UNA STORIA ITALIANA
di
Marco Vitale
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Silvio Novembre |
Silvio
Novembre: Il coraggio oltre il dovere
Qualche
giorno fa ho ricevuto una busta che, manifestamente, conteneva un libro. Ho
iniziato ad aprirla svogliatamente. Ma appena è emerso il suo contenuto ho
fatto un salto sulla seggiola, sorpreso, emozionato e commosso da questo dono
inatteso. Si trattava, infatti, di un libro dedicato ad una delle persone che
ho più stimato e a cui ho voluto bene: Silvio Novembre, Maresciallo della
Guardia di Finanza, nato ad Alseno, in provincia di Piacenza, il 12 luglio 1934
e morto a Milano il 28 settembre 2019 all’età di ottantacinque anni. Si può
voler bene a un maresciallo di finanza? Si può, quando è una persona come
Silvio Novembre. Vorrei condividere e spiegare il mio sentimento, anche con
l’aiuto di questo bel libro di Giandomenico Belliotti: Silvio Novembre, il
coraggio oltre il dovere (Gangemi Editore International, ottobre 2020, pagg.
110). Un libro molto bello per l’alta
qualità, grafica ed editoriale, per la storia che racconta, perché la storia
del Maresciallo Silvio Novembre è, in buona parte, storia del nostro Paese, per
come la racconta, con scrupoloso rispetto della verità attingendo alle migliori
fonti e dando ampio spazio alla testimonianza diretta del protagonista, persona
sempre riservata, che Belliotti è riuscito a raccogliere prima della sua
scomparsa. Perché, infine, libri come questo sono testimonianza preziosa
dell’Italia che non vogliamo dimenticare e che vogliamo far conoscere alle
nuove generazioni. Fra il 1974 e il 1979
lavorò a fianco dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della
Banca Privata di Michele Sindona offrendogli la sua più stretta collaborazione
e la sua fidata amicizia. È certamente questo il periodo più importante e di
maggior rilevanza pubblica della sua vita, che si intreccia in modo
indissolubile con quella di Ambrosoli: “Novembre
e Ambrosoli riuscirono insieme a far luce sulla rete delle complesse operazioni
finanziarie che il banchiere aveva intessuto, scoprendo l’interfaccia tra
attività palesi e occulte; individuarono il complesso intreccio tra affari,
politica, finanza, massoneria e criminalità organizzata e raccolsero le prove
inconfutabili che divennero il più solido e indistruttibile atto d’accusa
contro Sindona, sia in Italia che negli Stati Uniti. Una battaglia durata cinque anni, durante i
quali il Maresciallo e l’avvocato subirono pressioni di ogni genere, tentativi
di corruzione e minacce sempre più esplicite fino all’omicidio dello stesso
Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979 a Milano da un killer della mafia
italoamericana assoldato da Sindona. Una battaglia ad armi impari, contro un
male a volte invisibile, portata avanti con coraggio e determinazione, per far
trionfare il bene e l’interesse pubblico, senza mai cedere a ricatti e
lusinghe”. (Belliotti)
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Giorgio Ambrosoli |
Dopo
un inizio di rapporti non facile, alimentato da un’iniziale diffidenza reciproca,
Ambrosoli e Novembre diventarono del tutto complementari e la loro stretta
collaborazione, fiducia e poi amicizia, è la chiave di volta per capire come
riuscirono, insieme a fare piena luce su quello che resta se non il più grande
certamente il più complesso e significativo scandalo finanziario del dopoguerra
e quello, ancora oggi, più denso di insegnamenti.
Belliotti
offre una precisa ricostruzione dei passaggi più significativi di quegli anni
di fuoco, ma fa molto bene a inquadrarli in tutta la vita di Novembre. Perché è
attraverso la ricostruzione dell’intera vita di Novembre che il libro raggiunge
il suo obiettivo principale, così ben centrato, che Belliotti sintetizza con
queste parole. Il libro vuole essere: “Un
omaggio a quelli che sono spesso vittime silenziose di soprusi o del cosiddetto
promoveatur ut amoveatur e a tutti coloro che ogni giorno compiono fino in
fondo il proprio dovere, non anteponendo gli interessi personali a quelli
generali e restano fedeli alla propria coscienza, senza mai cedere a
compromessi, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi,
perché - come affermava il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald
Kennedy e amava ripetere il giudice Giovanni Falcone - è in ciò che sta
l’essenza della dignità umana. Nel loro armadio non ci saranno mai scheletri
mentre nel cassetto rimangono sempre custoditi i sogni di una società migliore
e di un ambiente di lavoro sano, con l’auspicio che un giorno possano
finalmente avverarsi e che a vincere siano la virtù dell’onestà, il valore
della giustizia, l’assunzione di responsabilità e la conquista del merito sul
campo”.
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Giovanni Falcone |
Il
motto di Silvio Novembre era: “più è difficile fare il proprio dovere, più
bisogna farlo”. E la sua vita sempre coerente a questo principio è
la migliore testimonianza di un uomo nel quale ci fu sempre continuità tra
pensiero, parola, azione.
Silvio
nasce, come già detto, ad Alserio in provincia di Piacenza, in una famiglia di
lavoratori con cinque figli. Ed anche Silvio incomincia presto a lavorare come
manovale presso la centrale idroelettrica dell’Edison di Piacenza. Qui conobbe
due Finanzieri in servizio presso la centrale Edison, ne fu affascinato e con
il loro aiuto, presentò domanda per entrare nel Corpo. Nel 1953, a 19 anni,
viene ammesso alla Scuola Alpina della Guardia di Finanza di Predazzo, per
seguire il corso allievi finanzieri. E qui si innamora del Corpo che per lui
sarà sempre il punto di riferimento, la casa alla quale sarà sempre e comunque
estremamente fedele. Sono belle le parole con cui Silvio ricorda questo
momento formativo decisivo. “I colleghi della mia squadra erano quasi tutti
meridionali e la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di sgombrare, con
badili e pale, il cortile della caserma dalla neve che in quei giorni era
caduta abbondante. Ricordo che il nostro capo squadra, il ‘vecchio’
appuntato Valle, vero maestro di vita, sciatore già appartenente al nucleo
sportivo delle Fiamme Gialle, che aveva partecipato anche alle Olimpiadi, ci ha
insegnato cosa vuol dire portare le stellette, le Fiamme Gialle, il senso di
appartenenza al Corpo, il significato del giuramento, l’importanza della Costituzione
e degli articoli più importanti, il perché bisogna osservarla sempre e
comunque. Nonostante la fatica, è stato uno dei periodi più belli della mia
vita. In quella sede ho capito che occorre mettersi in testa che le cose vanno
sempre fatte al meglio delle nostre possibilità anche se il risultato finale
non rispecchia appieno le nostre aspettative”.
Il
giovane Silvio è molto attivo e seriamente impegnato e quindi si fa strada
rapidamente in varie località italiane. Nel 1962 si sposa con Assunta Galasso di
San Michele al Tagliamento, che ha conosciuto quattro anni prima. Nel 1963, con
il grado di brigadiere, viene aggregato al Nucleo di Polizia Tributaria della
Guardia di Finanza di Brescia, la mia città, do ve si fermerà per otto anni e
dove nasceranno le sue due figlie. Allora non conobbi Silvio perché la mia
attività mi aveva portato fuori Brescia, prima a Roma e poi, dal 1962, a
Milano. Ma ricordo però che, in quegli anni, un ufficiale della Guardia di
Finanza di Brescia mi disse che Brescia era, allora, considerata la capitale nazionale
delle fatture false.
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Veduta di Brescia |
Fu proprio negli otto anni passati a Brescia che Silvio
mostrò doti investigative e tenacia non comuni che, oltre a meritargli numerosi
encomi nell’ambito del Corpo, lo lanciarono verso incarichi sempre più
complessi. Nel 1966, a 32 anni, viene nominato Maresciallo ordinario, nel 1971
è promosso Maresciallo capo e subito dopo viene trasferito al Nucleo Regionale
della Polizia Tributaria di Milano, la frontiera più impegnativa della lotta
contro i reati finanziari e, nel 1976, operando nel gruppo Sezioni Speciali con
competenza di polizia tributaria e di verifiche fiscali, viene promosso
Maresciallo Maggiore. È in questi anni che, nel 1974, gli viene affidato
l’incarico di guidare una squadra di finanzieri con particolare competenza in
materia economico-finanziaria che era stata richiesta al Comando dal sostituto
procuratore Guido Viola, da affiancare all’avvocato Ambrosoli, commissario
liquidatore della Banca Privata Italiana, facente capo a Michele Sindona. Sul
lavoro di quella squadra Silvio Novembre racconta: “Sei
militari in tutto. Un tenente, un Maresciallo maggiore, due Marescialli e due
Brigadieri anche se, dopo breve tempo, siamo rimasti solo in quattro. Io e i
colleghi Francesco Carluccio (poi diventato Ufficiale), Orlando Gotelli e
Gaetano De Gennaro. Insieme, abbiamo cercato di ricostruire l’universo di
Michele Sindona: i cammini del malaffare, le alchimie e i marchingegni
finanziari, la fitta ragnatela dei depositi fiduciari e delle operazioni sui
cambi e il mosaico delle misteriose società ombra con sede nei paradisi
fiscali. Certo che si rimane increduli quando si legge che nel 1975 lo stesso
bancarottiere, dopo essere fuggito negli Stati Uniti, teneva una serie di
conferenze nelle università americane, parlando anche di inflazione e
affermando che “il pubblico,
l’investitore, il risparmiatore, che impiegano il proprio denaro in società che
espongono dei valori o dei risultati che nulla hanno a che vedere con
l’effettiva realtà economica dell’impresa, vengono oggi legalmente ingannati e
sono soggetti spesso a spiacevoli sorprese”.
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Michele Sindona |
All’inizio
i rapporti con Ambrosoli non furono, come già detto, facili come narra lo
stesso Novembre. Ambrosoli, consapevole, ma non spaventato, della complessità
del compito che gli era stato affidato, dell’esistenza di una forte rete di
potenti protettori di Sindona, della grande abilità manovriera e corruttrice
dello stesso, della solitudine totale in cui era stato abbandonato, con
l’eccezione del nuovo vertice della
banca d’Italia (Paolo Baffi), di operare in una città che solo due anni prima
adorava Sindona come un genio della finanza, un modello di professionalismo moderno
ed avanzato, un uomo capace di avere al suo servizio alcuni dei più bei nomi
della Bocconi; consapevole di tutto questo ma determinato a portare a termine
il proprio compito, Ambrosoli, era diffidente verso tutti, compresa la Guardia
di Finanza ( in quegli anni al centro di un grave scandalo come ricorda lo
stesso Silvio Novembre) e temeva ogni interferenza.
I
compiti assegnati ai due uomini erano diversi, ma anche convergenti. Ambrosoli,
come liquidatore, doveva cercare di ricuperare il ricuperabile a favore dei
creditori della banca e rispondeva a chi l’aveva nominato, cioè alla Banca
d’Italia, fortunatamente allora guidata da Paolo Baffi. Silvio Novembre e i
suoi dovevano rintracciare e ricostruire prove e indizi di reati, a tutela
della fede pubblica e della legalità e il loro referente era il sostituto
procuratore della Repubblica, Dott. Guido Viola. Ma ben presto i due uomini si
parlarono, si chiarirono, si intesero e iniziò una stretta e formidabile
collaborazione e le storie personali confluiscono in una storia comune. Tutta
la storia è ormai ben nota sino al tragico epilogo dell’assassinio di Giorgio
Ambrosoli e alla condanna di Sindona per doverla ripetere qui. È più importante
ragionare sulla stessa e sul suo significato.
Avendo
avuto l’occasione di seguire abbastanza da vicino l’ascesa e il crollo di
Sindona e la mirabile opera di Giorgio Ambrosoli e di Silvio Novembre e dei
validissimi professionisti che collaboravano con loro, posso dire che il loro
successo, che di successo si tratta, è frutto di quattro fattori principali.
Il
primo è la grande competenza tecnica-professionale di entrambi che ha loro
permesso di smontare tutte le difese, gli intrecci, i castelli montati da
Sindona, certamente personaggio di grandi capacità manovriere e di elevata
creatività.
Il
secondo è un impegno spasmodico, senza riserve, senza risparmio, sacrificando
ogni cosa a quello che sentivano come loro dovere.
Il
terzo, che è poi la base e la spiegazione del secondo, è che entrambi erano
consapevoli che quello che facevano, che i sacrifici che facevano e imponevano
alle loro famiglie, era per un bene più alto, era per dare un importante
contributo al bene comune, alla nostra collettività, alla nazione italiana che,
attraverso loro e la loro opera voleva testimoniare di essere formata anche da
tanti cittadini per bene.
Il
quarto è che nessuna competenza tecnica sarebbe stata sufficiente se questi due
uomini non avessero avuto un livello assoluto di intransigenza a difesa della
loro dignità e della loro professionalità. Dovevano agire così per sentirsi
uomini e professionisti dignitosi, per esistere come uomini.
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Giulio Andreotti |
Solo
chi ha seguito l’entità delle pressioni di ogni tipo che furono esercitate
contro questi uomini dalle più alte istituzioni, come il presidente del
Consiglio Andreotti e dal suo fido
sottosegretario Evangelisti (illustrate e documentate nella Cronaca breve di
quei giorni da un altro grande galantuomo, il governatore della Banca d’Italia,
Paolo Baffi), come alcuni altissimi magistrati, come gli ambienti della finanza
vaticana che operava intorno allo IOR, come quei dirigenti della Guardia di
Finanza che progettavano di trasferire Silvio Novembre (e ci fu una volta in
cui l’ordine di trasferimento al distaccamento del Monte Bianco stava per
essere firmato), come i tanti tentativi di corruzione, come le telefonate
notturne, minacciose e insultanti, solo chi ha seguito tutto questo e lo ha poi
ritrovato in libri come “Un eroe borghese” di Corrado Stajano e nel film dallo stesso titolo con regia di Michele
Placido, può capire perché il ricordo di questi uomini e di questa storia, di
questa Italia bella e positiva non può e non deve andare perduta. Vi è solo un
punto, non minore, sul quale non sono mai stato d’accordo con certi argomenti
emersi nella letteratura successiva e tardiva su questa drammatica storia, che
ha profondamente caratterizzato cinque anni cruciali nella storia italiana. Si
dice, e questo lo dice anche Belliotti, che uomini come Novembre erano alti
servitori dello Stato. È una affermazione che non mi convince per due motivi.
Prima di tutto uomini come Novembre non sono mai servitori di nessuno e
tantomeno dello Stato. Ciò che li guida non è lo Stato ma la loro fede
interiore nella dignità dell’uomo, nel valore assoluto della professionalità (“più
è difficile fare il proprio dovere, più bisogna farlo” Silvio Novembre), il
loro “coraggio oltre il dovere”. Nel caso di Novembre io ci leggo
anche la fedeltà al Corpo che l’aveva accolto e formato negli anni giovanili e
al mandato che allora, in quella sede, gli fu affidato. La volontà di non
tradire quel mandato. La volontà di non perdere mai la dignità di essere un
uomo libero.
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Max Hamlet "Cospiratore al telefono" |
Altro che servitore. Tutto questo io leggo nella bellissima
fotografia del volto di Silvio che da sola racconta tutto ciò che c’è nel
libro: un volto forte, dignitoso, distaccato che guarda lontano, nel profondo
dell’animo umano, e delle sue dolorose ma non umilianti vicende. Un volto e uno
sguardo degni di Antonello da Messina. Il secondo motivo è che non conosco
altre storie che più di questa dimostrino l’ambiguità della parola Stato. Anni
fa, se ricordo bene nell’introduzione di un libro di Umberto Ambrosoli, Carlo
Azeglio Ciampi, ha scritto questa frase che anche Bellotti riprende: “Quel
colpo sparato ad Ambrosoli era destinato al cuore dello Stato, inscrivendosi
l’episodio in un clima inquietante e torbido di intrecci tra malavita e forze
eversive, che puntavano alle Istituzioni con un disegno destabilizzante non
dissimile, nei suoi esiti, da quello perseguito dal terrorismo, dalla lotta
armata” (Carlo Azeglio Ciampi).
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La lapide che ricorda il sacrificio di Giorgio Ambrosoli in via Morozzo della Rocca a Milano |
Quando
anni fa lessi queste parole scrissi ad Annalori Ambrosoli dicendo che si
trattava di una lettura non accettabile, riducendo la vicenda a un torbido
intrigo di malavita e di terrorismo. Quel colpo sparato ad Ambrosoli non era
destinato al cuore dello Stato, non era un episodio da ricondurre a intrecci
tra malavita e forze eversive, non aveva niente a che fare con il terrorismo e
con la lotta armata. Era diretto al cuore di Ambrosoli, all’uomo Ambrosoli, per
punirlo della sua irriducibile dignità e libertà, per il suo “coraggio oltre il
dovere”. Era un colpo che, in ultima analisi, caso mai veniva dallo Stato o,
almeno, da parte rilevante dello Stato. O non erano Stato quelli che avevano
accompagnato e cresciuto quel giovanotto di Patti al vertice della vita
economica e bancaria, sino a farne uno “degli uomini più potenti dell’epoca,
sostenuto dalla politica, dalla massoneria e da ambienti vaticani, un genio del
male e della finanza senza scrupoli, il banchiere della mafia” (Novembre)? E
non erano Stato i partiti che da Sindona avevano accettato tanti soldi? E non
erano Stato quegli alti magistrati che hanno firmato “affidavit” a favore di
Sindona per le autorità americane? E non era Stato il presidente del Consiglio
e il suo sottosegretario che tanto si agitarono per far passare, orrendi schemi
di salvataggio a favore di Sindona e a spese dei cittadini italiani? E non
erano Stato quegli alti comandi della Guardia di Finanza che stavano assecondando
le pressioni di chi voleva far trasferire il Maresciallo Novembre sino al Monte
Bianco? La verità era che la grande maggioranza dei poteri dello Stato stava
dalla parte di Sindona e solo la schiena diritta di pochi uomini. Ambrosoli,
Novembre, Baffi, Sarcinelli, fecero quadrato a favore della nostra comunità,
della nostra comunanza civile, dell’Italia per bene.
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C. A. Ciampi |
Il
1979 è stato l’anno orribile. Oltre all’uccisione di Ambrosoli ci fu l’attacco
a Paolo Baffi e a Sarcinelli e, attraverso le loro persone, alla Banca
d’Italia. Novembre (allora quarantacinquenne) in quell’anno perse anche la
moglie, da tempo malata. Silvio Novembre ha scritto: “Chi resta vivo si
sente un sopravvissuto come accadde a me e come accadde anche al giudice Paolo
Borsellino dopo la morte del collega e amico Giovanni Falcone e ai rispettivi
agenti della loro scorta nel 1992”. Ma Novembre continua il suo
impegno, e proprio durante le indagini sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli,
condotte dai magistrati Giuliano Turrone e Gherardo Colombo, contribuì alla
scoperta della Loggia massonica segreta P2, nella quale era iscritto un numero
impressionante di c.d. servitori dello Stato, che fece emergere. “un sistema
di potere occulto ed eversivo che aveva provato in tutti i modi a condizionare
il nostro lavoro e che costituiva la chiave di lettura di molti fatti e vicende
vissute anche a livello personale quando avevano cercato più volte di
trasferirmi” (Novembre). E attraverso la P2 e Gelli l’opera di Novembre si
salda con la vicenda del crollo del Banco Ambrosiano, dell’assassinio del
generale Dalla Chiesa, con l’altro anno terribile delle stragi del 1992, con i
nostri giorni. Scrive amaramente Novembre: “Dopo ‘Mani Pulite’ e le
stragi di Capaci e di via d’Amelio a Palermo nel 1992 sembrava davvero che il
sacrificio di Ambrosoli prima e dei giudici Falcone e Borsellino poi, avessero
contribuito a risvegliare le coscienze. Poi in un batter d’occhio, tutto si era
dissolto come se la memoria collettiva avesse preferito dimenticare. E
l’indifferenza del potere politico di fronte alla storia nobile di questo paese
continuava ad essere disarmante”.
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Licio Gelli |
Dunque,
questi uomini veri, questi uomini nobili hanno scritto una storia esemplare
nell’eterna lotta contro il malaffare ed è una lotta che getta un ponte tra
Milano e Palermo. Ambrosoli e Novembre erano nordisti che lottavano contro
Sindona, un siciliano doc che a Milano aveva imparato a realizzare i suoi
affari e le sue malefatte, che a Milano era stato valorizzato e applaudito da
una larga platea con la benedizione del Vaticano di allora. A Novembre era
chiarissima la continuità tra la loro opera e quella dei Dalla Chiesa, dei
Falcone e Borsellino e dei tanti eroi civili della magistratura, delle forze
dell’ordine e dei pochi, pochissimi politici (Mattarella, presidente della
Regione siciliana) che hanno operato sul fronte del Sud ma nell’interesse di
tutti. È una lotta che non finirà mai e che avrà bisogno di altri eroi.
Riusciremo mai ad affiancare l’opera di questi nobili e coraggiosi italiani con
un altro ponte tra Nord e Sud che venga eretto dai costruttori dell’economia,
da altri uomini di buona volontà impegnati a dare un senso più profondo e
duratura alla costruzione di una “buona economia” secondo la raccomandazione
che, un giorno, mi rivolse il giudice Falcone: “Fate buona economia?”. Anche
per creare a noi la possibilità di “fare buona economia”, questi uomini nobili
del Nord e del Sud si sono impegnati allo spasimo, alcuni cadendo sul campo,
altri, come Novembre, sopravvivendo con la tristezza nel cuore.
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C. A. Dalla Chiesa |
Nel
1982, Novembre, decide di lasciare le Fiamme Gialle, ma non il suo impegno
personale e civico. Dopo l’uccisione di Giorgio Ambrosoli, Silvio fu una
presenza discreta ma affettuosa e preziosa a fianco di Annalori Ambrosoli,
impegnata nel difficile compito di far crescere i suoi piccoli bambini, E poi,
quando questi crescono, fu sempre impegnato, anche insieme a loro, nel coltivare
e divulgare la memoria di Giorgio Ambrosoli e il senso del suo impegno e del
suo sacrificio. Il senso dell’opera di Novembre è stato ben compreso e ben
motivato dal Comune di Milano che il 7 dicembre 2014 gli ha conferito
l’Onorificenza dell’Ambrogino d’oro con questa precisa motivazione:
“Maresciallo
della Guardia di Finanza, ha indagato per conto della Procura della Repubblica
di Milano sul fallimento della Banca Privata Italiana. Con abnegazione ed
altissima competenza tecnica, ha collaborato con il commissario liquidatore,
avvocato Giorgio Ambrosoli, standogli vicino ben oltre gli stretti obblighi di
servizio. Ha contribuito poi, con i commissari liquidatori del Banco
Ambrosiano, alla tutela degli interessi collettivi. Fondatore del Circolo
Società Civile, ha diffuso in città e nelle scuole il valore della legalità,
dell’integrità e della lotta alla corruzione. Milano onora in Silvio Novembre
un esempio di servizio generoso e instancabile alle Istituzioni”.
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Paolo Borsellino |
Anche
Novembre, come tanti si pose talora la domanda: ma ne valeva la pena? E vale la
pena di leggere la risposta che si dà, raccolta da Giandomenico Belliotti, al
quale sono grato: “Alcune volte, guardando la foto di Giorgio che tengo sul
comodino, provo a chiedergli: “è servito dare la vita per poi finire come siamo
finiti?” ma non ho mai pensato che il suo sacrificio sia stato inutile. Anzi,
negli anni successivi alla sua scomparsa, quando continuai a frequentare la sua
famiglia, ho sempre parlato con la moglie Annalori e i suoi amici di come
rendere sempre viva e attuale la sua memoria per fare in modo che non venisse
mai dimenticato dalla società. Riflettendo, non si comincia dal tetto a fare le
case, bisogna fare anche il lavoro umile, che è quello che porta le basi. Molto
probabilmente, insieme a Giorgio, noi abbiamo posto solo un piccolo granellino
in quella costruzione, ma è stato un granellino che non è andato disperso. Noi
abbiamo fatto qualcosa che ha rotto una certa consuetudine, un certo modo di
pensare”.
Anche
io mi sono spesso posto la stessa domanda e la mia risposta è sempre stata
positiva. Ed è ancora più positiva dopo aver letto questa bella storia italiana
come l’ha raccontato Giandomenico Belliotti: con precisione, senza retorica ma
con profonda partecipazione. Al funerale di Ambrosoli, erano presenti solo i
familiari e gli amici più intimi; la città nelle sue istituzioni era del tutto
assente con l’eccezione di Paolo Baffi e dei giudici che avevano indagato sul
fallimento di Sindona. E il Sole 24 Ore, il giornale dell’economia, dedicò
all’evento 12 righe in una rubrica di cronaca minore. Ai funerali del
Maresciallo Silvio Novembre, il 30 settembre 2019, la Chiesa era gremita, oltre
che con i familiari di Novembre e gli amici di sempre, con in prima fila la
famiglia Ambrosoli, da tanti colleghi della Guardia di Finanza con il
Comandante Generale della Guardia di Finanza, Generale del Corpo d’Armata
Giuseppe Zafarana, il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, un
rappresentante del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa e tanti altri. Insomma,
mentre il trombettiere suonava le note del silenzio d’ordinanza (secondo un
desiderio espresso da Silvio alle figlie Caterina e Isabella), questa volta la
Città c’era. Segno non equivoco che quel “granello” (seme) di cui parlava
Silvio è cresciuto.
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La copertina del libro |
E
un altro segnale me lo manda un ventenne di oggi che scrive: “Pochi giorni
fa abbiamo ricevuto questo libro dal titolo: ‘Silvio Novembre, il
coraggio oltre il dovere’. La prima volta che l'ho preso in mano ho sentito
l'esigenza di sfogliare pagina per pagina, con delicatezza e attenzione, come
quando si tiene in mano qualcosa di prezioso. Ho riletto ogni passaggio,
ho riguardato con tenerezza e nostalgia ogni immagine e ho avvertito quanto
questo racconto fosse pieno di vita, di una vita vissuta a pieno. Mi sono reso
conto effettivamente di avere tra le mani una cosa preziosa. Invito
tutti a leggere questo libro e riscoprire la figura esemplare di Silvio
Novembre, un uomo che ha saputo vivere la sua professione come un vero e
proprio servizio al Paese, non solo nelle azioni ma anche poi nella
testimonianza che si fa impegno nelle generazioni. [Stefano Mattachini]”.
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Giandomenico Belliotti autore del libro |
Se
un ventenne di oggi scrive queste parole e nutre questi sentimenti, vuol dire
che l’opera di questi nobili italiani non è stata vana e che non nutrire la
speranza che l’Italia nobile che essi rappresentano ce la faccia, è peccato
mortale, è un lusso che non possiamo permetterci.